>> I
Tempi dell'ospedale <<
(8^ puntata)
Tempi
d’attesa segnalati per alcune prestazioni diagnostiche
Mammografia,
540 giorni
Ecocolordoppler,
420 giorni
Colonscopia
con anestesia, 300 giorni
Risonanza
magnetica, 270 giorni
Ecocardiogramma,
240 giorni
Ecografia
tiroidea, 220 giorni
Tempi
d’attesa segnalati per alcune visite specialistiche
Visita
oculistica, 630 giorni
Visita
senologica, 365 giorni
Visita
ortopedica, 300 giorni
Visita
fisiatrica, 220 giorni
(fonte:
“Ai confini della sanità. I cittadini alle prese con il federalismo” Rapporto
PiT Salute 2007, XI edizione. In www.cittadinanzattiva.it)
Il
tempo nel campo medico, ospedaliero e sanitario, oltre all’urgenza ed alla
tempestività d’intervento sul paziente al pronto soccorso ed al 118, è anche
una variabile riguardante l’attesa come dimostrano i dati sopraccitati. Nella
tempistica “biblica” per gli esami clinici che abbiamo testè visto, quasi
normalmente le persone si indirizzano verso la struttura sanitaria privata ed a
pagamento che ritengono essere più veloce e più efficiente. E molto spesso per
il 91% dei casi «la scelta è guidata: proposta dall’operatore in modo esplicito
(73%) piuttosto che velato: “sarebbe meglio non tardare” (18%)»(1).
Ma
le attese in una istituzione totale come è l’ospedale sono anche altre, molto
spesso più serie e drammatiche, oserei dire nel dna della struttura stessa e
nella forma mentis della maggior parte degli operatori. Anche a partire dal
pronto soccorso: ai pazienti in arrivo viene dato un cartellino rosso (codice
rosso) se sono in pericolo di vita e devono avere la precedenza sugli altri,
giallo che significa massima urgenza ma non pericolo di vita e dunque il
paziente può attendere il suo turno senza passare davanti a nessuno. Poi via
via altri codici di pazienti meno urgenti e non in serio pericolo di vita che
dunque possono attendere anche delle ore nella sala d’aspetto del pronto
soccorso.
Sentiamo
però dalla viva voce di un paziente in attesa nella struttura di soccorso di un
ospedale la sua vicenda:
«Gli
era stato dato il cartellino giallo che significa massima urgenza ma non
pericolo di vita, segnalato invece dal cartellino rosso. Per questo motivo un
operaio ha atteso un’ora e più nel pronto soccorso, con la falange di un dito
amputata, prima di abbandonare lì il pezzo di dito e cambiare ospedale. “Mi
hanno lasciato per più di un’ora con dolori lancinanti – ha dichiarato – se
osavo chiedere spiegazioni mi trattavano male”»(2).
Per
chi è invece ricoverato la giornata del paziente è scandita in tutto e per
tutto sempre da lunghe attese: «Aspetti il prelievo, la colazione, la pulizia
della stanza e dei bagni, la visita medica, che è l’appuntamento più
importante, il pranzo con la visita dei familiari, le visite specialistiche, la
cena delle ore sei, e la visita pomeridiana dei familiari, infine l’ora buona
per addormentarti. Questo impegno costante nell’attendere non mi consente di
fare nulla. Mi ero portato un libro ma non sono riuscito a leggere nemmeno una
pagina. Neppure il quotidiano riesco a leggere con la dovuta attenzione. La
mente risulta sempre concentrata nell’attesa di un evento successivo. Anche un
mio amico, che è stato ricoverato 20 giorni in ospedale, ha vissuto la stessa
esperienza»(3)
Il
tempo dell’attesa, dicevamo all’inizio, in una struttura ospedaliera per un
paziente è psicologicamente snervante. Perché quel “si metta lì e aspetti”
detto da un operatore sanitario (infermiere o medico) sembra un’attesa
indefinita, angosciante. Soprattutto se si attendono gli esiti di una visita,
di un esame importante che decreta la vita o la morte. Oppure la nascita di un
figlio e si sente la propria moglie urlare dietro una porta e non si è deciso
di assisterla durante il parto.
