>> I Tempi del carcere <<
(9^ puntata)
«Mi
hanno dato l’erbetta. Che significa: sono stato condannato all’ergastolo»(1).
Così comincia il suo libro “ MAI – L’ergastolo nella vita quotidiana” (ed.
Sensibili alle Foglie 2005) Annino Mele, in carcere dal 1987.
Questa
pena estrema ha, per convenzione temporale, la drammatica dicitura “Fine Pena:
99/99/9999” l’equivalente di “Fine Pena: MAI”. «Sono stati i programmatori
dell’informatizzazione del sistema penale che avevano bisogno di una data da
scrivere nel campo “fine pena” escogitando per i casellari giudiziari
l’escamotage di reiterare il numero 9»(2).
Di
solito al cittadino che viene recluso in un carcere la pena ha una determinata
durata temporale: condannato a 3 anni, 5 anni, 10 anni…consentendogli prima o
poi di acquisire la libertà di gestirsi la sua vita nei tempi e modi da solo.
Come
abbiamo detto non è così per l’ergastolo. Nessuno di noi riesce ad immaginarlo.
E il nostro amico intervistato qui sotto si spinge ancora più in là dicendo che
«la morte ha più senso»(3).
Una
pena senza fine a cui la persona condannata uscirà ed il mondo sarà
notevolmente cambiato,: cambiamenti sociali, storici inevitabili. «Vivo il
giorno per giorno, minuto per minuto»(4) diceva un altro recluso vivendo una sorta di reclusione per l’eternità: «Sia
quando coltiva la speranza, che quando vi rinuncia, concentrandosi sulle
possibilità offerte dal quotidiano, l’ergastolano cerca di uscire dal tempo
dell’eternità per orientarsi con il tempo umano e storico dell’impermanenza e
del cambiamento»(5).
Che
cosa sono allora le distanze chilometriche che noi, uomini liberi, percorriamo
ogni giorno in automobile a fronte di un a pena che risulta infinita E allora
come può vivere la dimensione del tempo una persona reclusa per tutta la vita o
quasi? «Le giornate se ne vanno come vengono – racconta Mele nel suo libro –
senza offrirmi niente a cui poter guardare. Per questo aspetto la notte. (...)
Ci vuole pazienza. E io ho fede nella pazienza. E’ un buon Dio anche quella, sai.
Guai se viene meno, soprattutto nei momenti difficili. Sarebbe la fine, una
fine dagli esiti incalcolabili. Pazienza, ci vuole pazienza. Dobbiamo
ripetercelo senza mai stancarci»(6).
E
per Annino Mele nel carcere a vita c'è la scansione del tempo ad un calendario
che così ci racconta proprio in un paragrafo del libro citato che lui intitola
appunto “Calendario”:
«Primi
giorni di maggio. Non lo crederai, ma a fare riferimento al calendario è per me
un fatto quasi comico.
Da
anni lo consulto solo perchè segno i giorni del colloquio e delle telefonate.
Se questi appuntamenti finiscono il venticinque del mese strappo subito la
pagina e passo a quello dopo.
Due
colloqui e quattro telefonate: per me un mese è tutto qua. Tutto in questi sei
giorni. L’anno e gli anni, quindi, passano veloci. Sei giorni, senza contare le
notti, sommando le ore, si fermano a settantadue. In un anno arriviamo a
ottocentosettantaquattro ore d'affetto. In realtà sarebbero veramente molte
meno perchè ogni telefonata dura al massimo dieci minuti e i colloqui due ore
ciascuno.
Ma
devi tener conto che i dieci minuti di telefonata mi riempiono comunque la
giornata e così pure le due ore dei colloqui.
Sicchè
i conti tornano, tornano al mio cuore. Sarà forse per questo, per questa
riduzione all'osso del tempo, che gli oltre vent'anni di carcere scontati
sembrano essere passati in un batter d'occhio»(7).
Intervista ad un ex-detenuto
ergastolano
N.V. ha 54 anni.
