lunedì 12 novembre 2012


>> Il Tempo è memoria <<

(10^ puntata)


"Proteggi i ricordi, le fotografie, le prove scritte che sei esistito.
Se tutto brucia, se perdi tutto, se ti prendono tutto, dovrai dimostrare a te stesso che una volta ERI".
Nedzad Makjumic, poeta bosniaco




C’è qualcuno che ha perso la memoria. In Italia soprattutto. E soprattutto su avvenimenti scomodi della storia che sarebbe stato meglio non fossero mai avvenuti. No, non perché è malato di Alzehimer, no.
C’è qualcuno nel nostro Paese che vuol far finta di nulla, come se alcuni drammi non fossero mai accaduti. Una sorta di revisionismo forti del fatto che gli italiani facilmente ricacciano tutto nell’oblìo.
Si vuole, insomma, cancellare la memoria storica anche e soprattutto di tragici eventi come lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti.
Arrivando persino a far studiare ai nostri giovani a scuola su libri di storia “rivisitati” secondo il più becero e vigliacco revisionismo storico che taluni vorrebbero applicare.
Forti del fatto che tanto gli ex-internati sono ormai quasi tutti scomparsi, oppure sono vecchi ed innocui. Ma ciò non può succedere. Sì, certo mi si dirà: ogni anno il 27 gennaio celebriamo il “Giorno della memoria” voluto dal nostro Parlamento con decreto legge. E’ un giorno importantissimo, per non cancellare la memoria di quei tragici eventi, per ricordare che ciò che è stato non si venga a ripetere mai più. E’ necessario tramandare “di generazione in generazione” . Perché «attraverso la narrazione si cresce e si scoprono eventi legati alla quotidianità e circoscritti, compresi in avvenimenti globali, universali, collettivi, comunitari, storici»(1).
E’ quindi necessario fare sforzi ed esercizi legati alla memoria, proteggendo i ricordi, le storie e tramandandole. Soprattutto poi se riguardano fatti drammatici come la Resistenza o la deportazione nei campi di concentramento. La memoria è importante anche perché dagli errori commessi nel passato si può guardare all’oggi senza più ripeterli, cercando di ovviare ad essi. «Possiamo raccontare ai nostri giovani piccole storie esemplari di espropriazioni, di resistenza, una delle armi più straordinarie contro tutti i tipi di revisionismo storico, da quello più infame, ma forse più facile da combattere, il negazionismo perché talmente grossolano e stupido nelle sue argomentazioni, confutabile mostrando i documenti e facendo parlare i testimoni, a quello più raffinato del conteggio delle vittime»(2). Nelle facoltà umanistiche delle università italiane si insegna un metodo pedagogico che consiste proprio in una sorta di Pedagogia Narrativa, dove ci si racconta nelle tradizioni, sforzandosi ad operare una forma di autonarrazione di sé, di scavo interiore, con l’aiuto  reciproco nell’ascolto e nella ricerca in sé stessi tramite l’altro: una sorta di autocomprensione e comprensione della propria e dell’altrui unicità ed individualità fatta sia di sofferenze che di gioie.
Tutto ciò si dimostra utile nei confronti delle nuove generazioni che si presentano generalmente «più superficiali, più incapaci di mantenere l’attenzione, ma la sensibilità dei ragazzi nei confronti di queste tematiche è ancora notevole, perché si innamorano delle storie di resistenza, delle vicissitudini umane di sofferenza che leggono nei testi e nelle testimonianze dei superstiti sopravvissuti ai lager»(3).
E’ necessario dunque che questi ragazzi, questi giovani oggi siano stimolati a reagire ad una società sempre più indifferente, razzista e xenofoba, soprattutto quella che è oggi l’Italia.
Tutti noi, soprattutto i giovani d’oggi, devono saper «entrare in una tensione di ricerca, indagine interrogativa: come è stato possibile?»(4). A questo tipo di domanda che riguarda un pezzo della nostra narrazione della triste storia passata si può rispondere «attraverso la Pedagogia concreta dei gesti»(5) che illumina gli occhi e ci guidano nella comprensione di «cosa sono i fenomeni di espropriazione, alienazione, violenza. Il campo di sterminio è stato un laboratorio pedagogico dove i nazisti hanno cercato in tutti i modi di “costruire soggetti distrutti”: ossimoro, contraddizione in cui nasce un’antropologia, un setting pedagogico dove si formula l’annientamento, dove è possibile studiare le pratiche di resistenza nei campi, con la consapevolezza che chi ha resistito è riuscito, in qualche modo, a mettere in atto strategie, una contropedagogia, una ”pedagogia della resistenza”, minimale, infinitesimale, fatta di brandelli di piccoli gesti, minimi spazi, misere, povere cose, di tempi infinitesimali sottratti al tempo preciso, altamente sistematico, precostituito dello sterminio. Questo è il tentativo di raccontare, tramandare, narrare, la resistenza, la deportazione, la liberazione»(6).
Sono dunque importantissime le testimonianze come quella che segue. Per rinfrescarci la memoria. Per non dire un domani: “io non sapevo, a me non l’hanno mai detto!” e frasi simili.
Possiamo dunque convenire con Heinrich Böll che «una società senza memoria è una società malata».

