sabato 29 dicembre 2012



>> Il mondo cattolico entra in carcere<<
(8^ puntata)




Sono numerose le realtà cattoliche presenti nelle strutture carcerarie in Italia. A partire dal cappellano cattolico e via via in carcere si alternano al presenza di associazioni di volontariato cattoliche quali ad esempio la Caritas, la San Vincenzo De Paoli ecc…
Qui di seguito descriviamo il lavoro svolto dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, “associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio – Ente ecclesiastico civilmente riconosciuto con D.P.R. 596/72” come si legge nella carta intestata della stessa Comunità, fondata da don Oreste Benzi, ora defunto.



Seguono anche alcune travagliate testimonianze di persone detenute che ne fanno parte.
Tale associazione nel 2005 ha aperto la casa Madre del Perdono che da anni «accoglie detenuti comuni non tossicodipendenti, sviluppando un progetto educativo con l’obiettivo di rimuovere le cause che rendono la persona propensa ad atteggiamenti, sentimenti e atti criminosi.
Dal 2005 ad oggi sono state accolte oltre 150 persone alle quali in varie forme e gradi sono state offerte occasioni di cambiamento di vita che passano soprattutto attraverso un cambio di mentalità. I problemi di maggiore entità sono costituiti da episodi di fuga avvenuti da persone prive di permesso di soggiorno. La nuova sede è stata inaugurata l’11 luglio del 2008» (1).
Chi chiede di entrare in questa struttura lo fa perché vuole cambiare vita e prendere coscienza del grave reato commesso: esso viene aiutato ed «accompagnato dalla speranza di poter ricominciare una vita diversa, accettando di dover fare una cammino di riconciliazione con se stessi e con la società intera. (…) Il percorso educativo elaborato dal servizio carcere dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII si differenzia da quello delle comunità terapeutiche per le tossicodipendenze pur avendo molti aspetti in comune. L’elemento forza del percorso è dato dalla gratuità delle persone che vi operano, siano esse operatori interni ma ancor più, grazie alla presenza di volontari esterni che donano gratuitamente il loro tempo, con amore» (2).
All’interno di questa comunità c’è anche un momento di formazione religiosa dal punto di vista cattolico: «Momenti di conoscenza sui fondamenti della religione Cattolica e attraverso essi capire cosa Dio dice (non rubare, non uccidere,amare ecc.);a tal riguardo si svolgono serate di catechismo dialogato, di testimonianze di fede vissuta (missionari, consacrati, sposi, handicappati, ex-carcerati,prostitute ecc.). Se nella formazione si cerca di comprendere cosa Dio dice, nei momenti di culto e di preghiera si chiede a Dio la forza e la grazia per vivere ciò che Lui vuole. Tali momenti quotidiani e settimanali sono strutturati.
La formazione umana e quella religiosa ovviamente si amalgama in un unico percorso educativo che necessita un’adesione alta e motivata, pur rispettando a discrezione dei responsabili tempi e modi»(3).


«Nell’11 luglio 2008 all’inaugurazione della nuova sede – racconta Giorgio Pieri, responsabile del Servizio carcere - Emilia Romagna della Comunità - il Vescovo Francesco auspicò che la casa divenisse “L’Università del perdono”. Come spesso avviene nelle cose di Dio il progetto si sta svelando piano piano nella propria identità e strada facendo riconosce che quelle parole del vescovo Francesco esprimevano una profezia.
Diceva don Oreste: ”l’uomo non è il suo errore” e quando non si è accecati dalla paura e dal giudizio, si scopre che in quell’uomo che sbaglia c’è Gesù: ”ero in carcere e siete venuti a visitarmi”.
Sempre più la casa dovrà specializzarsi nell’approfondire la “pedagogia del perdono” per tracciare poi sentieri di riconciliazione. Questa esperienza può rivelarsi feconda specie se condivisa con il territorio»(4).
Lo stesso Pieri aggiunge: «“Stiamo tracciando il sentiero della riconciliazione”, con questo pensiero di fondo ho camminato insieme ai partecipanti del primo pellegrinaggio “Fuori le sbarre”. La marcia è iniziata il 27 marzo 2010 alle ore 07.00. Eravamo una quarantina. In questa occasione si è tentato di unire simbolicamente chi sta dentro con chi sta fuori. All’interno del carcere con la stessa traccia di preghiera i detenuti, con l’aiuto del cappellano, del gruppo di volontari del rinnovamento dello spirito e di una suora, hanno pregato nei nostri stessi orari. Particolarmente significativa è stata l’adesione alla preghiera delle suore carmelitane di Sogliano (RN), “recluse per amore” che hanno aderito all’iniziativa».
Ed ecco le testimonianze raccolte durante il pellegrinaggio “fuori dalle sbarre” raccolte dallo stesso responsabile del Servizio carcere, Giorgio Pieri:
« (…) Mario è il primo detenuto accolto della “Casa Madre del Perdono” che con orgoglio ha letto una poesia che ricorda il suo malessere vissuto nei venticinque anni di carcerazione, ma anche la scoperta di un mondo nuovo grazie all’incontro con i disabili avvenuta nella Comunità Papa Giovanni XXIII che l’ha accolto. In questa occasione, Franco, Domenico, Giovanni raccontano la loro esperienza di” recuperandi”.




