sabato 10 novembre 2012


>> I Tempi dell'ospedale <<

(8^ puntata)




  
Tempi d’attesa segnalati per alcune prestazioni diagnostiche
Mammografia, 540 giorni
Ecocolordoppler, 420 giorni
Colonscopia con anestesia, 300 giorni
Risonanza magnetica, 270 giorni
Ecocardiogramma, 240 giorni
Ecografia tiroidea, 220 giorni


Tempi d’attesa segnalati per alcune visite specialistiche
Visita oculistica, 630 giorni
Visita senologica, 365 giorni
Visita ortopedica, 300 giorni
Visita fisiatrica, 220 giorni

(fonte: “Ai confini della sanità. I cittadini alle prese con il federalismo” Rapporto PiT Salute 2007, XI edizione. In www.cittadinanzattiva.it)

Il tempo nel campo medico, ospedaliero e sanitario, oltre all’urgenza ed alla tempestività d’intervento sul paziente al pronto soccorso ed al 118, è anche una variabile riguardante l’attesa come dimostrano i dati sopraccitati. Nella tempistica “biblica” per gli esami clinici che abbiamo testè visto, quasi normalmente le persone si indirizzano verso la struttura sanitaria privata ed a pagamento che ritengono essere più veloce e più efficiente. E molto spesso per il 91% dei casi «la scelta è guidata: proposta dall’operatore in modo esplicito (73%) piuttosto che velato: “sarebbe meglio non tardare” (18%)»(1).
Ma le attese in una istituzione totale come è l’ospedale sono anche altre, molto spesso più serie e drammatiche, oserei dire nel dna della struttura stessa e nella forma mentis della maggior parte degli operatori. Anche a partire dal pronto soccorso: ai pazienti in arrivo viene dato un cartellino rosso (codice rosso) se sono in pericolo di vita e devono avere la precedenza sugli altri, giallo che significa massima urgenza ma non pericolo di vita e dunque il paziente può attendere il suo turno senza passare davanti a nessuno. Poi via via altri codici di pazienti meno urgenti e non in serio pericolo di vita che dunque possono attendere anche delle ore nella sala d’aspetto del pronto soccorso.
Sentiamo però dalla viva voce di un paziente in attesa nella struttura di soccorso di un ospedale la sua vicenda:
«Gli era stato dato il cartellino giallo che significa massima urgenza ma non pericolo di vita, segnalato invece dal cartellino rosso. Per questo motivo un operaio ha atteso un’ora e più nel pronto soccorso, con la falange di un dito amputata, prima di abbandonare lì il pezzo di dito e cambiare ospedale. “Mi hanno lasciato per più di un’ora con dolori lancinanti – ha dichiarato – se osavo chiedere spiegazioni mi trattavano male”»(2).
Per chi è invece ricoverato la giornata del paziente è scandita in tutto e per tutto sempre da lunghe attese: «Aspetti il prelievo, la colazione, la pulizia della stanza e dei bagni, la visita medica, che è l’appuntamento più importante, il pranzo con la visita dei familiari, le visite specialistiche, la cena delle ore sei, e la visita pomeridiana dei familiari, infine l’ora buona per addormentarti. Questo impegno costante nell’attendere non mi consente di fare nulla. Mi ero portato un libro ma non sono riuscito a leggere nemmeno una pagina. Neppure il quotidiano riesco a leggere con la dovuta attenzione. La mente risulta sempre concentrata nell’attesa di un evento successivo. Anche un mio amico, che è stato ricoverato 20 giorni in ospedale, ha vissuto la stessa esperienza»(3)


Il tempo dell’attesa, dicevamo all’inizio, in una struttura ospedaliera per un paziente è psicologicamente snervante. Perché quel “si metta lì e aspetti” detto da un operatore sanitario (infermiere o medico) sembra un’attesa indefinita, angosciante. Soprattutto se si attendono gli esiti di una visita, di un esame importante che decreta la vita o la morte. Oppure la nascita di un figlio e si sente la propria moglie urlare dietro una porta e non si è deciso di assisterla durante il parto.
Per analogia le lunghe attese sono presenti in qualunque istituzione totalizzante come nei manicomi, nelle carceri e nei campi di concentramento. In queste ultime strutture i nazisti uccidevano simbolicamente due volte le persone, prima una “uccisione psicologica” con le attese e poi quella fisica. Come ebbe a dire «Settimia Spizzichino: “Ad Auschwitz ci ammazzavano con le attese!”»(4).
Eppure l’attesa è un affidarsi ciecamente delle mani di un medico, di un chirurgo, di un infermiere come se avessero quasi una sorta di bacchetta magica per farci guarire.
L’attesa è ormai diventata uno status ospedaliero, una sorta di “malattia cronica” dei nosocomi e il malato non a caso viene chiamato paziente cioè «colui che soffre, dalla radice etimologica di patire, ma è anche chi attende e persevera con tranquillità»(5). Fare aspettare vuol dire comunque che la struttura ospedaliera ed i suoi dipendenti in qualche modo hanno una forma di dominio sul paziente e lui stesso ne viene catturato: trascorre il tempo a pensare che cosa succederà dopo l’attesa, che cosa si aspetta dall’attesa, se una buona o una cattiva notizia. Quindi non ha più «l’autonomia di potersene andare»(6).
E il tempo di attesa psicologicamente si dilata per cui la mezz’ora di attesa per un ricovero sembra essere un’eternità: «Devono ricoverarmi per un intervento chirurgico programmato. L’impiegato non mi ha informato di nulla, mi ha detto soltanto: “La chiamo io”. Mi telefona un’amica, le rispondo che sto aspettando da molto, da mezz’ora. Lei osserva che in fondo mezz’ora non è tanto, ed ha ragione. Ma a me sembra tantissimo, tutte le persone al piano terra dell’accettazione passano da un’attesa all’altra»(7).
Il tempo in ospedale è una continua attesa senza che nessuno dia delle spiegazioni. Allora l’attesa diventa anche smarrimento, tensione e paura.
Succede però che gli stessi operatori, per lavorare il meno possibile, rimandino a più tardi dei semplici e banali interventi ai malati in corsia. Rimandano e rimandano semplici operazioni affinché se li “sciroppino” i colleghi del turno successivo: è tragico da dirsi ma per loro il paziente è come non esistesse. Sentite in proposito questo significativo dialogo raccolto sempre nel libro “Barelle” curato da Nicola Valentino: «”Il signore accanto a me si è sporcato di feci. Lo venga a pulire”.
“Sì, ora vengo”.
Passa mezz’ora e non viene.
Lo vado a cercare e gli ripeto la richiesta.
“Se aspetta altri cinque minuti viene il mio collega che monta per il turno di notte”.
“Ma il signore sta nelle feci da tempo, sbraita, la stanza puzza e dobbiamo dormire”.
E’ alle strette. Viene a fare a malincuore la pulizia»(8).


(1)   “Ai confini della sanità. I cittadini alle prese con il federalismo” Rapporto PiT Salute 2007, XI edizione. In www.cittadinanzattiva.it
(2)      La Repubblica, 7 novembre 2000 inBarelle – I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle Foglie 2008, p. 58
(3)      “Barelle – I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle Foglie 2008, p. 59
(4)      “Barelle I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle Foglie 2008, p. 58
(5)      Ibidem p. 59
(6)      Ibidem
(7)      Ibidem p. 59
(8)      Ibidem p. 62

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