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Il mondo cattolico entra in carcere<<
Sono
numerose le realtà cattoliche presenti nelle strutture carcerarie in
Italia. A partire dal cappellano cattolico e via via in carcere si alternano al
presenza di associazioni di volontariato cattoliche quali ad esempio
la Caritas, la San Vincenzo De Paoli ecc…
Qui di
seguito descriviamo il lavoro svolto dall’Associazione
Comunità Papa Giovanni XXIII, “associazione
internazionale di fedeli di diritto pontificio – Ente ecclesiastico
civilmente riconosciuto con D.P.R. 596/72” come si legge nella
carta intestata della stessa Comunità, fondata da don Oreste Benzi,
ora defunto.
Seguono anche alcune travagliate testimonianze di persone detenute che ne fanno parte.
Seguono anche alcune travagliate testimonianze di persone detenute che ne fanno parte.
Tale
associazione nel 2005 ha aperto la casa Madre
del Perdono che da anni «accoglie detenuti
comuni non tossicodipendenti, sviluppando un progetto educativo con
l’obiettivo di rimuovere le cause che rendono la persona propensa
ad atteggiamenti, sentimenti e atti criminosi.
Dal 2005 ad
oggi sono state accolte oltre 150 persone alle quali in varie forme e
gradi sono state offerte occasioni di cambiamento di vita che passano
soprattutto attraverso un cambio di mentalità. I problemi di
maggiore entità sono costituiti da episodi di fuga avvenuti da
persone prive di permesso di soggiorno. La nuova sede è stata
inaugurata l’11 luglio del 2008» (1).
Chi chiede
di entrare in questa struttura lo fa perché vuole cambiare vita e
prendere coscienza del grave reato commesso: esso viene aiutato ed
«accompagnato dalla speranza di poter ricominciare una vita diversa,
accettando di dover fare una cammino di riconciliazione con se stessi
e con la società intera. (…) Il percorso educativo elaborato dal
servizio carcere dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII si
differenzia da quello delle comunità terapeutiche per le
tossicodipendenze pur avendo molti aspetti in comune. L’elemento
forza del percorso è dato dalla gratuità
delle persone che vi operano, siano esse
operatori interni ma ancor più, grazie alla presenza di volontari
esterni che donano gratuitamente il loro tempo, con amore» (2).
All’interno
di questa comunità c’è anche un momento di formazione religiosa
dal punto di vista cattolico: «Momenti di conoscenza sui fondamenti
della religione Cattolica e attraverso essi capire cosa Dio dice (non
rubare, non uccidere,amare ecc.);a tal riguardo si svolgono serate di
catechismo dialogato,
di testimonianze di
fede vissuta (missionari, consacrati, sposi, handicappati,
ex-carcerati,prostitute ecc.). Se nella formazione si cerca di
comprendere cosa Dio dice, nei momenti di culto
e di preghiera si chiede
a Dio la forza e la grazia per vivere ciò
che Lui vuole. Tali momenti quotidiani e settimanali sono
strutturati.
La
formazione umana e quella religiosa ovviamente si amalgama in un
unico percorso educativo che necessita un’adesione alta e motivata,
pur rispettando a discrezione dei responsabili tempi e modi»(3).
«Nell’11 luglio 2008 all’inaugurazione della nuova sede – racconta Giorgio Pieri, responsabile del Servizio carcere - Emilia Romagna della Comunità - il Vescovo Francesco auspicò che la casa divenisse “L’Università del perdono”. Come spesso avviene nelle cose di Dio il progetto si sta svelando piano piano nella propria identità e strada facendo riconosce che quelle parole del vescovo Francesco esprimevano una profezia.
«Nell’11 luglio 2008 all’inaugurazione della nuova sede – racconta Giorgio Pieri, responsabile del Servizio carcere - Emilia Romagna della Comunità - il Vescovo Francesco auspicò che la casa divenisse “L’Università del perdono”. Come spesso avviene nelle cose di Dio il progetto si sta svelando piano piano nella propria identità e strada facendo riconosce che quelle parole del vescovo Francesco esprimevano una profezia.
Diceva don
Oreste: ”l’uomo non è il suo errore” e quando non si è
accecati dalla paura e dal giudizio, si scopre che in quell’uomo
che sbaglia c’è Gesù: ”ero in carcere e siete venuti a
visitarmi”.
Sempre più
la casa dovrà specializzarsi nell’approfondire la “pedagogia del
perdono” per tracciare poi sentieri di riconciliazione. Questa
esperienza può rivelarsi feconda specie se condivisa con il
territorio»(4).
Lo stesso
Pieri aggiunge: «“Stiamo tracciando il sentiero della
riconciliazione”, con questo pensiero di fondo ho camminato insieme
ai partecipanti del primo pellegrinaggio “Fuori le sbarre”. La
marcia è iniziata il 27 marzo 2010 alle ore 07.00. Eravamo una
quarantina. In questa occasione si è tentato di unire simbolicamente
chi sta dentro con chi sta fuori. All’interno del carcere con la
stessa traccia di preghiera i detenuti, con l’aiuto del cappellano,
del gruppo di volontari del rinnovamento dello spirito e di una
suora, hanno pregato nei nostri stessi orari. Particolarmente
significativa è stata l’adesione alla preghiera delle suore
carmelitane di Sogliano (RN), “recluse per amore” che hanno
aderito all’iniziativa».