Ricordo un esercizio d’ascolto a cui partecipai parlando, mentre gli altri in silenzio mi ascoltavano: in una lunga ora per la prima volta raccontai i miei problemi, le mie paure e, per la prima volta mi sentii libero di piangere, libero nell’anima… non mi sentivo giudicato.
Dopo solo due mesi di semilibertà, con l’aiuto della casa, sono riuscito a parlare con mia moglie nel profondo comunicandogli cose che non ero riuscito nei venti anni di detenzione e nei cinque anni di permesso premio.
Da quel giorno vivo la comunità con il cuore aperto e sincero e anche la preghiera mi ha aiutato:era molto che avevo abbandonato il rapporto col Signore, ma qua mi sono ricreduto e lo sto vivendo con molto sentimento. Proprio praticando la fede, per la prima volta ho preso coscienza di quello che ho fatto: ho tolto la vita ad un altro essere umano, questo non me lo potrò mai perdonare. Per la prima volta dopo venti anni, ho pregato per l’anima della persona che ho ucciso, vittima della mia cattiveria.
Da quando ho cominciato a rivedere tutto su ciò che ho fatto, mi sento un peso sullo stomaco che fa male, un male che non si può spiegare con delle parole.
E’ come se dentro di me si fosse creato un vuoto che non si può riempire con niente e nessuno e chiedo perdono a Dio tutti i giorni ma penso di non meritarlo: come può un peccatore come me avere tanto? Continuerò nella mia preghiera a chiederlo sempre, con il cuore e con l’anima”. A queste parole è seguito un profondo silenzio misto gioia».



«La pastorale carceraria tende a coinvolgere la comunità cristiana in un percorso di attenzione verso la realtà del carcere per sentirla come parte integrante del cammino della Chiesa diocesana, nello stesso tempo tende a far sentire il detenuto inserito pienamente nella famiglia della chiesa locale attraverso iniziative e cammini di fede che devono incarnare nella situazione la pastorale della diocesi.
Il carcere non è un isola, anzi, rappresenta quella realtà di chiesa che soffre a causa del male, del peccato, e lì dove un membro soffre tutto il corpo soffre.
Il cristiano e le nostre comunità sono chiamate a guardare a questa realtà con occhi diversi da chi giudica con il metro della giustizia umana (spesso vendicativa e farisaica), ma con occhi di misericordia, ciò non significa assolutamente addolcire il male o cercare di giustificarlo, ma andare alle radici, per scoprire dove ha origine, dov’è la fonte della malattia di cui spesso il condannato ne rappresenta solo il sintomo».
Tutto ciò sopraccitato è quanto si legge in un opuscoletto che presenta il Centro diocesano di Pastorale Carceraria di Napoli.
Tra le persone preposte a guidare questo ufficio della Diocesi di Napoli c’è suor Maria Lidia Schettino che si auto-presenta così:
«Oggi l’argomento “carcere” trova nell’informazione più spazio che in passato; non può passare nell’anonimato, specialmente per il mondo cristiano-cattolico, per la Chiesa che vuole impegnarsi in prima persona per risolvere il problema carcerario, secondo l’ottica del Vangelo.