Ha avuto una condanna all’ergastolo per fatti legati alla lotta armata degli
anni Settanta. Ha scontato 22 anni e 5 mesi tra reclusione (15 anni) e
semireclusione, poi il Tribunale di sorveglianza gli ha concesso la libertà
condizionale. Al termine dei 5 anni della condizionale , come previsto dalla
legge, è stata dichiarata esaurita la pena. Ora lavora in una
editrice-cooperativa di cui è tra i soci fondatori.
Nel
suo libro “Qualcosa da tenere per sé” (ed. Mondadori), la scrittrice Margherita
Oggero dice testualmente che «(...) In
galera le giornate non finiscono mai. Il tempo è immobile e sempre uguale. Ore
identiche a quelle che sono venute prima e verranno dopo, e pensieri che
tornano in circolo come sul solco graffiato di un vecchio disco. Pensieri che
diventano ossessioni, abitudini che si trasformano in manie. Difendersi da se
stessi prima che dagli altri. Abolire l'impazienza. Non contare quanto manca.
Non illudersi che fuori tutto resti come prima. (...)». Sei d'accordo? Ti va di
commentare punto per punto questo scritto?
«Il testo di Margherita
Oggero che mi proponi coglie alcuni aspetti dell’esperienza del recluso. Ciò
che però in quel frammento non compare ma che invece è importante far vedere è
che il tempo del recluso è totalmente gestito dall’istituzione carceraria. E’
l’istituzione che decide se e a che ora un recluso può prendere l’aria, se e a
che ora può fare la doccia, se e quando può socializzare con altri reclusi, se
e quando e quante volte può incontrare i suoi familiari a colloquio, a che ora
si aprono le celle e a che ora si chiudono… in sostanza il tempo di vita del
recluso è totalmente gestito dall’istituzione e anche sorvegliato, non c’è un
solo minuto in cui l’internato è fuori dallo sguardo dell’istituzione.
Poi c’è il tempo della pena»
Che reazione (o sensazione)
hai avuto quando lo Stato ha decretato, con la formula “fine pena: mai”,
l'ergastolo per te? Cosa ha voluto (o vuol) dire in termini di Tempo quella
frase?
«Se una persona condannata
ad una pena temporale può dire a se stessa: qualunque cosa accada il giorno X
sarò una persona libera, e quindi avere un punto di orientamento, il recluso
senza fine pena, il recluso condannato all’ergastolo, non può fare questo
conto. Nel suo certificato penale il fine pena è scritto con un numero
immaginario: 99/99/9999. La sua possibilità di uscita, se non è fra gli
ergastolani ai quali è preclusa la possibilità di ottenere i benefici previsti
dalla legge (che quindi resteranno a vita in carcere), è legata unicamente alla
grazia o all’ottenimento della libertà condizionale che sono entrambi
provvedimenti gestiti da autorità diverse ma assolutamente discrezionali.
Quindi la vita di una persona condannata all’ergastolo, la sua possibilità di
uscire dalla pena, dipende unicamente dal potere discrezionale di un’autorità.
Per questo motivo l’esperienza che la persona condannata all’ergastolo vive è
quella di sentirsi totalmente nelle mani dell’istituzione che può decidere a
suo piacimento se tenere un ergastolano a vita in carcere o farlo uscire. Si
potrebbe dire che se con la pena di morte lo Stato toglie la vita ad una
persona, con l’ergastolo se la prende.
L’impatto con la parola
ergastolo è reso bene da una frase di Pietro Ingrao: “Sono contro l’ergastolo
perché non riesco ad immaginarlo”. Anche fra i reclusi l’ergastolo è una parola
tabù. Per aggirarla si usano alcuni eufemismi, prendere l’ergastolo si dice
“avere l’erba”… che forse è come dire che si sta un po’ sotto terra»
All'interno della cella
avevi un orologio? Un calendario? Che rapporto si instaura con questi oggetti?
