>> Il Tempo e la psicologia umana <<
(6^ puntata)
«Mi
sembrava tempo perso. Che senso ha avuto trascorrere ben 45 minuti della mia
vita, della propria vita, mia, tua, sua, per raccontarsi davanti ad una
psicologa? Mi sembrava inutile. Tutti i mercoledì mattina correvo nel traffico
cittadino per essere puntuale, preciso, quasi come un orologio svizzero,
all’appuntamento nel suo studio. Mi scapicollavo su per le scale, di corsa, al
secondo piano di una palazzina centrale, grigia e anonima dove, sul portone,
solo la fredda targhetta di plastica con
il nome “dott.ssa…., psicologa”. Eppure l’avevo scelto io, per capirci di più
di me. Ma comunque, ogni volta, mi sembrava sempre tempo perso.
Nulla
da dire nell’accoglienza: un ambiente elegante ma sobrio, accogliente, una sala
d’aspetto come dal medico. E a ricevermi, con una stretta di mano ed un
sorriso, una gentile signora che, uscito un paziente dalla porta d’ingresso,
vedeva me entrare.
Ricordo
che nella stanza, dietro la schiena della psicologa, campeggiava un bel quadro
con due mani che si scrivevano a vicenda: era uno dei paradossi di Escher.
Paradossale
anche per me essere lì dentro, con una persona che sta in silenzio, che fa
passare il tempo con te, ascoltandoti. Paradossale trovare una persona che di
mestiere passa il suo tempo ad ascoltare i problemi degli altri. Che da del
tempo della sua vita agli altri.
Ma
il suo tempo è prezioso: tant'è che ha anche un suo tariffario ben preciso,
previsto dall'Albo. Tant'è che a fine mese arrivava un conto salato da pagare.
Condiviso anche dal paziente? Da tutti i pazienti? Chissà...
Di
fatto io mi sedevo su di una sedia, con davanti un elegante tavolo in legno e
lei, l'ascoltatrice di professione, ovvero la psicologa, dall'altra parte. In
silenzio, con davanti delle fotografie che immagino essere dei suoi cari. Foto
che non ho mai visto perchè non sono mai andato oltre la mia metà di tavolino.
Ma
anche probabilmente un orologio da tavolo, per calcolare i 45 minuti esatti.
Perchè fuori, subito dopo di me, c'erano altre persone che attendevano il
proprio turno. Anche loro arrivate con la puntualità di un orologio svizzero
per raccontare alla psicologa i loro drammi personali, le loro incertezze, le
loro gioie.
Io
arrivavo e mi sedevo piazzando subito il mio orologio da polso sulla scrivania.
Lo faccio sempre, anche a scuola, a lezione con i ragazzi: un po' perchè mi da
fastidio ed un po' per calcolare quanto tempo posso spiegare prima del suono
della campanella che decreta il cambio di insegnante e la fine dei miei 50
minuti di lezione frontale.
Con
la psicologa avrei potuto passare questi 45 minuti la settimana senza dire
nulla, in totale silenzio. Oppure “vomitandogli” addosso qualsiasi cosa mi
passasse per la testa in quel momento. C'è chi fa così. Perchè in quel momento
c'è da chiedersi: era prezioso quel tempo? E di chi è il tempo di quella
seduta? A chi faceva bene? Quel tempo era un toccasana per me o per lei? Faceva
bene per la mia vita e la sua vita? O per il suo portafogli?
Molto
spesso il fattore tempo in quelle sedute per me era importante: avrei potuto
passare quei minuti in altri modi? Quei 45 minuti a che cosa potevano servirmi
in alternativa? Nello stesso tempo di quella seduta avrei potuto farmi una
bella nuotata in piscina? Oppure sarei potuto andare a correre, o facendo
chissà quale altro sport pur di scaricare le tensioni che portavo in
osservazione dalla psicologa? Eppure lei sembrava impassibile, qualche volta
uno sguardo all'orologio per segnalarmi “tempo scaduto!”.
