giovedì 8 novembre 2012


>> Il Tempo e la psicologia umana <<

(6^ puntata)




«Mi sembrava tempo perso. Che senso ha avuto trascorrere ben 45 minuti della mia vita, della propria vita, mia, tua, sua, per raccontarsi davanti ad una psicologa? Mi sembrava inutile. Tutti i mercoledì mattina correvo nel traffico cittadino per essere puntuale, preciso, quasi come un orologio svizzero, all’appuntamento nel suo studio. Mi scapicollavo su per le scale, di corsa, al secondo piano di una palazzina centrale, grigia e anonima dove, sul portone, solo la fredda  targhetta di plastica con il nome “dott.ssa…., psicologa”. Eppure l’avevo scelto io, per capirci di più di me. Ma comunque, ogni volta, mi sembrava sempre tempo perso.
Nulla da dire nell’accoglienza: un ambiente elegante ma sobrio, accogliente, una sala d’aspetto come dal medico. E a ricevermi, con una stretta di mano ed un sorriso, una gentile signora che, uscito un paziente dalla porta d’ingresso, vedeva me entrare.
Ricordo che nella stanza, dietro la schiena della psicologa, campeggiava un bel quadro con due mani che si scrivevano a vicenda: era uno dei paradossi di Escher.

Paradossale anche per me essere lì dentro, con una persona che sta in silenzio, che fa passare il tempo con te, ascoltandoti. Paradossale trovare una persona che di mestiere passa il suo tempo ad ascoltare i problemi degli altri. Che da del tempo della sua vita agli altri.
Ma il suo tempo è prezioso: tant'è che ha anche un suo tariffario ben preciso, previsto dall'Albo. Tant'è che a fine mese arrivava un conto salato da pagare. Condiviso anche dal paziente? Da tutti i pazienti? Chissà...
Di fatto io mi sedevo su di una sedia, con davanti un elegante tavolo in legno e lei, l'ascoltatrice di professione, ovvero la psicologa, dall'altra parte. In silenzio, con davanti delle fotografie che immagino essere dei suoi cari. Foto che non ho mai visto perchè non sono mai andato oltre la mia metà di tavolino.
Ma anche probabilmente un orologio da tavolo, per calcolare i 45 minuti esatti. Perchè fuori, subito dopo di me, c'erano altre persone che attendevano il proprio turno. Anche loro arrivate con la puntualità di un orologio svizzero per raccontare alla psicologa i loro drammi personali, le loro incertezze, le loro gioie.
Io arrivavo e mi sedevo piazzando subito il mio orologio da polso sulla scrivania. Lo faccio sempre, anche a scuola, a lezione con i ragazzi: un po' perchè mi da fastidio ed un po' per calcolare quanto tempo posso spiegare prima del suono della campanella che decreta il cambio di insegnante e la fine dei miei 50 minuti di lezione frontale.
Con la psicologa avrei potuto passare questi 45 minuti la settimana senza dire nulla, in totale silenzio. Oppure “vomitandogli” addosso qualsiasi cosa mi passasse per la testa in quel momento. C'è chi fa così. Perchè in quel momento c'è da chiedersi: era prezioso quel tempo? E di chi è il tempo di quella seduta? A chi faceva bene? Quel tempo era un toccasana per me o per lei? Faceva bene per la mia vita e la sua vita? O per il suo portafogli?
Molto spesso il fattore tempo in quelle sedute per me era importante: avrei potuto passare quei minuti in altri modi? Quei 45 minuti a che cosa potevano servirmi in alternativa? Nello stesso tempo di quella seduta avrei potuto farmi una bella nuotata in piscina? Oppure sarei potuto andare a correre, o facendo chissà quale altro sport pur di scaricare le tensioni che portavo in osservazione dalla psicologa? Eppure lei sembrava impassibile, qualche volta uno sguardo all'orologio per segnalarmi “tempo scaduto!”.
Poi uscivo e mi chiedevo: e la prossima volta? Altro tempo sprecato? Altra corsa per trovare parcheggio nel traffico impazzito di una città? Ne valeva la pena vivere il tutto come una noiosa routine? Forse che prendevo tempo ad altre attività più redditizie? Più interessanti? Toglievo per caso tempo alla famiglia? No, anche perchè era il mio giorno libero dalla scuola. Che forse ho sciupato... ma forse no...chissà...
Chissà che ne pensavano gli altri pazienti di questo tempo passato dalla psicologa. Che cosa se ne guadagna passando 45 minuti della propria vita, ogni settimana, in seduta dalla psicologo? Sarebbe stato lo stesso se ci fossimo visti fuori, magari al bar sorseggiando una buona bevanda?
Quello che però metto in discussione nella professione di psicologo è il “vile danaro”. Perchè se uno trova del tempo per curare i mali dell'anima di un suo amico, di un suo fratello, lo posso capire: è una scelta personale dedicarsi in questa maniera al prossimo. Ma che questo si trasformi in una professione pagata profumatamente per la quale si è addirittura studiato, mi lascia delle perplessità, dei dubbi.
Che dire: forse era un buon tempo quello passato nelle terapie psicologiche, forse non ho saputo sfruttarlo al meglio, forse avrei dovuto essere più attento ai secondi che passavano, forse con il senno di poi mi rendo conto che quel tempo era scelto, prezioso per la mia vita. Forse!
Ho poi interrotto dopo due anni e mezzo. Così, forse perchè appunto mi sembrava solo un rito ripetitivo: tutti i mercoledì ore 11.00, drinn, pigiavo il campanello puntualissimo della psicologa... Un rito, niente altro che un ripetitivo rito...
45 minuti a settimana che possono salvare una persona, forse la sua anima, la mia anima.
45 minuti che talvolta volavano via, invece talvolta sembravano un'eternità.
Scelti da me, inconsapevole di chi avevo davanti: forse un'amica del cuore? Forse una professionista che lo faceva per lavoro? Forse uno specchio? Forse una “maga” per darmi delle soluzioni? Chissà...
So solo che il tempo per Maria Giovanna, psicologa, in quel momento è stato prezioso.
E' stato comunque un tempo di relazione, un tempo scelto, anche se inconsciamente, dal sottoscritto.
Un luogo intimo, alla ricerca della felicità, dove è stato messo in scena, spesso, il mio dramma ed i miei problemi di relazione che portavo lì.
Un incontro con l'altro, con questa psicologa che ha generato la vita. Affinchè io mi riconoscessi nel mio sé più intimo.
Dopo due anni e mezzo di sedute ho abbandonato quello studio.
5400 minuti di tempo della mia vita vissuti lì dentro»(1).





