domenica 11 novembre 2012


>> I Tempi del carcere <<

(9^ puntata)



«Mi hanno dato l’erbetta. Che significa: sono stato condannato all’ergastolo»(1). Così comincia il suo libro “ MAI – L’ergastolo nella vita quotidiana” (ed. Sensibili alle Foglie 2005) Annino Mele, in carcere dal 1987.
Questa pena estrema ha, per convenzione temporale, la drammatica dicitura “Fine Pena: 99/99/9999” l’equivalente di “Fine Pena: MAI”. «Sono stati i programmatori dell’informatizzazione del sistema penale che avevano bisogno di una data da scrivere nel campo “fine pena” escogitando per i casellari giudiziari l’escamotage di reiterare il numero 9»(2).
Di solito al cittadino che viene recluso in un carcere la pena ha una determinata durata temporale: condannato a 3 anni, 5 anni, 10 anni…consentendogli prima o poi di acquisire la libertà di gestirsi la sua vita nei tempi e modi da solo.
Come abbiamo detto non è così per l’ergastolo. Nessuno di noi riesce ad immaginarlo. E il nostro amico intervistato qui sotto si spinge ancora più in là dicendo che «la morte ha più senso»(3).
Una pena senza fine a cui la persona condannata uscirà ed il mondo sarà notevolmente cambiato,: cambiamenti sociali, storici inevitabili. «Vivo il giorno per giorno, minuto per minuto»(4) diceva un altro recluso vivendo una sorta di reclusione per l’eternità: «Sia quando coltiva la speranza, che quando vi rinuncia, concentrandosi sulle possibilità offerte dal quotidiano, l’ergastolano cerca di uscire dal tempo dell’eternità per orientarsi con il tempo umano e storico dell’impermanenza e del cambiamento»(5).

Che cosa sono allora le distanze chilometriche che noi, uomini liberi, percorriamo ogni giorno in automobile a fronte di un a pena che risulta infinita E allora come può vivere la dimensione del tempo una persona reclusa per tutta la vita o quasi? «Le giornate se ne vanno come vengono – racconta Mele nel suo libro – senza offrirmi niente a cui poter guardare. Per questo aspetto la notte. (...) Ci vuole pazienza. E io ho fede nella pazienza. E’ un buon Dio anche quella, sai. Guai se viene meno, soprattutto nei momenti difficili. Sarebbe la fine, una fine dagli esiti incalcolabili. Pazienza, ci vuole pazienza. Dobbiamo ripetercelo senza mai stancarci»(6).
E per Annino Mele nel carcere a vita c'è la scansione del tempo ad un calendario che così ci racconta proprio in un paragrafo del libro citato che lui intitola appunto “Calendario”:
«Primi giorni di maggio. Non lo crederai, ma a fare riferimento al calendario è per me un fatto quasi comico.
Da anni lo consulto solo perchè segno i giorni del colloquio e delle telefonate. Se questi appuntamenti finiscono il venticinque del mese strappo subito la pagina e passo a quello dopo.

Due colloqui e quattro telefonate: per me un mese è tutto qua. Tutto in questi sei giorni. L’anno e gli anni, quindi, passano veloci. Sei giorni, senza contare le notti, sommando le ore, si fermano a settantadue. In un anno arriviamo a ottocentosettantaquattro ore d'affetto. In realtà sarebbero veramente molte meno perchè ogni telefonata dura al massimo dieci minuti e i colloqui due ore ciascuno.
Ma devi tener conto che i dieci minuti di telefonata mi riempiono comunque la giornata e così pure le due ore dei colloqui.
Sicchè i conti tornano, tornano al mio cuore. Sarà forse per questo, per questa riduzione all'osso del tempo, che gli oltre vent'anni di carcere scontati sembrano essere passati in un batter d'occhio»(7).