Poi
uscivo e mi chiedevo: e la prossima volta? Altro tempo sprecato? Altra corsa
per trovare parcheggio nel traffico impazzito di una città? Ne valeva la pena
vivere il tutto come una noiosa routine? Forse che prendevo tempo ad altre
attività più redditizie? Più interessanti? Toglievo per caso tempo alla
famiglia? No, anche perchè era il mio giorno libero dalla scuola. Che forse ho
sciupato... ma forse no...chissà...
Chissà
che ne pensavano gli altri pazienti di questo tempo passato dalla psicologa.
Che cosa se ne guadagna passando 45 minuti della propria vita, ogni settimana,
in seduta dalla psicologo? Sarebbe stato lo stesso se ci fossimo visti fuori,
magari al bar sorseggiando una buona bevanda?
Quello
che però metto in discussione nella professione di psicologo è il “vile
danaro”. Perchè se uno trova del tempo per curare i mali dell'anima di un suo
amico, di un suo fratello, lo posso capire: è una scelta personale dedicarsi in
questa maniera al prossimo. Ma che questo si trasformi in una professione
pagata profumatamente per la quale si è addirittura studiato, mi lascia delle
perplessità, dei dubbi.
Che
dire: forse era un buon tempo quello passato nelle terapie psicologiche, forse
non ho saputo sfruttarlo al meglio, forse avrei dovuto essere più attento ai
secondi che passavano, forse con il senno di poi mi rendo conto che quel tempo
era scelto, prezioso per la mia vita. Forse!
Ho
poi interrotto dopo due anni e mezzo. Così, forse perchè appunto mi sembrava
solo un rito ripetitivo: tutti i mercoledì ore 11.00, drinn, pigiavo il
campanello puntualissimo della psicologa... Un rito, niente altro che un
ripetitivo rito...
45
minuti a settimana che possono salvare una persona, forse la sua anima, la mia
anima.
45
minuti che talvolta volavano via, invece talvolta sembravano un'eternità.
Scelti
da me, inconsapevole di chi avevo davanti: forse un'amica del cuore? Forse una
professionista che lo faceva per lavoro? Forse uno specchio? Forse una “maga”
per darmi delle soluzioni? Chissà...
So
solo che il tempo per Maria Giovanna, psicologa, in quel momento è stato
prezioso.
E'
stato comunque un tempo di relazione, un tempo scelto, anche se inconsciamente,
dal sottoscritto.
Un
luogo intimo, alla ricerca della felicità, dove è stato messo in scena, spesso,
il mio dramma ed i miei problemi di relazione che portavo lì.
Un
incontro con l'altro, con questa psicologa che ha generato la vita. Affinchè io
mi riconoscessi nel mio sé più intimo.
Dopo
due anni e mezzo di sedute ho abbandonato quello studio.
5400
minuti di tempo della mia vita vissuti lì dentro»(1).
Probabilmente
il Tempo è la cosa più difficile da definire in psicologia. Ad esempio Dilys
Davies, psicologa e psicoterapeuta, nel 1977 disse che il passaggio del tempo è
«un fenomeno psicologico di origine misteriosa» (2) e
la stessa nel 1983 aggiunse che «il segreto della mente sarà risolto solo
quando comprenderemo il segreto del tempo»(3).
Solo
il bambino gode della libertà dal tempo e di cui non è per nulla schiavo.
Anche
se poi l'apprendimento del concetto di tempo diviene fondamentale per la vita
umana e per la società. Fino ad una ulteriore battuta sarcastica di una
paziente di Joost Meerlo che, nel 1966, «affermò: “Il tempo è civiltà”, con cui
intendeva dire che l'organizzazione e la puntualità erano le potenti armi usate
dagli adulti per imporre ai giovani la sottomissione e l'obbedienza»(4).