Probabilmente il Tempo è la cosa più difficile da definire in psicologia. Ad esempio Dilys Davies, psicologa e psicoterapeuta, nel 1977 disse che il passaggio del tempo è «un fenomeno psicologico di origine misteriosa» (2) e la stessa nel 1983 aggiunse che «il segreto della mente sarà risolto solo quando comprenderemo il segreto del tempo»(3).
Solo il bambino gode della libertà dal tempo e di cui non è per nulla schiavo.
Anche se poi l'apprendimento del concetto di tempo diviene fondamentale per la vita umana e per la società. Fino ad una ulteriore battuta sarcastica di una paziente di Joost Meerlo che, nel 1966, «affermò: “Il tempo è civiltà”, con cui intendeva dire che l'organizzazione e la puntualità erano le potenti armi usate dagli adulti per imporre ai giovani la sottomissione e l'obbedienza»(4).
Piaget, studioso della psicologia dell'età evolutiva, ci dice che la nozione di tempo «prende corpo attraverso le azioni compiute dal bambino stesso e percepite più come fenomeni di processo che come fenomeni temporali in sé»(5).
Lo stesso Piaget però non è però riuscito a capire quel senso innato del tempo che noi tutti abbiamo, mentre «il concetto astratto di “tempo” è particolarmente difficile per i bambini. Non è una nozione che si acquisisce automaticamente; non esiste un orientamento spontaneo nei confronti del tempo (Hermelin e O'Connor, 1971; Voyat, 1977)»(6).
Normalmente i termini tempo e ordinato si riferiscono alla «nostra idea newtoniana di tempo  che rappresenta un ordine perfetto e universale. Il carico complessivo di questa pressione sempre più incalzante è dimostrato dal numero crescente di pazienti che presentano sintomi di ansia dovuta al tempo (Lawson, 1990)»(7)..
Ciò che ci crea piacere è invece l’atemporalità, mentre invece il calendario pare essere una «materializzazione estrema dell'ansia della separazione»(8), mentre «Freud stabilì (1920) che i processi mentali dell'inconscio trascendono il tempo: “... il tempo non li cambia in alcun modo e l'idea del tempo non può essere applicata ad essi”. Pertanto il desiderio è già estraneo al tempo»(9).
Altro interessante situazione sono i sogni che non hanno una dimensione temporale: di fatto «il senso del tempo lì non esiste ma è sostituito da una sensazione di presente»(10) mentre per alcuni «l'inconscio con le sue “tempeste di impulsi” (Stern, 1977), spaventi chi fa affidamento sulla nevrosi che chiamiamo civiltà»(11).















