>> Il Dio carcerato <<
(1^ puntata)
«
(…) l’impegno è nel senso di garantire che a tutti i detenuti
sia
garantita la possibilità di praticare la propria religione (…) »
Giancarlo
Caselli (1)
Carcere e
religione. Un connubio che, di primo acchito, ci ricorda che il
detenuto ha commesso un peccato-reato. E che quindi sta lì dentro
per essere teoricamente rieducato, per riflettere nel profondo della
sua coscienza sulla propria condotta negativa.
In carcere
però ci si può facilmente scoraggiare, sconfortare. Fino al
suicidio. Ecco dunque che, per alcuni, subentra una sete di
spiritualità, una sete di religiosità. Per molti detenuti riaffiora
la voglia di pregare, di colloquiare con il proprio Dio.
Per molti
dei detenuti rispolverare il proprio credo significa aggrapparsi alla
vita che lì, dentro alla propria cella sovraffollata ed in
condizioni a dir poco disumane, altrimenti non avrebbe nessun senso,
nessuno scopo.
Aggrapparsi
al dialogo con Dio è utile soprattutto al detenuto per non
annichilirsi completamente. Per vedere la luce della speranza dentro
di lui. Per il suo recupero in umanità, dignità e sensibilità. Per
la redenzione.
Ma il
problema è che in carcere oggi è stracolmo di detenuti stranieri,
uomini e donne, che rappresentano una umanità variegata che si
esprime in tutte le lingue ed idiomi del mondo.
Di
conseguenza sono presenti parecchi uomini e donne appartenenti alle
grandi religioni e confessioni cristiane storiche: protestantesimo,
cattolicesimo, islamismo, buddismo, hinduismo, ma anche molti
stranieri dediti ai culti dei Testimoni di Geova, degli Avventisti
del Settimo Giorno, degli evangelici etc.
Ci sono poi
quelli che si definiscono “non credenti”, quei detenuti cioè che
affermano genericamente di non essere interessati ai problemi
religiosi, senza però sentirsi o dichiararsi atei, mentre si possono
incontrare anche detenuti che si disinteressano al problema religioso
e di spiritualità.
******
Certo,
in carcere bisogna trovare un senso a tutte quelle ore passate in
cella guardando il soffitto. Un senso alla propria vita, una
necessaria risposta all’aumentare dell’intensità dello
sconforto. Per evitare che la segregazione di quella scatoletta
chiamata cella non diventi luogo della disperazione più totale e
porti all’annichilimento definitivo della persona. Ecco dunque che
alcuni, molti, o pochi che siano non importa, tentano di credere ed
affidare il proprio destino ad un Volontà Superiore.
Ma
la struttura penitenziaria ha pensato anche a quello, all’assistenza
spirituale, alla fede ed al culto religioso, se lo si desidera. L’
“offerta” istituzionalizzata, almeno in Italia, è data dal
cristianesimo per mezzo del cappellano che può essere cattolico o
evangelico in virtù delle Intese con lo Stato centrale, stipendiato
e quindi “dipendente” statale.
E
c’è anche una cappella per la celebrazione delle funzioni
religiose.
Mentre
per gli altri culti e religioni c’è più difficoltà ad essere
“istituzionalizzati” da parte del nostro Stato italiano e ad
entrare nelle strutture carcerarie perché non vi sono Intese “ad
hoc”.
Eppure
la richiesta di assistenza spirituale e di fede è molto alta, in
percentuale dicono sia più alta del mondo esterno: in carcere si
cerca il cappellano come conforto, come appoggio morale e materiale
«frutto della centrifugazione di dolore e sofferenza che la
cattività opera sui suoi “utenti”».(2)
(1) Italia: l'amnistia vista da fuori
- Roma, giugno 2000 - http://www.paololandi.it/giornal/caselli.htm
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