venerdì 7 dicembre 2012


>> Il Buddhismo entra in carcere <<

(4^ puntata)




Dalla lettera di un detenuto:
«Il buddhismo mi sta insegnando a guardare tutto ciò che avviene nella mia vita in modo differente da quello al quale ero abituato.
Io sono il creatore della mia sofferenza così come della mia felicità.
Sono felice che il buddhismo sia parte della mia vita. Il buddhismo mi ha conferito dignità, coraggio e onore».

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«Spesso mi e’ stato detto che la prigione e’ uno stato della mente. Questa affermazione non e’ mai stata così vera come da quando ho incontrato il Dharma e realizzato che la mia stessa mente mi tiene incarcerato molto di più di quello che qualsiasi prigione abbia mai fatto o farà».
Rob Cummins, Karnet Prison Farm,
Western Australia:

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«Anch’io voglio essere una persona dal cuore gentile e sempre felice. Per questo motivo voglio studiare e imparare».
Joseph Chiles

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«Il Liberation Prison Project (Progetto Liberazione nella Prigione) nasce negli Stati Uniti nel 1996 grazie alla fondatrice e attuale direttrice esecutiva Ven. Robina Courtin. “Lo scopo del progetto non è quello di rendere le persone buddhiste; è di aiutarle a sviluppare il loro potenziale umano” - Ven. Robina Courtin offre consigli spirituali e insegnamenti, così come libri e materiale vario, a persone in carcere che sono interessate ad esplorare, studiare e praticare il buddhismo.
Dalla data della sua fondazione Liberation Prison Project si è preso cura dei bisogni spirituali di circa 20.000 detenuti insegnando presso gli istituti carcerari; attraverso la corrispondenza epistolare; offrendo libri e materiale gratuitamente; fornendo corsi per corrispondenza; pubblicando una newsletter; sostenendo i cappellani e le librerie delle carceri; collaborando con altre organizzazioni a progetti di volontariato nelle carceri; sostenendo i detenuti anche nella fase di transizione che subentra al momento del rilascio garantendo così la continuità del sostegno e la formazione di una comunità aperta tra gli studenti al di fuori del carcere.
Il Progetto Liberazione Nella Prigione nasce qui in Italia dal desiderio di ampliare Liberation Prison Project, con l’obiettivo di portare nel nostro paese i grandi benefici che il progetto ha già diffuso in svariate parti del mondo, tra cui negli USA, in Australia, Spagna, Messico, Mongolia, Italia, e Nuova Zelanda.
Lo scopo del progetto è quello di aiutare le persone a sviluppare il proprio potenziale umano, senza nessuna volontà di renderle buddiste; si tratta di offrire ai detenuti strumenti di sviluppo personale e conoscenza di sé, quali la meditazione nelle sue differenti declinazioni, l’auto-osservazione e l’elaborazione di temi psicologici e filosofici rilevanti all’interno del contesto carcerario.
Tra i benefici riscontrati con questi metodi, si ricorda la diminuzione o la dissoluzione dei conflitti individuali ed interpersonali e la modifica di abitudini comportamentali, aspetti supportati dall’elevazione della mente e del cuore verso l’interiore potenziale di compassione e saggezza raggiungibile da chiunque, senza alcuna discriminazione.
In Italia siamo attivi con corsi settimanali presso cinque istituti carcerari (Massa, Bollate (MI), Spoleto, Gorgonia), e siamo in contatto con altre carceri al fine di organizzare dei corsi presso i loro istituti. Abbiamo donato libri ai detenuti e anche a svariate biblioteche all’interno delle carceri. Abbiamo ricevuto lettere e instaurato rapporti di corrispondenza con alcuni detenuti.
Il Progetto Liberazione Nella Prigione è un progetto dell’Istituto Lama Tzong Khapa associato alla Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana e inoltre collabora con altre associazioni al fine di creare una rete di volontariato in carcere che si occupa di diffondere la meditazione e altre tecniche attinte dalla tradizione buddhista per migliorare il benessere psico-fisico dei detenuti .
L’Istituto Lama Tzong Khapa é uno dei più grandi e più attivi centri di Buddhismo tibetano della tradizione Ghelug in occidente. Fondato nel 1977 da Lama Thubten Yesce e Lama Thubten Zopa Rinpoce, é membro della Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana (FPMT) e dell’Unione Buddhista Italiana (UBI). L’ILTK é particolarmente conosciuto e apprezzato per il valore dei suoi maestri, sia residenti sia ospiti, così come per i suoi articolati corsi di studio. Questi comprendono il Masters Program di studi buddhisti in Sutra e Tantra, di livello avanzato, il Basic Program, di livello intermedio, e Alla Scoperta del Buddhismo, di livello introduttivo. L’ILTK é altrettanto noto per gli insegnamenti di Dharma tenuti nei week-end durante tutto l’arco dell’anno. Il loro unico scopo é favorire una profonda trasformazione della persona, che porti al loro più elevato grado di sviluppo le qualità umane dell’amore, della compassione e della saggezza, fino allo stato della perfetta illuminazione. (fonte: www.iltk.it)

