martedì 27 novembre 2012


>> Il Dio carcerato <<
(1^ puntata)



« (…) l’impegno è nel senso di garantire che a tutti i detenuti
sia garantita la possibilità di praticare la propria religione (…) »
Giancarlo Caselli (1)



Carcere e religione. Un connubio che, di primo acchito, ci ricorda che il detenuto ha commesso un peccato-reato. E che quindi sta lì dentro per essere teoricamente rieducato, per riflettere nel profondo della sua coscienza sulla propria condotta negativa.
In carcere però ci si può facilmente scoraggiare, sconfortare. Fino al suicidio. Ecco dunque che, per alcuni, subentra una sete di spiritualità, una sete di religiosità. Per molti detenuti riaffiora la voglia di pregare, di colloquiare con il proprio Dio.
Per molti dei detenuti rispolverare il proprio credo significa aggrapparsi alla vita che lì, dentro alla propria cella sovraffollata ed in condizioni a dir poco disumane, altrimenti non avrebbe nessun senso, nessuno scopo.
Aggrapparsi al dialogo con Dio è utile soprattutto al detenuto per non annichilirsi completamente. Per vedere la luce della speranza dentro di lui. Per il suo recupero in umanità, dignità e sensibilità. Per la redenzione.
Ma il problema è che in carcere oggi è stracolmo di detenuti stranieri, uomini e donne, che rappresentano una umanità variegata che si esprime in tutte le lingue ed idiomi del mondo.
Di conseguenza sono presenti parecchi uomini e donne appartenenti alle grandi religioni e confessioni cristiane storiche: protestantesimo, cattolicesimo, islamismo, buddismo, hinduismo, ma anche molti stranieri dediti ai culti dei Testimoni di Geova, degli Avventisti del Settimo Giorno, degli evangelici etc.
Ci sono poi quelli che si definiscono “non credenti”, quei detenuti cioè che affermano genericamente di non essere interessati ai problemi religiosi, senza però sentirsi o dichiararsi atei, mentre si possono incontrare anche detenuti che si disinteressano al problema religioso e di spiritualità.

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Certo, in carcere bisogna trovare un senso a tutte quelle ore passate in cella guardando il soffitto. Un senso alla propria vita, una necessaria risposta all’aumentare dell’intensità dello sconforto. Per evitare che la segregazione di quella scatoletta chiamata cella non diventi luogo della disperazione più totale e porti all’annichilimento definitivo della persona. Ecco dunque che alcuni, molti, o pochi che siano non importa, tentano di credere ed affidare il proprio destino ad un Volontà Superiore.
Ma la struttura penitenziaria ha pensato anche a quello, all’assistenza spirituale, alla fede ed al culto religioso, se lo si desidera. L’ “offerta” istituzionalizzata, almeno in Italia, è data dal cristianesimo per mezzo del cappellano che può essere cattolico o evangelico in virtù delle Intese con lo Stato centrale, stipendiato e quindi “dipendente” statale.
E c’è anche una cappella per la celebrazione delle funzioni religiose.
Mentre per gli altri culti e religioni c’è più difficoltà ad essere “istituzionalizzati” da parte del nostro Stato italiano e ad entrare nelle strutture carcerarie perché non vi sono Intese “ad hoc”.
Eppure la richiesta di assistenza spirituale e di fede è molto alta, in percentuale dicono sia più alta del mondo esterno: in carcere si cerca il cappellano come conforto, come appoggio morale e materiale «frutto della centrifugazione di dolore e sofferenza che la cattività opera sui suoi “utenti”».(2)

(1) Italia: l'amnistia vista da fuori - Roma, giugno 2000 - http://www.paololandi.it/giornal/caselli.htm

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