Dal 1979 opero come assistente volontaria in questa realtà umana tanto particolare: ascolto le storie più varie, mi sono confidate ed affidate situazioni di sofferenza che mai avrei immaginato potessero albergare in cuore umano, ho potuto tante volte partecipare alla ricerca interiore della verità da parte di chi, nella vita quotidiana, mal gestendo la propria libertà, non aveva mai supposto di essere portatore di valori umani e divini. Nel carcere, strano ma vero, sento la presenza reale, concreta, sensibile di Gesù ed in tante circostanze ho compreso, accanto ai detenuti, cosa significhi pazientare nel soffrire, cosa sia alimentare la speranza del trionfo dell’amore, come si possa condividere il poco che si ha con chi non ha nulla. Attraverso le loro esperienze ho conosciuto il “baratro del fango” e l’“altezza della libertà” e mi sono sentita proiettata in una dimensione di vita sconvolgente.
La mia presenza tra i detenuti è una presenza sofferta: il non poter rispondere a certe situazioni drammatiche, il constatare alcune ingiustizie evidenti, il notare, talvolta, una logica sbagliata, il non riuscire a trovare la strada per far capire gli errori, danno alla mia vita religiosa la dimensione della Croce.
Porto con me, ogni giorno, tutto il loro dolore; sento il mio stesso corpo appesantito dal peso dei drammi e della povertà di questi miei fratelli che assumo nella preghiera e la cui amicizia traduco in lode.
Da molti anni mi è stato affidato il Padiglione “Roma” dei giovani tossicodipendenti (ogni padiglione porta il nome di una città). La maggior parte di loro non ha vissuto l’infanzia; per molti la vita di fatiche e disagi ha avuto inizio intorno agli otto – nove anni; il ricordo della tenerezza materna, per altri, è solo nostalgia. Entro spesso nel loro ambiente di provenienza: sono famiglie molto povere economicamente e culturalmente. Mi accorgo come donna e come religiosa che il mio affetto sincero nei loro riguardi, le mie attenzioni per le loro necessità li inteneriscono; riscoprono la vita, vogliono parlarne, esprimono i loro desideri, le loro attese ma sempre nel timore di restare ancora soli, di essere ulteriormente delusi.
L’uomo in situazione di detenzione, nella maggior parte dei casi, è in situazione d’invocazione; anche inconsapevolmente il suo animo invoca il Regno di Dio, l’avvento dell’Amore, della giustizia e della pace, che identifica con una vita familiare serena. Ho scoperto che quelli che rifiutano Dio, non sono sempre gli orgogliosi e i superbi, ma spesso uomini sinceri che negano tale esistenza per sete e fame di giustizia: il più delle volte è la consapevolezza di essere vittima dell’ingiustizia e della solitudine a spingere i poveri e i miseri alla violenza o all’autodistruzione, attraverso il suicidio e la droga.
Il mio compito, accanto a questi fratelli che hanno soffocato, talvolta, con i reati più vari, la loro nostalgia di bene e di vero, è di offrire una mano tesa e un’amicizia vera; quelli che chiedono di parlarmi, anche se hanno ormai lucidamente macerato nella propria coscienza tutto l’abisso del male, mi possono avvicinare. Essi sanno…che vado per offrire loro la mia fede, la mia certezza che la Parola di Dio fa nuove tutte le cose, che anche dall’esperienza del peccato e della morte può nascere l’uomo nuovo, perché “ogni delitto commesso dall’uomo è punto di partenza dell’azione riabilitante di Dio” (Card. Martini).

