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Il Buddhismo entra in carcere <<
(4^ puntata)
Dalla
lettera di un detenuto:
«Il
buddhismo mi sta insegnando a guardare tutto ciò che avviene nella
mia vita in modo differente da quello al quale ero abituato.
Io sono il
creatore della mia sofferenza così come della mia felicità.
Sono felice
che il buddhismo sia parte della mia vita. Il buddhismo mi ha
conferito dignità, coraggio e onore».
*****
«Spesso mi
e’ stato detto che la prigione e’ uno stato della mente. Questa
affermazione non e’ mai stata così vera come da quando ho
incontrato il Dharma e realizzato che la mia stessa mente mi tiene
incarcerato molto di più di quello che qualsiasi prigione abbia mai
fatto o farà».
Rob
Cummins, Karnet Prison Farm,
Western
Australia:
*****
«Anch’io
voglio essere una persona dal cuore gentile e sempre felice. Per
questo motivo voglio studiare e imparare».
Joseph
Chiles
*****
«Il
Liberation Prison
Project
(Progetto Liberazione nella Prigione)
nasce negli Stati Uniti nel 1996 grazie
alla fondatrice e attuale direttrice esecutiva Ven. Robina Courtin.
“Lo scopo del progetto non è quello di rendere le persone
buddhiste; è di aiutarle a sviluppare il loro potenziale umano” -
Ven. Robina Courtin offre
consigli spirituali e insegnamenti, così come libri e materiale
vario, a persone in carcere che sono interessate ad esplorare,
studiare e praticare il buddhismo.
Dalla
data della sua fondazione Liberation
Prison Project
si è preso cura dei bisogni spirituali di circa 20.000 detenuti
insegnando presso gli istituti carcerari; attraverso
la corrispondenza epistolare; offrendo libri e materiale
gratuitamente; fornendo corsi per corrispondenza; pubblicando una
newsletter; sostenendo i cappellani e le librerie delle carceri;
collaborando con altre organizzazioni a progetti di volontariato
nelle carceri; sostenendo i detenuti anche nella fase di transizione
che subentra al momento del rilascio garantendo così la continuità
del sostegno e la formazione di una comunità aperta tra gli studenti
al di fuori del carcere.
Il
Progetto
Liberazione Nella Prigione
nasce qui in Italia
dal desiderio di
ampliare Liberation Prison Project, con l’obiettivo di portare nel
nostro paese i grandi benefici che il progetto ha già diffuso in
svariate parti del mondo, tra cui negli USA, in Australia, Spagna,
Messico, Mongolia, Italia, e Nuova Zelanda.
Lo scopo del
progetto è quello di aiutare le persone a sviluppare il proprio
potenziale umano, senza nessuna volontà di renderle buddiste; si
tratta di offrire ai detenuti strumenti di sviluppo personale e
conoscenza di sé, quali la meditazione nelle sue differenti
declinazioni, l’auto-osservazione e l’elaborazione di temi
psicologici e filosofici rilevanti all’interno del contesto
carcerario.
Tra i
benefici riscontrati con questi metodi, si ricorda la diminuzione o
la dissoluzione dei conflitti individuali ed interpersonali e la
modifica di abitudini comportamentali, aspetti supportati
dall’elevazione della mente e del cuore verso l’interiore
potenziale di compassione e saggezza raggiungibile da chiunque, senza
alcuna discriminazione.
In Italia
siamo attivi con corsi settimanali presso cinque istituti carcerari
(Massa, Bollate (MI), Spoleto, Gorgonia), e siamo in contatto con
altre carceri al fine di organizzare dei corsi presso i loro
istituti. Abbiamo donato libri ai detenuti e anche a svariate
biblioteche all’interno delle carceri. Abbiamo ricevuto lettere e
instaurato rapporti di corrispondenza con alcuni detenuti.
Il
Progetto Liberazione Nella Prigione
è un progetto dell’Istituto Lama Tzong Khapa associato alla
Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana e inoltre
collabora con altre associazioni al fine di creare una rete di
volontariato in carcere che si occupa di diffondere la meditazione e
altre tecniche attinte dalla tradizione buddhista per migliorare il
benessere psico-fisico dei detenuti .