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 Intervista a Grazia Sacchi, volontaria del Progetto Liberazione Nella Prigione presso la Casa di Reclusione di Milano-Bollate
(Nota Bene: in rosso, le risposte dei membri del suo gruppo in carcere)

Secondo lei c’è sete di spiritualità e religiosità nei carcerati?
«Dipende dalle carceri e dai singoli reparti; per quanto riguarda la mia esperienza, ritengo che in alcune persone ci sia una gran sete di spiritualità, un gran desiderio di guardarsi dentro per andare oltre. Teniamo presente che un detenuto ha parecchie ore libere a disposizione, ha modo e tempo di riflettere e tale riflessione può essere a volte sconvolgente. Il vettore spirituale diventa un’ancora di salvezza, può dare un senso alle considerazioni pessimistiche e aiutare a svoltare pagina. Forse meno sete di religiosità, nel senso formale e strutturato del termine, oppure si tratta di una pratica religiosa strumentale (“Ti prego, fammi uscire da qui…”!) che poi non viene proseguita fuori dalla prigione».

Perché un detenuto si avvicina al buddhismo…?
«Il buddhismo che viene presentato nelle carceri dal nostro gruppo è un buddismo laico, si tratta dello studio filosofico-psicologico della mente, del suo funzionamento e la diffusione di valori etici universalmente condivisi. In questo senso, viene spesso accostato nella sua dimensione psico-filosofica;
si tratta della sola religione che ha approfondito questa tematica, le altro non lo fanno…. Ha permesso di analizzare la mia vita, eliminare la collera e la rabbia, i rimorsi, ha evitato di farmi vivere nel passato per farmi diventare una persona migliore»

Quale la sua utilità e lo scopo per un carcerato?
«Così come viene presentato fornisce suggerimenti di vita quotidiana molto pratici, condivisibili, quindi un aiuto concreto nella realtà di tutti i giorni.
Da quando seguo il corso sono aumentate le mie qualità: io già sono una persona paziente ed ora lo sono di più, perdo meno facilmente il controllo rispetto a prima e le mie discussioni sono semmai solo verbali. In carcere ci vuole molta pazienza, soprattutto con i propri compagni di cella: la cella è il luogo migliore per mettere in pratica ciò che si ascolta e si studia, una palestra ottimale, un piccolo mondo. Ho preso consapevolezza di tante cose e ho imparato a trasformare i problemi in soluzioni….
Qui in carcere si vive la vita in modo diverso, si è lontani da tutti: il buddismo mi ha aiutato ad un cambiamento interiore per vivere meglio questa realtà, ho superato tristezza, rabbia forte e difficoltà quotidiane, non che non ci sono più, ma le vivo in modo diverso»

Perché il vostro istituto ha deciso di entrare nelle carceri?
«Per rispondere ad esigenze importanti di crescita personale. Esiste un versante del buddismo, il cosiddetto “buddismo impegnato”, diffuso in luoghi di disagio sociale, di malessere psico-fisico o di accompagnamento ai morenti. Si tratta di compassione in azione. Le carceri sono da sempre un luogo di dolore, ma anche di possibile crescita e miglioramento, dipende da come si guarda la questione».