  
Esiste poi in psicologia quella che si chiama “orologio biologico”, vale a dire quel «meccanismo fisiologico, di natura ancora sconosciuta, che conferisce il senso del tempo cadenzato da ritmi endogeni ed esogeni responsabili delle variazioni fisiologiche e psicologiche»(12). Queste oscillazioni nella giornata di una persona posso riguardare, ad esempio, l'umore: si è visto che «nella personalità depressa (...) se la depressione è endogena, vi è un abbassamento dell'umore al mattino e un miglioramento alla sera, mentre se è di tipo reattivo la depressione presenta un aggravamento nelle ore serali»(13).
Appare chiaro che l'esperienza del tempo, nella psicologia umana, riguarda i bisogni ad essa connessi, all'appagamento che se ne ha, dagli stimoli che si hanno nel riempire il tempo o dal tempo cosiddetto “vuoto”. Normalmente vivere una situazione di pienezza, appagante, con parecchi stimoli e bella del tempo fa ricordare meglio e più a lungo quel momento, mentre invece lo stesso tempo cosiddetto “vuoto” non viene ricordato affatto.
Inoltre il fare esperienza del tempo riguarda anche l'età anagrafica «per cui per i vecchi il tempo passa soggettivamente più presto, con conseguente valutazione di un periodo di tempo più breve di quanto non sia valutato dai giovani»(14).
La percezione del tempo dipende anche dal sesso: gli uomini infatti hanno la dimensione più precisa della valutazione del tempo rispetto alle donne che pare siano meno precise su questo frangente.
Anche lo stress è fattore di percezione distorta del tempo: esso comporta «una diversa valutazione dello stesso periodo di tempo»(15), così come la percezione risulta differente se l'organismo umano riceve sollecitazioni dall'ambiente esterno e dalle condizioni stesse dell'organismo stesso.
    Oltre alla psicologia anche la psicanalisi è interessata dalla concezione del tempo.