L’Istituto
Lama Tzong Khapa
é uno dei più grandi e più attivi centri di Buddhismo tibetano
della tradizione Ghelug in occidente. Fondato nel 1977 da Lama
Thubten Yesce e Lama Thubten Zopa Rinpoce, é membro della Fondazione
per la Preservazione della Tradizione Mahayana (FPMT) e dell’Unione
Buddhista Italiana (UBI). L’ILTK é particolarmente conosciuto e
apprezzato per il valore dei suoi maestri, sia residenti sia ospiti,
così come per i suoi articolati corsi di studio. Questi comprendono
il Masters
Program
di studi buddhisti in Sutra e Tantra, di livello avanzato, il Basic
Program,
di livello intermedio, e Alla
Scoperta del Buddhismo,
di livello introduttivo. L’ILTK é altrettanto noto per gli
insegnamenti di Dharma tenuti nei week-end durante tutto l’arco
dell’anno. Il loro unico scopo é favorire una profonda
trasformazione della persona, che porti al loro più elevato grado di
sviluppo le qualità umane dell’amore, della compassione e della
saggezza, fino allo stato della perfetta illuminazione. (fonte:
www.iltk.it)
******
Intervista a Grazia
Sacchi, volontaria del Progetto Liberazione Nella Prigione presso la
Casa di Reclusione di Milano-Bollate
(Nota Bene:
in rosso, le risposte dei membri del suo gruppo in carcere)
Secondo
lei c’è sete di spiritualità e religiosità nei carcerati?
«Dipende
dalle carceri e dai singoli reparti; per quanto riguarda la mia
esperienza, ritengo che in alcune persone ci sia una gran sete di
spiritualità, un gran desiderio di guardarsi dentro per andare
oltre. Teniamo presente che un detenuto ha parecchie ore libere a
disposizione, ha modo e tempo di riflettere e tale riflessione può
essere a volte sconvolgente. Il vettore spirituale diventa un’ancora
di salvezza, può dare un senso alle considerazioni pessimistiche e
aiutare a svoltare pagina. Forse meno sete di religiosità, nel senso
formale e strutturato del termine, oppure si tratta di una pratica
religiosa strumentale (“Ti prego, fammi uscire da qui…”!) che
poi non viene proseguita fuori dalla prigione».
Perché
un detenuto si avvicina al buddhismo…?
«Il
buddhismo che viene presentato nelle carceri dal nostro gruppo è un
buddismo laico, si tratta dello studio filosofico-psicologico della
mente, del suo funzionamento e la diffusione di valori etici
universalmente condivisi. In questo senso, viene spesso accostato
nella sua dimensione psico-filosofica;
si
tratta della sola religione che ha approfondito questa tematica, le
altro non lo fanno…. Ha permesso di analizzare la mia vita,
eliminare la collera e la rabbia, i rimorsi, ha evitato di farmi
vivere nel passato per farmi diventare una persona migliore»
Quale la
sua utilità e lo scopo per un carcerato?
«Così come
viene presentato fornisce suggerimenti di vita quotidiana molto
pratici, condivisibili, quindi un aiuto concreto nella realtà di
tutti i giorni.
Da
quando seguo il corso sono aumentate le mie qualità: io già sono
una persona paziente ed ora lo sono di più, perdo meno facilmente il
controllo rispetto a prima e le mie discussioni sono semmai solo
verbali. In carcere ci vuole molta pazienza, soprattutto con i propri
compagni di cella: la cella è il luogo migliore per mettere in
pratica ciò che si ascolta e si studia, una palestra ottimale, un
piccolo mondo. Ho preso consapevolezza di tante cose e ho imparato a
trasformare i problemi in soluzioni….
Qui
in carcere si vive la vita in modo diverso, si è lontani da tutti:
il buddismo mi ha aiutato ad un cambiamento interiore per vivere
meglio questa realtà, ho superato tristezza, rabbia forte e
difficoltà quotidiane, non che non ci sono più, ma le vivo in modo
diverso»
Perché
il vostro istituto ha deciso di entrare nelle carceri?