Piaget,
studioso della psicologia dell'età evolutiva, ci dice che la nozione di tempo
«prende corpo attraverso le azioni compiute dal bambino stesso e percepite più
come fenomeni di processo che come fenomeni temporali in sé»(5).
Lo
stesso Piaget però non è però riuscito a capire quel senso innato del tempo che
noi tutti abbiamo, mentre «il concetto astratto di “tempo” è particolarmente
difficile per i bambini. Non è una nozione che si acquisisce automaticamente;
non esiste un orientamento spontaneo nei confronti del tempo (Hermelin e
O'Connor, 1971; Voyat, 1977)»(6).
Normalmente
i termini tempo e ordinato si riferiscono alla «nostra idea newtoniana di
tempo che rappresenta un ordine perfetto
e universale. Il carico complessivo di questa pressione sempre più incalzante è
dimostrato dal numero crescente di pazienti che presentano sintomi di ansia
dovuta al tempo (Lawson, 1990)»(7)..
Ciò
che ci crea piacere è invece l’atemporalità, mentre invece il calendario pare
essere una «materializzazione estrema dell'ansia della separazione»(8),
mentre «Freud stabilì (1920) che i processi mentali dell'inconscio trascendono
il tempo: “... il tempo non li cambia in alcun modo e l'idea del tempo non può
essere applicata ad essi”. Pertanto il desiderio è già estraneo al tempo»(9).
Altro
interessante situazione sono i sogni che non hanno una dimensione temporale: di
fatto «il senso del tempo lì non esiste ma è sostituito da una sensazione di
presente»(10) mentre per alcuni
«l'inconscio con le sue “tempeste di impulsi” (Stern, 1977), spaventi chi fa
affidamento sulla nevrosi che chiamiamo civiltà»(11).
Esiste
poi in psicologia quella che si chiama “orologio biologico”, vale a dire quel
«meccanismo fisiologico, di natura ancora sconosciuta, che conferisce il senso
del tempo cadenzato da ritmi endogeni ed esogeni responsabili delle variazioni
fisiologiche e psicologiche»(12).
Queste oscillazioni nella giornata di una persona posso riguardare, ad esempio,
l'umore: si è visto che «nella personalità depressa (...) se la depressione è
endogena, vi è un abbassamento dell'umore al mattino e un miglioramento alla
sera, mentre se è di tipo reattivo la depressione presenta un aggravamento
nelle ore serali»(13).
Appare
chiaro che l'esperienza del tempo, nella psicologia umana, riguarda i bisogni
ad essa connessi, all'appagamento che se ne ha, dagli stimoli che si hanno nel
riempire il tempo o dal tempo cosiddetto “vuoto”. Normalmente vivere una
situazione di pienezza, appagante, con parecchi stimoli e bella del tempo fa
ricordare meglio e più a lungo quel momento, mentre invece lo stesso tempo
cosiddetto “vuoto” non viene ricordato affatto.
Inoltre
il fare esperienza del tempo riguarda anche l'età anagrafica «per cui per i
vecchi il tempo passa soggettivamente più presto, con conseguente valutazione
di un periodo di tempo più breve di quanto non sia valutato dai giovani»(14).
La
percezione del tempo dipende anche dal sesso: gli uomini infatti hanno la
dimensione più precisa della valutazione del tempo rispetto alle donne che pare
siano meno precise su questo frangente.
Anche
lo stress è fattore di percezione distorta del tempo: esso comporta «una
diversa valutazione dello stesso periodo di tempo»(15),
così come la percezione risulta differente se l'organismo umano riceve
sollecitazioni dall'ambiente esterno e dalle condizioni stesse dell'organismo
stesso.
Oltre
alla psicologia anche la psicanalisi è interessata dalla concezione del tempo.
Come
scritto all'inizio di questo paragrafo del mio rapporto con la psicologa con cui
ho fatto terapia si evince facilmente quale è stata la mia esperienza personale
di quella relazione con l'altro. Ed in fatti bisogna considerare in questo
frangente l’esperienza del Tempo come relazione con qualcuno. Con la sua
presenza e con anche la sua assenza. Pensiamo infatti ai genitori con il loro
figlio: egli percepisce il loro amore nello spazio della presenza dei genitori.