Come scritto all'inizio di questo paragrafo del mio rapporto con la psicologa con cui ho fatto terapia si evince facilmente quale è stata la mia esperienza personale di quella relazione con l'altro. Ed in fatti bisogna considerare in questo frangente l’esperienza del Tempo come relazione con qualcuno. Con la sua presenza e con anche la sua assenza. Pensiamo infatti ai genitori con il loro figlio: egli percepisce il loro amore nello spazio della presenza dei genitori. Alternando la loro presenza con lui e la loro assenza «prima ancora che dal succedersi del giorno e della notte – il bambino comincia a comprendere e a scandire il ritmo del tempo»(16).
In questo esempio quindi il tempo non è un parametro esterno, un meccanismo solo tecnico, ma un elemento interiore, personale, intimo, un fattore di relazione umana importante per la crescita umana che «definisce la nostra identità e le nostre relazioni in quanto ne determina gli inevitabili cambiamenti e ne rivela le strutture profonde»(17)..
Una delle conseguenze del tempo nella relazione umana di tipo affettivo e non solo è quella  inevitabile dell'attesa, dei tempi lunghi. Non del “tutto e subito” a cui purtroppo oggi siamo abituati nella fretta compulsiva di “consumare” tutto al più presto. Bruciando le tappe non si arriva a nulla. Significative sono le seguenti battute di Salonia del libro già citato: «”Signorina, lei crede all'amore a prima vista?” - chiede il ragazzo innamorato. “No” - risponde decisa la ragazza. “Bene, tornerò più tardi” - replica lui. L'innamorato è convinto, insomma, che la sua richiesta acquisterà credito grazie al tempo (“più tardi”: ma quando? Quanto tempo dovrà passare perchè la ragazza creda all'amore, o perchè il ragazzo stesso giunga a credervi? Non è forse questo il problema?)»(18).
Il tempo è dunque anche e soprattutto relazione con l’altro, con gli altri.
Ma se «corriamo ogni giorno come forsennati, usciamo di casa all’alba, imprechiamo contro le code e i semafori, i ritardi dei treni, anche quelli ad alta velocità» (19) come si fa?
E’ dunque necessario trasformare il tempo del nostro cronografo od orologio che dir si voglia (dal greco kronos) in un tempo per l’altro, destinato verso una meta. E dunque se l’altro non c’è, non esiste più il tempo, non c’è più il senso.
«Come ha scritto in modo toccante Silvia Soccorsi – una grande psichiatra recentemente scomparsa – alla fine delle sue lunghe ricerche sulle famiglie di bambini oncologici, la prima reazione di fronte alla morte di una persona cara è quella di far morire il tempo, di volerlo trattenere, di non volerlo lasciar andare così come non si vuole interrompere il contatto con la persona cara. Solo l’elaborazione del lutto permette di ritrovare il tempo e la relazione con l’altro, modificata in modo radicale»(20).
Se dunque il tempo è relazione, come ci spiega magistralmente Salonia in queste brevi citazioni che ho fatto, ciò che manca alla nostra fretta ed al nostro frenetismo come ci ricorda Mercalli più sopra è la domanda essenziale: quanto conta per me, per noi uomini, la relazione, le relazioni? Quanto invece, molto spesso, siamo vittime dell’orologio e giriamo come delle trottole senza sapere il perché. Per spiegare meglio questo concetto prendo di nuovo a prestito le parole dello psicoterapeuta più volte citato: «Se è vero che il tempo vissuto è, in ultima analisi, il tempo delle nostre relazioni, è altrettanto vero che le nostre relazioni si definiscono, si configurano proprio nella dimensione temporale: “Dimmi quanto tempo ‘perdi? Per la tua relazione e ti dirò quanto è importante per te”. Nessuna relazione si rivela nella sua pienezza senza dispiegarsi nel tempo: il tempo – recita un proverbio francese – distrugge le cose costruite senza tempo»(21).
Alla corsa giornaliera contro il tempo nella cosiddetta modernità si associa molto facilmente la difficoltà, l’incapacità di trovarci dei minuti di pausa, ritagliarci cioè nelle nostre giornate momenti di silenzio per “ascoltare” nella relazione gli altri, l’altro. Anche me stesso. Oggigiorno si rileva proprio questa incapacità: «Dopo la proiezione di un film – ricorda Salonia – chi rimane in sala ad ascoltare fino in fondo la colonna musicale? Eppure proprio a quel momento, a quella musica è stato affidato il compito di dare il tocco finale per la comprensione e l’assimilazione del messaggio esistenziale-emozionale del film»(22).
Sapere ogni tanto tirare il fiato, mettersi in “stand-bye” come il nostro videoregistratore, in “pausa” permette di vivere i nostri rapporti non nella logica aberrante dell’ “usa e getta” dove la relazione interpersonale è superficiale, fatta di numerosi incontri guardando sempre e comunque l’orologio. «Nel nostro tempo – come notava K. Lorenz – incontriamo più persone in una settimana di quante i nostri avi ne incontravano in una vita intera»(23). Ciò vuol dire che, se delle molte conoscenze, dei molti contatti e relazioni, noi non ne assaporiamo l’autenticità, non ci mettiamo in una autentica relazione, non le viviamo profondamente, rischiamo che tutto sia superficiale, che quegli incontri durino lo spazio di pochi minuti e poi ce ne dimentichiamo. E non importa se nella relazione e nella conversazione con l’altro ogni tanto ci sono delle pause, dei silenzi: non dobbiamo subissare di parole e parole le persone che incontriamo solo perché abbiamo poco tempo: non possiamo in un minuto d’orologio pretendere di raccontare la nostra vita, i nostri sentimenti. C’è bisogno, in sostanza, più di tempi lunghi per la riflessione perché «Dentro la pausa che segue l’incontro con l’altro è nascosto il segreto della difficile, misteriosa armonia tra darsi e riprendersi, appartenere ed essere unici. Nella Grecia antica, quando un istante di silenzio cadeva durante la conversazione, si era soliti dire: “Passa Hermes”, per indicare l’emergere del silenzio relazionale che permette di ritornare a sé stessi e all’altro»(24).
Certo è che, se qualcuno tra chi leggerà queste righe, dovesse pensare che si perde del tempo, perché si hanno i minuti contati, è forse meglio eliminare l’orologio perché questo discorso è valido solo per «chi è disposto a “perdere tempo” nella relazione per non perdere il tempo della relazione»(25).




(1) Testimonianza dello scrivente
(2)     J. Zerzan, “Ammazzare il tempo” in www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiacritica/zerzan.htm
(3)     Ibidem
(4)     Ibidem
(5)     U. Galimberti, “Dizionario di Psicologia” Ed. Utet seconda ristampa 1999 voce “Tempo” p. 934
(6)     Ibidem
(7)    Ibidem
(8)     Ibidem
(9)     Ibidem
(10)   Ibidem
(11)    Ibidem
(12)    U. Galimberti, “Dizionario di Psicologia” Ed. Utet seconda ristampa 1999 voce “Tempo” p. 934
(13)    U. Galimberti, “Dizionario di Psicologia” Ed. Utet seconda ristampa 1999 voce “Ritmo” p. 825-826
(14)    Ibidem p. 934
(15)    Ibidem
(16)    G. Salonia, “Sulla felicità e dintorni – Tra corpo, tempo e parola” Argo edizioni 2004, p. 144
(17)    Ibidem
(18)    Ibidem p. 145
(19)    L. Mercalli, “Noi sempre di corsa non abbiamo più tempo” in La Repubblica-cronaca di Torino del 17/5/2009
(20)    G. Salonia, “Sulla felicità e dintorni – Tra corpo, tempo e parola” Argo edizioni 2004, p. 146
(21)    Ibidem
(22)    Ibidem p.146-147
(23)    Ibidem p.147
(24)    Ibidem
(25)   Ibidem

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