Sono convinta che l’Avvento del Regno ha bisogno della passione degli amici di Gesù, e i fratelli detenuti, inconsapevolmente, aumentano questa mia passione, mi fanno dono della loro sofferenza che alimenta la fiamma della mia preghiera e garantisce la “vita” della mia adorazione.
Ogni giorno, durante la celebrazione eucaristica, c’è un momento culmine per me: nella Consacrazione, quando il sacerdote innalza il calice, il mio cuore grida: “Tutto…e Tutti!”. E’ un’offerta, è una supplica, è il desiderio che quel sangue porti a compimento – oggi – la salvezza per ogni uomo ed in particolare per i fratelli che incontro là, dove il bisogno di salvezza è più urgente: il carcere. Mi sembra che in quel momento, nel calice, siamo tutti uniti: in Cristo siamo ricondotti al Padre.
E già si compie la preghiera: Venga il tuo Regno»(5).
Suor Maria Lidia, 74 anni, in origine era una professoressa che ha lasciato la scuola superiore per consacrasi, nel 1965, nella congregazione delle “suore d’Ivrea”. Entra in carcere per sostituire una suora già preposta a quel luogo. E ci rimane, cambiandone tre: prima Pozzuoli, poi Secondigliano ed infine quello di Poggioreale. A tutt’oggi ogni giorno deve affrontare le difficoltà quotidiane dovute anche alle proporzioni del carcere dove presta la sua opera di conforto ai detenuti vale a dire la struttura di Poggioreale: per gli oltre duemila detenuti ci sono già quattro cappellani che fanno con difficoltà il loro lavoro.
«Un ergastolano mi ha detto: “dovete farla ogni otto giorni la Messa, perché quando entro nella cella e sto solo per tante ore rielaboro tutte le cose che ho sentito e non sapete che colloquio ho con Gesù Cristo!” C’è da credergli»(6).