Alternando la loro presenza con lui e la loro assenza «prima ancora che dal
succedersi del giorno e della notte – il bambino comincia a comprendere e a
scandire il ritmo del tempo»(16).
In
questo esempio quindi il tempo non è un parametro esterno, un meccanismo solo
tecnico, ma un elemento interiore, personale, intimo, un fattore di relazione
umana importante per la crescita umana che «definisce la nostra identità e le
nostre relazioni in quanto ne determina gli inevitabili cambiamenti e ne rivela
le strutture profonde»(17)..
Una
delle conseguenze del tempo nella relazione umana di tipo affettivo e non solo
è quella inevitabile dell'attesa, dei
tempi lunghi. Non del “tutto e subito” a cui purtroppo oggi siamo abituati
nella fretta compulsiva di “consumare” tutto al più presto. Bruciando le tappe
non si arriva a nulla. Significative sono le seguenti battute di Salonia del
libro già citato: «”Signorina, lei crede all'amore a prima vista?” - chiede il
ragazzo innamorato. “No” - risponde decisa la ragazza. “Bene, tornerò più
tardi” - replica lui. L'innamorato è convinto, insomma, che la sua richiesta
acquisterà credito grazie al tempo (“più tardi”: ma quando? Quanto tempo dovrà
passare perchè la ragazza creda all'amore, o perchè il ragazzo stesso giunga a
credervi? Non è forse questo il problema?)»(18).
Il
tempo è dunque anche e soprattutto relazione con l’altro, con gli altri.
Ma
se «corriamo ogni giorno come forsennati, usciamo di casa all’alba, imprechiamo
contro le code e i semafori, i ritardi dei treni, anche quelli ad alta
velocità» (19) come si fa?
E’
dunque necessario trasformare il tempo del nostro cronografo od orologio che
dir si voglia (dal greco kronos) in un tempo per l’altro, destinato verso una
meta. E dunque se l’altro non c’è, non esiste più il tempo, non c’è più il
senso.
«Come
ha scritto in modo toccante Silvia Soccorsi – una grande psichiatra
recentemente scomparsa – alla fine delle sue lunghe ricerche sulle famiglie di
bambini oncologici, la prima reazione di fronte alla morte di una persona cara
è quella di far morire il tempo, di volerlo trattenere, di non volerlo lasciar
andare così come non si vuole interrompere il contatto con la persona cara.
Solo l’elaborazione del lutto permette di ritrovare il tempo e la relazione con
l’altro, modificata in modo radicale»(20).
Se
dunque il tempo è relazione, come ci spiega magistralmente Salonia in queste
brevi citazioni che ho fatto, ciò che manca alla nostra fretta ed al nostro
frenetismo come ci ricorda Mercalli più sopra è la domanda essenziale: quanto
conta per me, per noi uomini, la relazione, le relazioni? Quanto invece, molto
spesso, siamo vittime dell’orologio e giriamo come delle trottole senza sapere
il perché. Per spiegare meglio questo concetto prendo di nuovo a prestito le
parole dello psicoterapeuta più volte citato: «Se è vero che il tempo vissuto
è, in ultima analisi, il tempo delle nostre relazioni, è altrettanto vero che
le nostre relazioni si definiscono, si configurano proprio nella dimensione
temporale: “Dimmi quanto tempo ‘perdi? Per la tua relazione e ti dirò quanto è
importante per te”. Nessuna relazione si rivela nella sua pienezza senza
dispiegarsi nel tempo: il tempo – recita un proverbio francese – distrugge le
cose costruite senza tempo»(21).