«Per
rispondere ad esigenze importanti di crescita personale. Esiste un
versante del buddismo, il cosiddetto “buddismo impegnato”,
diffuso in luoghi di disagio sociale, di malessere psico-fisico o di
accompagnamento ai morenti. Si tratta di compassione in azione. Le
carceri sono da sempre un luogo di dolore, ma anche di possibile
crescita e miglioramento, dipende da come si guarda la questione».
In che
condizione psico-fisica e morale avete trovato i carcerati?
«Il carcere
che frequento è un carcere modello in Italia ed in Europa, si tratta
della casa di reclusione di Milano Bollate, ad elevato regime tratta-
mentale. Per questa ragione, differentemente da altre realtà, le
condizioni globali dei detenuti sono migliori. L’elevata attenzione
alla riabilitazione determina un clima più attivo: i detenuti sono
molto impegnati nelle varie attività, hanno pochi tempi vuoti, sono
molto stimolati. Ciò conduce a creare stati morali più alti, anche
se l’abbattimento psicologico è molto forte e l’umore depresso o
arrabbiato ancora intenso. Ci sono altresì manchevolezze e
disattenzioni dal punto di vista fisico-sanitario, anche se la cura
in tale senso e delle condizioni igieniche è senz’altro buona».
Il
detenuto ha comunque commesso un reato…serve questo come luogo di
rieducazione così come è strutturato?
«In parte
ho già risposto a questa domanda. La prigione, così come è
strutturata nella maggior parte dei casi, non serve come luogo di
rieducazione; si tratta di passare da una mentalità di carcere
punitivo ad una visione di carcere trattamentale, dove si possano
fornire strumenti per far sì che le persone credano al loro
potenziale positivo. Il carcere è un luogo di riflessione, per
tutti: invece di sviluppare un riflessione centrata sulla rabbia,
sulla ritorsione, sulla paura, è meglio sviluppare una riflessione
di consapevolezza rispetto ai comportamenti commessi, un lavoro di
evoluzione del rimorso e quindi un’apertura ad una vita diversa.
C’è si la possibilità di cambiare, magari non è alla portata di
mano per tutti, per alcuni è più impegnativo, ma è possibile».
Come ci
si può liberare quando si è in prigione, così come recita il
vostro progetto?
«Si
tratta di una liberazione interiore, al di là delle mura. E’
possibile vedere il cielo e non solo le sbarre».
Una
vostra consorella, coordinatrice del vostro progetto in Australia,
dice che «Il Buddhismo è lavorare sulla trasformazione della mente.
Quindi fornisce loro strumenti e metodi per osservare effettivamente
ogni singola situazione che sorge nella loro mente e per utilizzarla
come meditazione». Le chiedo: su cosa si può meditare?
«Si
può riflettere sugli sbagli commessi, sul perché si è stati
accusati, giustamente o ingiustamente, sulle conseguenze delle nostre
azioni. In ogni caso, lavorare sulla consapevolezza fa bene, fa
crescere; anche se si fosse condannati a morte, si va incontro alla
morte in modo più sereno, con delle capacità diverse».
Il Dalai
Lama dice che «il buddhismo è incentrato sulle nozioni di pena e
sofferenza, di gioia e di felicità». Come vi avvicinate al singolo
detenuto proponendogli questi insegnamenti? Come si fa a convincere
il detenuto che è necessario vivere ma anche soffrire? Visto poi che
la vita lì, dentro alla propria cella sovraffollata ed in condizioni
a dir poco disumane, sembra non aver nessun senso, nessuno scopo?
«La vita ha
un senso ed ha uno scopo, è preziosa di per sé, indipendentemente
dal fatto di vivere in una cella; innanzitutto queste persone prima o
poi usciranno dal carcere e quindi dovranno tornare nella vita
“normale”. Se mentre sono dentro possono imparare a sviluppare
competenze positive e qualità positive dell’essere, fuori saranno
individui diversi. E anche all’interno del carcere possono essere
diversi fra di loro, più umani, disponibili e quindi irradiare di
amore e consapevolezza luoghi bui. La sofferenza può essere sanata,
va nutrita per essere trasformata».