In che condizione psico-fisica e morale avete trovato i carcerati?
«Il carcere che frequento è un carcere modello in Italia ed in Europa, si tratta della casa di reclusione di Milano Bollate, ad elevato regime tratta- mentale. Per questa ragione, differentemente da altre realtà, le condizioni globali dei detenuti sono migliori. L’elevata attenzione alla riabilitazione determina un clima più attivo: i detenuti sono molto impegnati nelle varie attività, hanno pochi tempi vuoti, sono molto stimolati. Ciò conduce a creare stati morali più alti, anche se l’abbattimento psicologico è molto forte e l’umore depresso o arrabbiato ancora intenso. Ci sono altresì manchevolezze e disattenzioni dal punto di vista fisico-sanitario, anche se la cura in tale senso e delle condizioni igieniche è senz’altro buona».

Il detenuto ha comunque commesso un reato…serve questo come luogo di rieducazione così come è strutturato?
«In parte ho già risposto a questa domanda. La prigione, così come è strutturata nella maggior parte dei casi, non serve come luogo di rieducazione; si tratta di passare da una mentalità di carcere punitivo ad una visione di carcere trattamentale, dove si possano fornire strumenti per far sì che le persone credano al loro potenziale positivo. Il carcere è un luogo di riflessione, per tutti: invece di sviluppare un riflessione centrata sulla rabbia, sulla ritorsione, sulla paura, è meglio sviluppare una riflessione di consapevolezza rispetto ai comportamenti commessi, un lavoro di evoluzione del rimorso e quindi un’apertura ad una vita diversa. C’è si la possibilità di cambiare, magari non è alla portata di mano per tutti, per alcuni è più impegnativo, ma è possibile».

Come ci si può liberare quando si è in prigione, così come recita il vostro progetto?
«Si tratta di una liberazione interiore, al di là delle mura. E’ possibile vedere il cielo e non solo le sbarre».

Una vostra consorella, coordinatrice del vostro progetto in Australia, dice che «Il Buddhismo è lavorare sulla trasformazione della mente. Quindi fornisce loro strumenti e metodi per osservare effettivamente ogni singola situazione che sorge nella loro mente e per utilizzarla come meditazione». Le chiedo: su cosa si può meditare?
«Si può riflettere sugli sbagli commessi, sul perché si è stati accusati, giustamente o ingiustamente, sulle conseguenze delle nostre azioni. In ogni caso, lavorare sulla consapevolezza fa bene, fa crescere; anche se si fosse condannati a morte, si va incontro alla morte in modo più sereno, con delle capacità diverse».

Il Dalai Lama dice che «il buddhismo è incentrato sulle nozioni di pena e sofferenza, di gioia e di felicità». Come vi avvicinate al singolo detenuto proponendogli questi insegnamenti? Come si fa a convincere il detenuto che è necessario vivere ma anche soffrire? Visto poi che la vita lì, dentro alla propria cella sovraffollata ed in condizioni a dir poco disumane, sembra non aver nessun senso, nessuno scopo?

«La vita ha un senso ed ha uno scopo, è preziosa di per sé, indipendentemente dal fatto di vivere in una cella; innanzitutto queste persone prima o poi usciranno dal carcere e quindi dovranno tornare nella vita “normale”. Se mentre sono dentro possono imparare a sviluppare competenze positive e qualità positive dell’essere, fuori saranno individui diversi. E anche all’interno del carcere possono essere diversi fra di loro, più umani, disponibili e quindi irradiare di amore e consapevolezza luoghi bui. La sofferenza può essere sanata, va nutrita per essere trasformata».

