domenica 2 dicembre 2012



 >> L’esperienza del silenzio in carcere <<
(2^ puntata) 



Si può parlare di silenzio in maniera intelligente in carcere? Certamente sì, vista l’esperienza ultradecennale del gruppo UNA VIA di Bologna.
Sono giovani, studenti universitari e non, che, guidati e coordinati da Pier Cesare Bori, professore di Filosofia morale, presidente del corso in Culture e diritti umani - Facoltà di scienze politiche - Università di Bologna, riescono a riunirsi tutti i venerdì per un’ora per riflettere e meditare assieme ad alcuni carcerati nel contesto della casa circondariale bolognese detta della “Dozza”. La meditazione e riflessione avviene con l’aiuto della lettura di autori che spaziano da Marco Aurelio a Simone Weil, passando per Gandhi, Tolstoj, Flannery 'O Condor, Lao-Tse, fino al Vangelo, dal monaco vietnamita Thich Nhat Hahn al filofoso Kierkegaard, al poeta sufi Rumi al quacchero George Fox, al più recente Amos Oz, a passi del Corano. Alle riflessioni seguono dei minuti di silenzio, cui seguono delle riflessioni personali e delle domande in ordine alla felicità, alla libertà, alla gioia, alla fiducia ed all’amore.
Tale esperienza è stata in parte raccolta nell’interessante libro “Lampada a se stessi – Letture tra università e carcere” curato da Lisa Ginzburg ed edito da Marietti. Il professor Bori si è spento nei primi giorni del mese di novembre 2012 all'età di 75 anni, quando era  appena stato nominato titolare della cattedra Unesco per il pluralismo religioso e per la pace. E pochi giorni fa, saputo della nomina di cui era onorato, aveva detto: "Farò ciò che mi permetterà la mia situazione critica di salute". Lo vogliamo ricordare con questa inedita intervista che ci aveva concesso circa un anno e mezzo fa che non abbiamo fino ad  ora mai pubblicato. 
 
 
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>>> Intervista a Piercesare Bori, professore di Filosofia morale, presidente del corso in Culture e diritti umani - Facoltà di scienze politiche - Università di Bologna
Professore ci fa capire meglio la sua esperienza in carcere per ciò che riguarda il silenzio?
«Cambia continuamente. In questo momento, e questo è originale, lavoro con un gruppo di maghrebini. Con loro leggo alcuni versetti del Corano e facciamo delle riflessioni. Mi sembra interessante, poche battute, pochi versetti… Con loro ancora non affrontiamo il tema del silenzio, siamo appena agli inizi, è un gruppetto nuovo un po’ agitato.
Sempre alla Casa circondariale di Bologna, la cosiddetta “Dozza”, invece nella sezione penale c’è un bel gruppo con cui leggiamo, assieme ai miei studenti, dei testi più o meno classici: io preferirei più i classici mentre talvolta gli studenti portano anche delle poesie. Poi facciamo un breve silenzio strutturato secondo un piccolo schema meditativo di impronta buddista, anche se non mi piace il termine: è il modello di Tich Nath Han. Attingiamo da un libretto che si chiama “Libero ovunque tu sia” dove c’è questo schema diviso in quattro momenti: il respiro, la tranquillità, il lasciare andare … diciamo che funziona molto bene.
Ho fatto tante e tante esperienze di questo genere: un breve silenzio, non connesso con i discorsi precedenti e successivi, fatto proprio per gustare questo momento di pace»
 
Come la prendono i detenuti proprio ora che vivono nel sovraffollamento carcerario e con serie problematiche concrete? E come lo vivono il silenzio?
«Siamo insieme in cappella e, in linea di massima, non c’è una pratica individuale, è un piccolo momento di pratica tutti insieme. Quando lo facciamo piace molto, si piace molto. L’ultima volta qualcuno mi ha parlato ed ha tirato fuori suoi problemi personali…»
 
Da questa sua piccola esperienza si può dedurre che in carcere ci sia molta richiesta di spiritualità, di bisogno di spiritualità?
«Sì, molta, molta… non c’è dubbio che sia una umanità molto aperta e disponibile, ci sono persone che fuori sarebbero molto chiuse e coriacee invece lì hanno una disponibilità sincera.
Anche se è molto importante distinguere tra spiritualità e religione: per religione io intendo la devozione ad una entità personale, alla preghiera, al culto. Questo non tutti lo sentono. Quando ho assistito a qualche celebrazione ho avuto la sensazione di un certo formalismo… Di spiritualità invece ce n’è davvero tanto bisogno»
 
Secondo lei questa richiesta di spiritualità nel detenuto parte da un bisogno di liberarsi della colpa, dai macigni che tormentano la loro coscienza?
«No, credo che il punto fondamentale non sia il pentimento e la liberazione quanto invece riprendere stima di sé stessi, la capacità di recuperare, se mai la si è avuta, un po’ di stima e di fiducia. L’elemento discriminante è lo sguardo sulla propria umanità. Uno sguardo benevolo nonostante tutto, senza ritornare sulle proprie colpe commesse e sui peccati: non entro mai su questo piano.
Si tratta piuttosto di dire e guardare con fiducia sé stessi. Ciò può avvenire sia secondo una visione buddhista della vita, sia con una visione cristiana che è quella a cui mi aggancio: mi collego cioè più alla tradizione degli Amici, dei Quaccheri, con una lunga esperienza di presenza e di silenzio in carcere»
 