Alla
corsa giornaliera contro il tempo nella cosiddetta modernità si associa molto
facilmente la difficoltà, l’incapacità di trovarci dei minuti di pausa,
ritagliarci cioè nelle nostre giornate momenti di silenzio per “ascoltare”
nella relazione gli altri, l’altro. Anche me stesso. Oggigiorno si rileva
proprio questa incapacità: «Dopo la proiezione di un film – ricorda Salonia –
chi rimane in sala ad ascoltare fino in fondo la colonna musicale? Eppure
proprio a quel momento, a quella musica è stato affidato il compito di dare il
tocco finale per la comprensione e l’assimilazione del messaggio
esistenziale-emozionale del film»(22).
Sapere
ogni tanto tirare il fiato, mettersi in “stand-bye” come il nostro
videoregistratore, in “pausa” permette di vivere i nostri rapporti non nella
logica aberrante dell’ “usa e getta” dove la relazione interpersonale è
superficiale, fatta di numerosi incontri guardando sempre e comunque
l’orologio. «Nel nostro tempo – come notava K. Lorenz – incontriamo più persone
in una settimana di quante i nostri avi ne incontravano in una vita intera»(23).
Ciò vuol dire che, se delle molte conoscenze, dei molti contatti e relazioni,
noi non ne assaporiamo l’autenticità, non ci mettiamo in una autentica
relazione, non le viviamo profondamente, rischiamo che tutto sia superficiale,
che quegli incontri durino lo spazio di pochi minuti e poi ce ne dimentichiamo.
E non importa se nella relazione e nella conversazione con l’altro ogni tanto
ci sono delle pause, dei silenzi: non dobbiamo subissare di parole e parole le
persone che incontriamo solo perché abbiamo poco tempo: non possiamo in un
minuto d’orologio pretendere di raccontare la nostra vita, i nostri sentimenti.
C’è bisogno, in sostanza, più di tempi lunghi per la riflessione perché «Dentro
la pausa che segue l’incontro con l’altro è nascosto il segreto della
difficile, misteriosa armonia tra darsi e riprendersi, appartenere ed essere
unici. Nella Grecia antica, quando un istante di silenzio cadeva durante la
conversazione, si era soliti dire: “Passa Hermes”, per indicare l’emergere del
silenzio relazionale che permette di ritornare a sé stessi e all’altro»(24).
Certo
è che, se qualcuno tra chi leggerà queste righe, dovesse pensare che si perde
del tempo, perché si hanno i minuti contati, è forse meglio eliminare
l’orologio perché questo discorso è valido solo per «chi è disposto a “perdere
tempo” nella relazione per non perdere il tempo della relazione»(25).
(1) Testimonianza dello
scrivente
(2) J. Zerzan, “Ammazzare il tempo” in www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiacritica/zerzan.htm
(3) Ibidem
(4) Ibidem
(5) U. Galimberti, “Dizionario
di Psicologia” Ed. Utet seconda ristampa 1999 voce “Tempo” p. 934
(6) Ibidem
(7) Ibidem
(8) Ibidem
(9) Ibidem
(10) Ibidem
(11) Ibidem
(12) U. Galimberti, “Dizionario
di Psicologia” Ed. Utet seconda ristampa 1999 voce “Tempo” p. 934
(13) U. Galimberti, “Dizionario
di Psicologia” Ed. Utet seconda ristampa 1999 voce “Ritmo” p. 825-826
(14) Ibidem p. 934
(15) Ibidem
(16) G. Salonia, “Sulla felicità
e dintorni – Tra corpo, tempo e parola” Argo edizioni 2004, p. 144
(17) Ibidem
(18) Ibidem p. 145
(19) L. Mercalli, “Noi sempre di
corsa non abbiamo più tempo” in La
Repubblica-cronaca
di Torino del 17/5/2009
(20) G. Salonia, “Sulla felicità
e dintorni – Tra corpo, tempo e parola” Argo edizioni 2004, p. 146
(21) Ibidem
(22) Ibidem
p.146-147
(23) Ibidem
p.147
(24) Ibidem
(25) Ibidem
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