«Nella mia
esperienza carceraria è sempre stato vietato avere l’orologio, ed il calendario
l’usavo solo per segnare i giorni in cui potevo fare colloquio con i miei
familiari oppure telefonare. Ma per sopravvivere alla torsione del tempo è
decisivo costruire un tempo per sé, caratterizzato da un proprio fare
autodeterminato, cosa non facile. Negli ultimi anni della mia carcerazione ho
scoperto di avere una vena creativa inaspettata. Di notte quando si chiudevano
le celle mi lasciavo andare alla pittura usando la terra del campetto di calcio
del carcere di Rebibbia ed altre materie colorate che avevo in cella per
cucinare, lo zafferano, ad esempio. Il patriota Settembrini, condannato
all’ergastolo, scriveva nelle “Ricordanze” che l’attività autodeterminata
consente al recluso di pensare: “almeno in questo son libero”, almeno in questo
agisco per me stesso.
Producevo
3/4 opere a notte e alla fine, estenuato, mi godevo l’incanto della sospensione
del tempo. Dipingendo era come se accendessi le luci su un altro mondo, anche
se l’orecchio rimaneva comunque vigile all’ascolto di ciò che accadeva in
sezione, perché la porta della cella si sarebbe potuta aprire in qualunque
momento, ad esempio per una perquisizione, o per la conta notturna dei
detenuti, la qual cosa avrebbe violato quel momento. Ero quindi simultaneamente
collocato un una doppia dimensione: mano e occhi immersi nel tempo della
creazione, orecchio attento ai ritmi dell’istituzione carceraria.
Come giudichi l'uomo moderno
che oggi vive sempre correndo e correndo dietro al Tempo, l'uomo contemporaneo
che sembra volere sempre tutto e all'istante, che “brucia” i secondi e il Tempo
nella logica del “tutto e subito”, grazie anche alla tecnologia, ai mass media,
mail e telefonini che ci fa vivere “in Tempo reale” avvenimenti lontani di
altri continenti?
Da
alcuni anni sono uscito dal carcere e vedo che i dispositivi reclusivi di
controllo del tempo delle persone sono disseminati ovunque nelle istituzioni
sociali, ad esempio in alcune aziende la “pausa fisiologica”, quella per andare
a gabinetto, per intenderci, è considerata dall’azienda un “furto di tempo”.
Per quel che riguarda il mio lavoro, invece, con altre persone, alcune delle
quali provenienti dalla reclusione, sono riuscito a costruire un’esperienza
lavorativa di tipo cooperativo che consente ai soci cooperanti di decidere
autonomamente come organizzare il proprio tempo di lavoro.
Quanti orologi hai in casa?
Che cosa è per te il Tempo oggi?
«L’orologio,
ora che posso, lo uso stabilmente perché ho imparato a considerare il mio tempo
e quello delle altre persone una cosa preziosa, questa considerazione della
preziosità del tempo penso sia anche un indicatore del rispetto che si ha verso
se stessi e verso gli altri. Far aspettare ad esempio è uno dei dispositivi
attraverso cui le istituzioni totali, ma più in generale tutti i poteri, fanno sentire la loro supremazia sulle
persone. “Ci uccidevano con le attese” affermò una donna internata in campo di
concentramento per raccontare uno dei dispositivi più mortificanti di
Auschwitz».
Che ne pensi della vita
cosiddetta slow, cioè della vita in lentezza, senza troppo stressarsi?
«In
base all’esperienza che ho fatto, ed anche per le cose che ho raccontato
finora, non vivo come decisiva la contrapposizione fra“tempo frenetico” e “tempo lento”, mi sembra invece significativa
l’alternativa tra il tempo singolarmente e collettivamente autodeterminato a
quello sovra-determinato dalle varie istituzioni»
(1) A. Mele, “MAI –
L'ergastolo nella vita quotidiana” , edizioni Sensibili alle Foglie 2005,
(2) A. Mele, “MAI –
L'ergastolo nella vita quotidiana” , edizioni Sensibili alle Foglie 2005,
dall'Introduzione di Nicola Valentino p. 7
(3) Ibidem
p. 13
(4) Ibidem
p. 14
(5) Ibidem
p. 14
(6) Ibidem p. 17-18
(7) Ibidem p. 28
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