Intervista ad un ex-detenuto ergastolano

N.V. ha 54 anni. Ha avuto una condanna all’ergastolo per fatti legati alla lotta armata degli anni Settanta. Ha scontato 22 anni e 5 mesi tra reclusione (15 anni) e semireclusione, poi il Tribunale di sorveglianza gli ha concesso la libertà condizionale. Al termine dei 5 anni della condizionale , come previsto dalla legge, è stata dichiarata esaurita la pena. Ora lavora in una editrice-cooperativa di cui è tra i soci fondatori.
Nel suo libro “Qualcosa da tenere per sé” (ed. Mondadori), la scrittrice Margherita Oggero dice    testualmente che «(...) In galera le giornate non finiscono mai. Il tempo è immobile e sempre uguale. Ore identiche a quelle che sono venute prima e verranno dopo, e pensieri che tornano in circolo come sul solco graffiato di un vecchio disco. Pensieri che diventano ossessioni, abitudini che si trasformano in manie. Difendersi da se stessi prima che dagli altri. Abolire l'impazienza. Non contare quanto manca. Non illudersi che fuori tutto resti come prima. (...)». Sei d'accordo? Ti va di commentare punto per punto questo scritto?
«Il testo di Margherita Oggero che mi proponi coglie alcuni aspetti dell’esperienza del recluso. Ciò che però in quel frammento non compare ma che invece è importante far vedere è che il tempo del recluso è totalmente gestito dall’istituzione carceraria. E’ l’istituzione che decide se e a che ora un recluso può prendere l’aria, se e a che ora può fare la doccia, se e quando può socializzare con altri reclusi, se e quando e quante volte può incontrare i suoi familiari a colloquio, a che ora si aprono le celle e a che ora si chiudono… in sostanza il tempo di vita del recluso è totalmente gestito dall’istituzione e anche sorvegliato, non c’è un solo minuto in cui l’internato è fuori dallo sguardo dell’istituzione.
Poi c’è il tempo della pena»
Che reazione (o sensazione) hai avuto quando lo Stato ha decretato, con la formula “fine pena: mai”, l'ergastolo per te? Cosa ha voluto (o vuol) dire in termini di Tempo quella frase?
«Se una persona condannata ad una pena temporale può dire a se stessa: qualunque cosa accada il giorno X sarò una persona libera, e quindi avere un punto di orientamento, il recluso senza fine pena, il recluso condannato all’ergastolo, non può fare questo conto. Nel suo certificato penale il fine pena è scritto con un numero immaginario: 99/99/9999. La sua possibilità di uscita, se non è fra gli ergastolani ai quali è preclusa la possibilità di ottenere i benefici previsti dalla legge (che quindi resteranno a vita in carcere), è legata unicamente alla grazia o all’ottenimento della libertà condizionale che sono entrambi provvedimenti gestiti da autorità diverse ma assolutamente discrezionali. Quindi la vita di una persona condannata all’ergastolo, la sua possibilità di uscire dalla pena, dipende unicamente dal potere discrezionale di un’autorità. Per questo motivo l’esperienza che la persona condannata all’ergastolo vive è quella di sentirsi totalmente nelle mani dell’istituzione che può decidere a suo piacimento se tenere un ergastolano a vita in carcere o farlo uscire. Si potrebbe dire che se con la pena di morte lo Stato toglie la vita ad una persona, con l’ergastolo se la prende.
L’impatto con la parola ergastolo è reso bene da una frase di Pietro Ingrao: “Sono contro l’ergastolo perché non riesco ad immaginarlo”. Anche fra i reclusi l’ergastolo è una parola tabù. Per aggirarla si usano alcuni eufemismi, prendere l’ergastolo si dice “avere l’erba”… che forse è come dire che si sta un po’ sotto terra»
All'interno della cella avevi un orologio? Un calendario? Che rapporto si instaura con questi oggetti?