Suor Maria Lidia ha anche curato un libro, oramai fuori catalogo ed introvabile, dal titolo “Nostalgia d’innocenza” (Edizioni Dehoniane di Bologna) dove sono raccolte le centinaia di lettere che la suora ha ricevuto negli anni di attività carceraria: «coloro che avranno la bontà e la pazienza di leggere queste lettere come se fossero scritti di un proprio “caro” vivranno l’ebbrezza di un percorso che, dai meandri di un’esistenza confusa, conduce verso una luminosa e solare scoperta: la fiducia nella vita, la fede ritrovata, la rinnovata capacità di essere onesti. Il goderne diviene forza ed entusiasmo anche per noi che, fuori dalla realtà carcere, crediamo di possedere il monopolio di ogni valore umano»(7). Le pagine scritte da suor Maria Lidia sono «intrise di desideri e speranze, dolore e amore, sogni e realtà, che rivelano come nulla possa cancellare la dignità dell’essere umano e la creatività del suo cuore. In ambiente così negativo e ostile quale il carcere oggi, è possibile riscoprire sentimenti come la sincera ricerca del vero senso della vita, della famiglia, l’amicizia, il bisogno di Dio, di donarsi agli altri.
Le lettere inviate a suor Lidia da quel luogo di fango e bellezza si offrono anche quale stimolo e provocazione rivolti all’azione pastorale della Chiesa, esplicitamente chiamata dal suo Signore ad “annunciare ai prigionieri la liberazione”»(8).
Nel libro le lettere sono state divise per settori, tra cui quello denominato “Introspezione: i bisogni immateriali” e quello denominato “Spiritualità: l’esperienza religiosa”. Da questi due capitoletti ne abbiamo estratti alcuni brani che proponiamo qui di seguito.
«Il mio sogno è di ritornare ad essere una persona normale… come ce ne sono tante… Ma anche se fallirò, il mio sogno e la mia speranza è e rimane solo questo» scrive Gerardo (9). E noi non sappiamo poi se poi Gerardo è ritornato ad essere una persona normale come era nei suoi sogni di detenuto.
Ma c’è anche Andrea che scrive a suor Lidia dicendole « (…) Vorrei partire dall’esperienza personale, perché la vita è una serie di scelte e decisioni personali e la responsabilità individuale non può essere delegata ad altri, come non è possibile che altri debbano ricercare la soluzione dei nostri problemi. Ogni uomo può scegliere il male o il bene, che sono dentro ognuno di noi. Evidentemente, quanto più chiaramente osserviamo la realtà, tanto più saremo capaci di affrontare le difficoltà e le insidie della vita. (…)»(10).
E Mimmo scrive sempre a suor Lidia queste parole: « (…) Il Dio nel quale io credo è un Dio interiore, che è in me e che può palesarsi solo nel mio animo, se la mia condotta è degna. Il Dio dei cieli come ricompensa, a mio parere, non è altro che un anticipo di serenità vissuta in un animo puro. Io vedo il Dio terreno nell’uomo degno, intelligente, buono, sincero, che, in mancanza di una prova più certa, è ben degno di rappresentare il vero Dio. Forse ho fatto un po’ di confusione, ma la prego di considerare il mio stato d’animo. (…)»(11).
E lo stesso Mimmo in un'altra lettera inviata sempre a suor Lidia sul fatto che discutere su Dio sarebbe bello scrive: «(…) Fermarsi a discutere su Dio sarebbe bello, ma comporterebbe il danno di trovarsi troppo indietro. Sono delle scuse e mi vergogno di formulare questi pensieri, ma che cosa devo fare? Tu sai che nessuno più di me avrebbe il diritto di credere in Dio. A me hanno insegnato che bisogna rispettare chi ci aiuta materialmente, chi ci può aiutare in maniera tangibile. Adesso che sono più cosciente, vorrei abbandonarmi meno a questa teoria del baratto. Però la situazione e la mia pena non lasciano spazio al misticismo e la mia stessa cultura non è che fredda ed esteriore. A chi non piacerebbe cullarsi nella speranza di un Dio giusto e buono? Ammetterai che ci vuole molto coraggio a credere in una pace futura, mentre si soffre nel presente. Allora, ormai non è un mistero, pensa di me, che sono un uomo di scarso coraggio, ma non privo di fede. Ricordi san Pietro? Nemmeno lui credeva di poter camminare sull’acqua. Dunque, se dubitava un uomo così buono, posso essere perdonato io, omino fino a ieri cattivo e incivile? (…)»(12).
Scrive Riccardo il suo ringraziamento alla suora dei miracoli, ovvero sempre suor Lidia, dicendo: «(…) Grazie per avermi fatto da Mosé, continuerò il cammino che ho intrapreso, grazie alla piccola suora dei miracoli. Voi siete una persona veramente speciale e sono orgogliosa di avervi conosciuto. Ringrazio la polizia che mi ha arrestato, il giudice che mi ha giudicato, sono sicuro che hanno fatto parte del disegno di Dio, per darmi in questo modo la possibilità di capire quanto era vuota la mia vita, quanto facevo soffrire i miei figli, mia moglie, chi mi vuol bene. Ringrazio costoro poiché nel carcere ho conosciuto suor Lidia e, tramite voi, il bisogno di cercare e di trovare Dio: adesso sono sereno, so che dentro di me è scattato un interruttore che non si staccherà più. (…)»(13)..
Scrive invece Vincenzo: «Io non so chi sono, mi dico maledetto e mi professo ateo. Non per questo ho rifiutato i tanti amici che la Chiesa mi ha regalato…
Ultima in ordine di tempo, la dinamica suor Lidia, persona vera come poche, che ho incontrato durante il viaggio sul treno della vita. “Cristo reclinò il capo con l’ultimo sguardo rivolto al mondo, dall’alto di una croce”»(14).
Scrive Adriano: « (…) Non ho mai dubitato che Dio fosse vicino a me anche se non prego più, la sua presenza è costante al mio fianco, lo vedo tutti i giorni, vedo la magnificenza del Creato. Ho fede che il mio domani sarà più radioso del presente (…)»(15).


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1 Opuscolo della Comunità
2 Ibidem
3 Ibidem
4 Dalla lettera che Giorgio Pieri ha scritto ai parroci.
6 “Volontariato: Poggioreale, cercando Dio tra le mura del carcere” in Avvenire del 20 luglio 2005
7  Dall’Introduzione del libro di suor Maria Lidia Schettino “Nostalgia d’innocenza” , edizioni Dehoniane Bologna 2005
8 Dalla scheda di presentazione dell’Ufficio Stampa delle edizioni Dehoniane di Bologna
9 A cura di suor Maria Lidia Schettino “Nostalgia d’innocenza” edizioni Dehoniane Bologna 2005
10 Ibidem p. 246
11 Ibidem p. 248-249
12 Ibidem p. 258
13 Ibidem p. 265-266
14 Ibidem p. 279-280
15 Ibidem p 304

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