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Natale Pia kz 115658 Mauthausen-Gusen e nipote di Vittorio Benzi kz 115373 morto di fame e fatica a Mauthausen-Gusen a 17 anni, Biagio Benzi kz 43493 superstite di Flossenbürg e Giovanni Benzi, kz 7332 superstite di Bolzano, tutti partigiani vittime del rastrellamento avvenuto nella zona di Nizza Monferrato il 3 dicembre


Mi sono deciso a scrivere la mia storia dopo più di 55 anni per diversi motivi, non ultimo la mia carta d’identità la quale mi dice che io non sono un’eccezione e la fine non può essere lontana. Finirà con me la possibilità di testimoniare verbalmente come sto ancora facendo. Noto un grande interessamento da parte di chi non ha vissuto quei tempi terribili e trovo giusto che continuino a conoscerli tramite chi li ha vissuti sulla propria pelle.
Non trovo faticoso il ricordare perchè noi sopravvissuti le cose che raccontiamo le portiamo dentro come fossero successe ieri.
Grazie all’impegno di bravi insegnanti che lavorano anch’essi a tutela della memoria di questo passato ancora recente, spesso vengo invitato nelle scuole a parlare agli studenti, nei quali noto  un interessamento e una partecipazione sinceri, soprattutto quando li accompagno a visitare i luoghi nei quali si sono realizzate le atrocità di cui parlo. La loro commozione e il sincero impegno a non dimenticare e a non far dimenticare affinchè non debbano più accadere così grandi tragedie mi gratifica e mi fa sentire meno in debito nei confronti di coloro che in quei luoghi hanno perso la vita lasciando a noi sopravvissuti il dovere morale di testimoniare.
Mi succede a volte che conoscenti che mi sanno per l’ennesima volta in partenza per un nuovo pellegrinaggio mi dicano pensando di scherzare: «ma allora ci sei stato bene in quei luoghi, che ci torni così spesso!»
Io non ho mai dimenticato le migliaia di persone che hanno sofferto tanto quanto me ed anche di più e alla fine hanno trovato la morte; la morte di per sè è sempre brutta, ma soffrire l’inverosimile per poi morire è veramente tragico.
Non dimentico nemmeno quei momenti di guerra quando le pallottole fischiavano ed arrivavano da tutte le parti, chi mi assicura che non ce ne fosse una indirizzata a me se non ci fosse stato un altro che l’ha fermata prima? E quell’ipotetico mio salvatore perché non dovrei andare a ricordarlo?
Vi tornai la prima volta nella ricorrenza del decimo anniversario della liberazione ed entrare ancora a Mauthausen ed a Gusen fu per me un vero trauma.
Emozionato e con le gambe tremanti provai ad uscire ed a rientrare un po’ di volte, fino a quando mi rinfrancai e potei completare con il groppo alla gola il mio percorso della memoria, ricordando le enormi sofferenze patite da me e dai compagni che non sono tornati; fu allora che mi ripromisi di tornarvi ogni volta mi fosse stato possibile.
Iniziai a tornarvi ogni 5 anni in compagnia di mia moglie, poi nel ‘65 accompagnai con il mio pulmino che mi serviva per il lavoro adattato a camper tutta la famiglia, anche se il più piccolo dei miei figli aveva solo 4 anni; venne anche la sorella più giovane di mia moglie e in quell’occasione deponemmo sul retro del monumento italiano di Mauthausen una lapide in ricordo di Vittorio, il mio giovane cognato deportato con me in quell’inferno ma che ho quasi subito perso di vista: i documenti lo danno come morto il giorno del suo diciottesimo compleanno. Ricordo che dal forno crematorio di Gusen, allora senza la protezione del memoriale, potemmo prelevare un po’ di poveri resti che portammo a casa a mia suocera che li custodì con amore e li volle con sé nell’ultima dimora.
Da allora io e mia moglie siamo tornati spesso, anche in compagnia di giovani studenti accompagnati dai loro insegnanti, o con i nostri nipoti più grandi.
Sono ormai passati oltre cinquant’anni da quegli eventi ma quando mi succede per una ragione o per un’altra di non poterci andare per un po’ di tempo, cresce in me un’inquietudine che mi spinge a partire.
Appena mi è stato possibile sono tornato per due volte con mia moglie anche in tutte le zone che ho attraversato durante la campagna di Russia e credo di essere riuscito ad individuare perfino qualche isba in cui ho ricevuto soccorso.
Noi pochi fortunati che siamo tornati abbiamo il dovere di ricordare e far ricordare e l’obbligo di implorare che queste cose successe non vengano dimenticate affinchè si faccia in modo che non debbano mai più ripetersi.



(1) L. Tussi, “Dentro le Storie - L’importanza delle memorie di vita ‘… per non dimenticare’ e tramandare la Shoah, “di generazione, in generazione”…

(2) Ibidem

(3) Ibidem

(4) Ibidem

(5) Ibidem

(6) Ibidem

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