«Nella mia esperienza carceraria è sempre stato vietato avere l’orologio, ed il calendario l’usavo solo per segnare i giorni in cui potevo fare colloquio con i miei familiari oppure telefonare. Ma per sopravvivere alla torsione del tempo è decisivo costruire un tempo per sé, caratterizzato da un proprio fare autodeterminato, cosa non facile. Negli ultimi anni della mia carcerazione ho scoperto di avere una vena creativa inaspettata. Di notte quando si chiudevano le celle mi lasciavo andare alla pittura usando la terra del campetto di calcio del carcere di Rebibbia ed altre materie colorate che avevo in cella per cucinare, lo zafferano, ad esempio. Il patriota Settembrini, condannato all’ergastolo, scriveva nelle “Ricordanze” che l’attività autodeterminata consente al recluso di pensare: “almeno in questo son libero”, almeno in questo agisco per me stesso.
Producevo 3/4 opere a notte e alla fine, estenuato, mi godevo l’incanto della sospensione del tempo. Dipingendo era come se accendessi le luci su un altro mondo, anche se l’orecchio rimaneva comunque vigile all’ascolto di ciò che accadeva in sezione, perché la porta della cella si sarebbe potuta aprire in qualunque momento, ad esempio per una perquisizione, o per la conta notturna dei detenuti, la qual cosa avrebbe violato quel momento. Ero quindi simultaneamente collocato un una doppia dimensione: mano e occhi immersi nel tempo della creazione, orecchio attento ai ritmi dell’istituzione carceraria.
Come giudichi l'uomo moderno che oggi vive sempre correndo e correndo dietro al Tempo, l'uomo contemporaneo che sembra volere sempre tutto e all'istante, che “brucia” i secondi e il Tempo nella logica del “tutto e subito”, grazie anche alla tecnologia, ai mass media, mail e telefonini che ci fa vivere “in Tempo reale” avvenimenti lontani di altri continenti?
Da alcuni anni sono uscito dal carcere e vedo che i dispositivi reclusivi di controllo del tempo delle persone sono disseminati ovunque nelle istituzioni sociali, ad esempio in alcune aziende la “pausa fisiologica”, quella per andare a gabinetto, per intenderci, è considerata dall’azienda un “furto di tempo”. Per quel che riguarda il mio lavoro, invece, con altre persone, alcune delle quali provenienti dalla reclusione, sono riuscito a costruire un’esperienza lavorativa di tipo cooperativo che consente ai soci cooperanti di decidere autonomamente come organizzare il proprio tempo di lavoro.
Quanti orologi hai in casa? Che cosa è per te il Tempo oggi?
«L’orologio, ora che posso, lo uso stabilmente perché ho imparato a considerare il mio tempo e quello delle altre persone una cosa preziosa, questa considerazione della preziosità del tempo penso sia anche un indicatore del rispetto che si ha verso se stessi e verso gli altri. Far aspettare ad esempio è uno dei dispositivi attraverso cui le istituzioni totali, ma più in generale tutti i poteri,  fanno sentire la loro supremazia sulle persone. “Ci uccidevano con le attese” affermò una donna internata in campo di concentramento per raccontare uno dei dispositivi più mortificanti di Auschwitz».
Che ne pensi della vita cosiddetta slow, cioè della vita in lentezza, senza troppo stressarsi?
«In base all’esperienza che ho fatto, ed anche per le cose che ho raccontato finora, non vivo come decisiva la contrapposizione fra“tempo frenetico” e  “tempo lento”, mi sembra invece significativa l’alternativa tra il tempo singolarmente e collettivamente autodeterminato a quello sovra-determinato dalle varie istituzioni»


(1)   A. Mele, “MAI – L'ergastolo nella vita quotidiana” , edizioni Sensibili alle Foglie 2005,
(2)     A. Mele, “MAI – L'ergastolo nella vita quotidiana” , edizioni Sensibili alle Foglie 2005, dall'Introduzione di Nicola Valentino p. 7
(3)     Ibidem p. 13
(4)     Ibidem p. 14
(5)     Ibidem p. 14
(6)     Ibidem p. 17-18
(7)     Ibidem p. 28

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