Come si fa ad evitare suicidi in carcere?
«Innanzitutto modificando il sistema della giustizia e le condizioni ambientali: in certe situazioni non umane è facile meditare un suicidio. Una mente instabile e fragile trova le condizioni migliori per eliminare il corpo. Il sistema giudiziario è lento e problematico: gran parte dei suicidi sono di persone in attesa di giudizio e questo è un dato che deve far riflettere. Il carcere trattamentale deve essere attento alle richieste psicologiche degli individui che non devono essere sottovalutate; va aumentato il personale psicologico, gli psicologi nelle carceri sono ancora troppo pochi. Il carcere deve essere umanizzato e vanno riconosciuti i diritti dei detenuti».

Voi tenete anche una corrispondenza fatta di lettere con i singoli detenuti? Che cosa vi scrivono?
A questa specifica domanda risponde Livia Pecci, insegnante per corrispondenza

«Sì, alcuni di noi si occupano di corrispondere con alcuni detenuti, ma soltanto nel momento in cui siano loro a richiederlo. Si tratta di quelle persone che hanno deciso di conoscere in modo più approfondito il Buddhismo, e dunque, oltre che fornire loro dei testi, partendo da una dispensa di base fino a testi più specifici, gli viene data, appunto, la possibilità di essere seguiti individualmente da un volontario che corrisponderà con loro. Almeno inizialmente non c'è una conoscenza diretta, quindi il contatto è solo epistolare. I temi centrali di cui si tratta sono, essenzialmente, temi inerenti il Dharma, cioè l'insegnamento di Buddha Shakyamuni, però, inevitabilmente, ci vengono riportati anche fatti della loro vita, ciò che gli accade in carcere, e ci parlano anche dei rapporti con le loro famiglie e delle loro ansie, angosce e sensi di inadeguatezza e di sconforto. Noi tentiamo di rispondere un po’ a tutto, nei limiti delle nostre capacità, inquadrando le nostre risposte o suggerimenti nell'ambito del pensiero buddhista. Cerchiamo, in sostanza, di dar loro la possibilità di vedere le problematiche da una diversa angolazione, che magari finora non avevano mai considerato, quella della possibile trasformazione interiore indicata dal Buddha»

Come sono i rapporti vostri con i familiari di chi sta in carcere?

«Non abbiamo rapporti con i familiari; in carcere nessun volontario può avere contatti con familiari, avvocati, ecc. per ragioni di coinvolgimento personale e pulizia del setting. Il nostro progetto si rivolge solo ai detenuti e agli ex detenuti, ovvero alle persone che hanno seguito il progetto durante la detenzione e che vogliono proseguire anche una volta scontata la pena.
Penso che il beneficio che portiamo ai detenuti influenzi positivamente anche le loro famiglie. Spesso i detenuti ci parlano del miglioramento del rapporto con i loro familiari, del risanamento dei conflitti, dell’aiuto tramite la preghiera e la meditazione che si sentono di poter ora donare ai loro cari. Se sboccia un fiore, è primavera in tutto il mondo».