Con questa esperienza di silenzio che lei propone vede i detenuti cambiare, trasformarsi, andare in qualche maniera verso il bene?
«Certamente, c’è l’idea di poter comunicare e di poter dire basta. E trasformarsi per uscire persone nuove. Ma prima ancora c’è l’esperienza del “libero ovunque tu sia”, cioè l’esperienza di parlare di sé, dei propri problemi, quasi prescindendo dal carcere… E questo è il risultato maggiore che si ha: vedere cioè che i problemi sono gli stessi, sia quelli che ci sono fuori dal carcere sia quelli che ci sono dentro, i problemi si portano dietro lo stesso un peso, un dolore, una fatica che c’è comunque. Anzi forse il carcere aiuta le persone»
 
Per chi è depresso, per chi tenta il suicidio in carcere questo suo intervento è salutare?
«La situazione di depressione capita soprattutto ai nuovi giunti. Poi ci si adatta alla nuova realtà, e in certi casi il carcere è un aiuto…
Questioni gravi non ne vedo. Non facciamo un lavoro individuale, anche se lo potrei fare perchè ho l’autorizzazione. Ma non mi sento preparato a seguire casi singoli.
L’idea invece è quella di dare una piccola esperienza sia di letture di testi spirituali forti, sia di silenzio che ai detenuti possa comunque servire sin d’ora e poi come sostegno di quando usciranno dal carcere. E sono ormai dodici anni che svolgo questa attività con varie modalità»
 
Come prendono inizialmente questa esperienza gli studenti universitari?
«Piace molto perché indubbiamente c’è una umanità molto calda: gli studenti portano vitalità, simpatia e ai detenuti piace tanto così come anche agli studenti. E si sorprendono perché tutto è così facile, perché la fantasia ci fa pensare che le carceri siano posti così ameni...»
 
Gli studenti universitari normalmente sono abituati ad una lezione cattedratica, agli esami. Questa cosa qui li spiazza?
«Questa attività io la ripesco dopo l’esame. Chiedo cioè se si vuole continuare il lavoro svolto a lezione, cioè la lettura dei classici, comunico che ci troviamo in questo gruppo il venerdì. Dopodichè se vogliono possono fare un passo ulteriore: venire cioè con me in carcere, chiedere l’autorizzazione per l’accesso alla struttura. E quando vengono si rendono conto che facciamo più o meno le stesse cose del gruppo in università: cioè leggere, fare silenzio, parlare….»
 
Gli studenti percepiscono questa attività in maniera positiva? Non lo vivono come il classico volontariato in carcere che da sostegno concreto e basta, cioè come quel volontariato di stile caritativo?
«Vengono con l’idea di partecipare con i detenuti al silenzio. Non pensano quindi di portare chissà che cosa, ma di far discutere di problemi comuni, non di problemi speciali»
 
Come siete visti dal direttore e dal personale per l’attività che svolgete?
«Ne ho visti alternarsi molti di direttori. Sono stato accolto con entusiasmo nel 1998, poi ho visto e vissuto tante situazioni anche sfavorevoli, adesso l’attività la svolgiamo abbastanza bene, anche perché sono un personaggio abbastanza noto.
Più che il problema del direttore, però, sono gli umori del personale: c’è un continuo avvicendarsi degli agenti e spesso bisogna spiegare sempre tutto da capo su ciò che stiamo facendo. Qualche volta viviamo anche momenti spiacevoli con domande di controllo del tipo ”che cosa ha nella borsa, che cosa porta” ecc… Dopo dodici anni di questa attività è un po’ demoralizzante. Ho però l’impressione che ci sia un po’ di malumore del tipo “guarda cosa ci tocca fare! Questi qui vengono ad accudire i detenuti e noi agenti siamo messi male!”»
 
Qualche agente si avvicina a voi? Si dimostra interessato al vostro intervento?
«Dipende. Qualcuno tra gli agenti era stato anche mio studente, laureato. Ma la situazione del personale sta un po’ migliorando.
L’esperienza con i maghrebini è interessante, anche perché so un po’ di arabo (il gruppo si chiama “Laboratorio di arabo”), perché è un discorso che arriva alle radici della loro cultura ed è già notevole poterlo fare: in altre situazioni si sono rifiutati di parlare delle loro cose perché si rendevano conto che in realtà io so le cose come sono»
 
Dopo oltre dodici anni se si facesse una sorta di bilancio della sua esperienza in carcere…
«La costanza, il fatto cioè di andare sempre, sempre, sempre tutti i venerdì da metà settembre a metà luglio. Questa presenza continua credo sia importante. Perché c’è una costante ricerca e bramosia di spiritualità che non sia religione. Ma che non sia neanche gioco, teatro ed evasione. Mi sembra essere una linea giusta per il cambiamento. E quindi assiduità, costanza e direzione spirituale non qualificata religiosamente in un senso o nell’altro perché si sarebbe immediatamente esclusi»
 
Ma dentro il carcere ci sono anche gli psicologi
«Non c’è mai stata una concorrenza con loro»
 
Perché i piani di azione e l’atteggiamento sono molto simili, o sbaglio?
«Sì, ma la discriminante è che è sempre un lavoro di gruppo, mai individuale. E poi il nostro è un lavoro non generico ma generale: invece nel lavoro psicoterapeutico si elabora un linguaggio specifico della persona, noi invece cerchiamo di dare strumenti generali.
La chiave di fondo è che c’è una fondamentale fiducia antropologica: cioè “ce la fai, abbi fiducia”, “la religione è un mezzo possibile ma se non ti senti lascia pure stare”… Questo per me è fondamentale. E tutto ciò che si fa vale dentro come fuori del carcere: conduciamo un discorso generale che vale anche per noi stessi»
(fonte: Tempi di Fraternità - dicembre 2012)

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