Come si
fa ad evitare suicidi in carcere?
«Innanzitutto
modificando il sistema della giustizia e le condizioni ambientali: in
certe situazioni non umane è facile meditare un suicidio. Una mente
instabile e fragile trova le condizioni migliori per eliminare il
corpo. Il sistema giudiziario è lento e problematico: gran parte dei
suicidi sono di persone in attesa di giudizio e questo è un dato che
deve far riflettere. Il carcere trattamentale deve essere attento
alle richieste psicologiche degli individui che non devono essere
sottovalutate; va aumentato il personale psicologico, gli psicologi
nelle carceri sono ancora troppo pochi. Il carcere deve essere
umanizzato e vanno riconosciuti i diritti dei detenuti».
Voi
tenete anche una corrispondenza fatta di lettere con i singoli
detenuti? Che cosa vi scrivono?
A
questa specifica domanda risponde Livia Pecci, insegnante per
corrispondenza
«Sì,
alcuni di noi si occupano di corrispondere con alcuni detenuti, ma
soltanto nel momento in cui siano loro a richiederlo. Si tratta di
quelle persone che hanno deciso di conoscere in modo più
approfondito il Buddhismo, e dunque, oltre che fornire loro dei
testi, partendo da una dispensa di base fino a testi più specifici,
gli viene data, appunto, la possibilità di essere seguiti
individualmente da un volontario che corrisponderà con loro. Almeno
inizialmente non c'è una conoscenza diretta, quindi il contatto è
solo epistolare. I temi centrali di cui si tratta sono,
essenzialmente, temi inerenti il Dharma, cioè l'insegnamento di
Buddha Shakyamuni, però, inevitabilmente, ci vengono riportati anche
fatti della loro vita, ciò che gli accade in carcere, e ci parlano
anche dei rapporti con le loro famiglie e delle loro ansie, angosce e
sensi di inadeguatezza e di sconforto. Noi tentiamo di rispondere un
po’ a tutto, nei limiti delle nostre capacità, inquadrando le
nostre risposte o suggerimenti nell'ambito del pensiero buddhista.
Cerchiamo, in sostanza, di dar loro la possibilità di vedere le
problematiche da una diversa angolazione, che magari finora non
avevano mai considerato, quella della possibile trasformazione
interiore indicata dal Buddha»
Come sono
i rapporti vostri con i familiari di chi sta in carcere?
«Non
abbiamo rapporti con i familiari; in carcere nessun volontario può
avere contatti con familiari, avvocati, ecc. per ragioni di
coinvolgimento personale e pulizia del setting. Il nostro progetto si
rivolge solo ai detenuti e agli ex detenuti, ovvero alle persone che
hanno seguito il progetto durante la detenzione e che vogliono
proseguire anche una volta scontata la pena.
Penso che il
beneficio che portiamo ai detenuti influenzi positivamente anche le
loro famiglie. Spesso i detenuti ci parlano del miglioramento del
rapporto con i loro familiari, del risanamento dei conflitti,
dell’aiuto tramite la preghiera e la meditazione che si sentono di
poter ora donare ai loro cari. Se sboccia un fiore, è primavera in
tutto il mondo».
Estratti
da lettere di detenuti che seguono il progetto buddhista
«
(…) Tutte le sere, dopo aver fatto la mia meditazione, chiedo a
Buddha di poter essere il suo canalizzatore di amore e di poter
aiutare il prossimo. (…)»
«
(…) So che tutto è impermanente e che il cambiamento, nonostante
porti sofferenza, è necessario per imparare a non sbagliare più.
(…)»
«
(…) Mi rendo conto che il mondo soffre e in me si accresce la
voglia di fare qualcosa di buono per esso; ultimamente sto meditando
sul fatto di ‘scambiare se stessi con gli altri’, l’insegnamento
che dette Buddha a Manjushri. (…)»
«
(…) E’ con grande gioia che sto vivendo questa mia ripresa,
giorno per giorno l’energia vitale si sta rigenerando e la rabbia
residua svanisce. Le sue impronte devono essere purificate, ma la
collera, quella cattiva ed impulsiva, si sta piano piano esaurendo.