Estratti da lettere di detenuti che seguono il progetto buddhista
« (…) Tutte le sere, dopo aver fatto la mia meditazione, chiedo a Buddha di poter essere il suo canalizzatore di amore e di poter aiutare il prossimo. (…)»
« (…) So che tutto è impermanente e che il cambiamento, nonostante porti sofferenza, è necessario per imparare a non sbagliare più. (…)»
« (…) Mi rendo conto che il mondo soffre e in me si accresce la voglia di fare qualcosa di buono per esso; ultimamente sto meditando sul fatto di ‘scambiare se stessi con gli altri’, l’insegnamento che dette Buddha a Manjushri. (…)»
« (…) E’ con grande gioia che sto vivendo questa mia ripresa, giorno per giorno l’energia vitale si sta rigenerando e la rabbia residua svanisce. Le sue impronte devono essere purificate, ma la collera, quella cattiva ed impulsiva, si sta piano piano esaurendo. Leggo sempre i testi sul Buddhismo, ogni giorno, e cerco di praticare gli insegnamenti ed i consigli nel quotidiano. Cerco di praticare l’equanimità nei confronti degli altri detenuti e delle guardie. Questo mi aiuta tanto ad essere più sereno ed a vivere meglio con gli altri. Sto cominciando a non lamentarmi più e a non fare polemiche, vivo con più integrità, senza troppi conflitti. Mi sto rendendo conto delle sterili proteste e di quell’attaccamento alle proprie idee, che sembravano monoliti di granito. (…) »
« (…) Ho constatato di persona cosa sia la legge del karma: ho capito che bisogna piantare semi buoni per raccogliere frutti buoni. (…) »
« (…)Mi fa male la rabbia, è la mia vera afflizione mentale. Però, anche nei momenti più brutti, mi faccio forza e non abbandono il Dharma. E’ proprio in quei momenti, quando i dubbi sorgono, che ora la forza fuoriesce. Sono felice di questa vittoria sull’illusione, anche della droga! Spero che la mia vita sia cambiata, perché imparare è cambiare, e sto imparando ad ogni istante. (…)»
« (…) Sono felice di sapere che l’esistenza non è fine a se stessa, non è vuota di significato. (…) »
« (…) La via del Buddha è il sentiero che conduce alla liberazione. Per la prima volta nella mia vita, incomincio ad avere fede in qualcosa, ed è come una pianticella che cresce. (…) »
« (…) Studiando il Dharma, riesco a capire certi meccanismi in maniera chiara e limpida. Anche la rabbia non sorge più tanto spesso, come era solita sorgere, e quando sorge è un attimo solo, riesco ad osservarla senza intervenire e reagire, come ero solito fare. Non è sopprimere le vecchie reazioni e farmi venire il mal di stomaco, semplicemente non mi ci aggrappo più, come facevo prima. Anch’io ero preda degli stati d’animo, passavo da momenti di massima esaltazione a momenti di delusione e tristezza. L’equilibrio è tra gli opposti estremi, come dice Buddha Shakyamuni. Osservo tutto ciò di me, ne sono diventato cosciente, prima non me ne accorgevo, stavo bene o stavo male. (…) »
« (…) Vorrei ringraziare tutti quanti per quello che fate per noi detenuti e per il mondo intero. Il messaggio del Buddha, attraverso i suoi discepoli di ieri e di oggi, giunge a tutti ed a noi in carcere ha fatto veramente breccia nel cuore. Ora sento profondamente che il Dharma fa parte della mia vita. Sono felice di aver incontrato il Buddha ed i suoi seguaci. … »
« (…) Non mangio la carne perché penso che quell’animale che è stato ucciso poteva essere, nelle vite passate, anche mia madre, mio padre, mio fratello, ecc. Quindi, se penso a questo, genero compassione e mi rendo conto che, se altri come me lo facessero, ci sarebbero meno uccisioni e meno commercio di carne. (…) »
« (…) Voglio diventare un buon buddhista, perché voglio diventare un buon riferimento per gli altri. La mia più grande felicità sarebbe quella di vedere dei futuri Maestri che insegnino il Dharma come tu lo insegni a me e come io trovo conforto nelle tue parole, anche gli altri lo possano trovare nelle mie. (…) »
« (…) Ho anche smesso di fumare e qui smettere penso che sia molto più difficile che farlo fuori da queste mura. Però mi sono detto: “Un buon buddhista non fuma!”. Voglio fare da esempio. Solo pensando che un giorno anch’io potrò collaborare ad aiutare le persone che hanno avuto i miei stessi problemi o problemi simili, mi rende felice e pieno di gioia. Penso che non ci sia cosa migliore che veder stare bene chi un giorno ti ha chiesto aiuto. (…) »

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