Per
analogia le lunghe attese sono presenti in qualunque istituzione totalizzante
come nei manicomi, nelle carceri e nei campi di concentramento. In queste
ultime strutture i nazisti uccidevano simbolicamente due volte le persone,
prima una “uccisione psicologica” con le attese e poi quella fisica. Come ebbe
a dire «Settimia Spizzichino: “Ad Auschwitz ci ammazzavano con le attese!”»(4).
Eppure
l’attesa è un affidarsi ciecamente delle mani di un medico, di un chirurgo, di
un infermiere come se avessero quasi una sorta di bacchetta magica per farci
guarire.
L’attesa
è ormai diventata uno status ospedaliero, una sorta di “malattia cronica” dei
nosocomi e il malato non a caso viene chiamato paziente cioè «colui che soffre,
dalla radice etimologica di patire, ma è anche chi attende e persevera con
tranquillità»(5). Fare aspettare vuol dire
comunque che la struttura ospedaliera ed i suoi dipendenti in qualche modo
hanno una forma di dominio sul paziente e lui stesso ne viene catturato:
trascorre il tempo a pensare che cosa succederà dopo l’attesa, che cosa si aspetta
dall’attesa, se una buona o una cattiva notizia. Quindi non ha più «l’autonomia
di potersene andare»(6).
E
il tempo di attesa psicologicamente si dilata per cui la mezz’ora di attesa per
un ricovero sembra essere un’eternità: «Devono ricoverarmi per un intervento
chirurgico programmato. L’impiegato non mi ha informato di nulla, mi ha detto
soltanto: “La chiamo io”. Mi telefona un’amica, le rispondo che sto aspettando
da molto, da mezz’ora. Lei osserva che in fondo mezz’ora non è tanto, ed ha
ragione. Ma a me sembra tantissimo, tutte le persone al piano terra
dell’accettazione passano da un’attesa all’altra»(7).
Il
tempo in ospedale è una continua attesa senza che nessuno dia delle
spiegazioni. Allora l’attesa diventa anche smarrimento, tensione e paura.
Succede
però che gli stessi operatori, per lavorare il meno possibile, rimandino a più
tardi dei semplici e banali interventi ai malati in corsia. Rimandano e
rimandano semplici operazioni affinché se li “sciroppino” i colleghi del turno
successivo: è tragico da dirsi ma per loro il paziente è come non esistesse.
Sentite in proposito questo significativo dialogo raccolto sempre nel libro
“Barelle” curato da Nicola Valentino: «”Il signore accanto a me si è sporcato
di feci. Lo venga a pulire”.
“Sì,
ora vengo”.
Passa
mezz’ora e non viene.
Lo
vado a cercare e gli ripeto la richiesta.
“Se
aspetta altri cinque minuti viene il mio collega che monta per il turno di
notte”.
“Ma
il signore sta nelle feci da tempo, sbraita, la stanza puzza e dobbiamo
dormire”.
E’
alle strette. Viene a fare a malincuore la pulizia»(8).
(1) “Ai confini della sanità. I cittadini alle prese con il
federalismo” Rapporto PiT Salute 2007, XI edizione. In www.cittadinanzattiva.it
(2) La Repubblica , 7
novembre 2000 in
“Barelle – I dispositivi mortificanti
dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle
Foglie 2008, p. 58
(3) “Barelle – I dispositivi
mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed.
Sensibili alle Foglie 2008, p. 59
(4) “Barelle – I dispositivi mortificanti
dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle
Foglie 2008, p. 58
(5) Ibidem p. 59
(6) Ibidem
(7) Ibidem p. 59
(8) Ibidem p. 62
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