Leggo sempre i testi sul Buddhismo, ogni giorno, e cerco di praticare
gli insegnamenti ed i consigli nel quotidiano. Cerco di praticare
l’equanimità nei confronti degli altri detenuti e delle guardie.
Questo mi aiuta tanto ad essere più sereno ed a vivere meglio con
gli altri. Sto cominciando a non lamentarmi più e a non fare
polemiche, vivo con più integrità, senza troppi conflitti. Mi sto
rendendo conto delle sterili proteste e di quell’attaccamento alle
proprie idee, che sembravano monoliti di granito. (…) »
«
(…) Ho constatato di persona cosa sia la legge del karma: ho capito
che bisogna piantare semi buoni per raccogliere frutti buoni. (…) »
«
(…)Mi fa male la rabbia, è la mia vera afflizione mentale. Però,
anche nei momenti più brutti, mi faccio forza e non abbandono il
Dharma. E’ proprio in quei momenti, quando i dubbi sorgono, che ora
la forza fuoriesce. Sono felice di questa vittoria sull’illusione,
anche della droga! Spero che la mia vita sia cambiata, perché
imparare è cambiare, e sto imparando ad ogni istante. (…)»
«
(…) Sono felice di sapere che l’esistenza non è fine a se
stessa, non è vuota di significato. (…) »
«
(…) La via del Buddha è il sentiero che conduce alla liberazione.
Per la prima volta nella mia vita, incomincio ad avere fede in
qualcosa, ed è come una pianticella che cresce. (…) »
«
(…) Studiando il Dharma, riesco a capire certi meccanismi in
maniera chiara e limpida. Anche la rabbia non sorge più tanto
spesso, come era solita sorgere, e quando sorge è un attimo solo,
riesco ad osservarla senza intervenire e reagire, come ero solito
fare. Non è sopprimere le vecchie reazioni e farmi venire il mal di
stomaco, semplicemente non mi ci aggrappo più, come facevo prima.
Anch’io ero preda degli stati d’animo, passavo da momenti di
massima esaltazione a momenti di delusione e tristezza. L’equilibrio
è tra gli opposti estremi, come dice Buddha Shakyamuni. Osservo
tutto ciò di me, ne sono diventato cosciente, prima non me ne
accorgevo, stavo bene o stavo male. (…) »
«
(…) Vorrei ringraziare tutti quanti per quello che fate per noi
detenuti e per il mondo intero. Il messaggio del Buddha, attraverso i
suoi discepoli di ieri e di oggi, giunge a tutti ed a noi in carcere
ha fatto veramente breccia nel cuore. Ora sento profondamente che il
Dharma fa parte della mia vita. Sono felice di aver incontrato il
Buddha ed i suoi seguaci. … »
«
(…) Non mangio la carne perché penso che quell’animale che è
stato ucciso poteva essere, nelle vite passate, anche mia madre, mio
padre, mio fratello, ecc. Quindi, se penso a questo, genero
compassione e mi rendo conto che, se altri come me lo facessero, ci
sarebbero meno uccisioni e meno commercio di carne. (…) »
«
(…) Voglio diventare un buon buddhista, perché voglio diventare un
buon riferimento per gli altri. La mia più grande felicità sarebbe
quella di vedere dei futuri Maestri che insegnino il Dharma come tu
lo insegni a me e come io trovo conforto nelle tue parole, anche gli
altri lo possano trovare nelle mie. (…) »
«
(…) Ho anche smesso di fumare e qui smettere penso che sia molto
più difficile che farlo fuori da queste mura. Però mi sono detto:
“Un buon buddhista non fuma!”. Voglio fare da esempio. Solo
pensando che un giorno anch’io potrò collaborare ad aiutare le
persone che hanno avuto i miei stessi problemi o problemi simili, mi
rende felice e pieno di gioia. Penso che non ci sia cosa migliore che
veder stare bene chi un giorno ti ha chiesto aiuto. (…) »
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