Ed ecco le testimonianze raccolte durante il
pellegrinaggio “fuori dalle sbarre” raccolte dallo stesso
responsabile del Servizio carcere, Giorgio Pieri:
« (…)
Mario è il primo detenuto accolto della “Casa Madre del Perdono”
che con orgoglio ha letto una poesia che ricorda il suo malessere
vissuto nei venticinque anni di carcerazione, ma anche la scoperta di
un mondo nuovo grazie all’incontro con i disabili avvenuta nella
Comunità Papa Giovanni XXIII che l’ha accolto. In questa
occasione, Franco, Domenico, Giovanni raccontano la loro esperienza
di” recuperandi”.
Domenico
esordisce dicendo:”non ho mai camminato così tanto nella mia vita
e avendo alle spalle venti anni di carcere sono un po’ fuori
allenamento. Prima del resto correvo solo per scappare dai
carabinieri che mi volevano prendere”. Il suo racconto è stato
significativo e ne riporto testuali parole scritte: ”Inizialmente
il programma in comunità l’ho presi male, avrei voluto lavorare
per contribuire alle spese in famiglia rendendomi a loro utile; così
passai i primi tempi, e da li a poco mi resi conto che attorno a me
c’erano altri ragazzi che avevano alle spalle tante sofferenze,
nonostante la loro giovane età.Un giorno
parlando con uno di loro che vive nella casa da più di un anno,
capii tante cose che non avevo afferrato fino all’ora, perché
pensavo solo alla mie sofferenze, capendo l’importanza del
confronto, del condividere.
Ricordo un
esercizio d’ascolto a cui partecipai parlando, mentre gli altri in
silenzio mi ascoltavano: in una lunga ora per la prima volta
raccontai i miei problemi, le mie paure e, per la prima volta mi
sentii libero di piangere, libero nell’anima… non mi sentivo
giudicato.
Dopo solo
due mesi di semilibertà, con l’aiuto della casa, sono riuscito a
parlare con mia moglie nel profondo comunicandogli cose che non ero
riuscito nei venti anni di detenzione e nei cinque anni di permesso
premio.
Da quel
giorno vivo la comunità con il cuore aperto e sincero e anche la
preghiera mi ha aiutato:era molto che avevo abbandonato il rapporto
col Signore, ma qua mi sono ricreduto e lo sto vivendo con molto
sentimento. Proprio praticando la fede, per la prima volta ho preso
coscienza di quello che ho fatto: ho tolto la vita ad un altro essere
umano, questo non me lo potrò mai perdonare. Per la prima volta dopo
venti anni, ho pregato per l’anima della persona che ho ucciso,
vittima della mia cattiveria.
Da quando ho
cominciato a rivedere tutto su ciò che ho fatto, mi sento un peso
sullo stomaco che fa male, un male che non si può spiegare con delle
parole.
E’ come se
dentro di me si fosse creato un vuoto che non si può riempire con
niente e nessuno e chiedo perdono a Dio tutti i giorni ma penso di
non meritarlo: come può un peccatore come me avere tanto? Continuerò
nella mia preghiera a chiederlo sempre, con il cuore e con l’anima”.
A queste parole è seguito un profondo silenzio misto gioia».
«La
pastorale carceraria tende a coinvolgere la comunità cristiana in
un percorso di attenzione verso la realtà del carcere per sentirla
come parte integrante del cammino della Chiesa diocesana, nello
stesso tempo tende a far sentire il detenuto inserito pienamente
nella famiglia della chiesa locale attraverso iniziative e cammini di
fede che devono incarnare nella situazione la pastorale della
diocesi.
Il carcere
non è un isola, anzi, rappresenta quella realtà di chiesa che
soffre a causa del male, del peccato, e lì dove un membro soffre
tutto il corpo soffre.
Il cristiano
e le nostre comunità sono chiamate a guardare a questa realtà con
occhi diversi da chi giudica con il metro della giustizia umana
(spesso vendicativa e farisaica), ma con occhi di misericordia, ciò
non significa assolutamente addolcire il male o cercare di
giustificarlo, ma andare alle radici, per scoprire dove ha origine,
dov’è la fonte della malattia di cui spesso il condannato ne
rappresenta solo il sintomo».
Tutto ciò
sopraccitato è quanto si legge in un opuscoletto che presenta il
Centro diocesano di Pastorale Carceraria di
Napoli.
Tra le
persone preposte a guidare questo ufficio della Diocesi di Napoli c’è
suor Maria Lidia Schettino che si auto-presenta così:
«Oggi
l’argomento “carcere” trova nell’informazione più spazio che
in passato; non può passare nell’anonimato, specialmente per il
mondo cristiano-cattolico, per la Chiesa che vuole impegnarsi in
prima persona per risolvere il problema carcerario, secondo l’ottica
del Vangelo.
Dal
1979 opero come assistente volontaria in questa realtà umana tanto
particolare: ascolto le storie più varie, mi sono confidate ed
affidate situazioni di sofferenza che mai avrei immaginato potessero
albergare in cuore umano, ho potuto tante volte partecipare alla
ricerca interiore della verità da parte di chi, nella vita
quotidiana, mal gestendo la propria libertà, non aveva mai supposto
di essere portatore di valori umani e divini. Nel carcere, strano ma
vero, sento la presenza reale, concreta, sensibile di Gesù ed in
tante circostanze ho compreso, accanto ai detenuti, cosa significhi
pazientare nel soffrire, cosa sia alimentare la speranza del trionfo
dell’amore, come si possa condividere il poco che si ha con chi non
ha nulla. Attraverso le loro esperienze ho conosciuto il “baratro
del fango” e l’“altezza della libertà” e mi sono sentita
proiettata in una dimensione di vita sconvolgente.
La
mia presenza tra i detenuti è una presenza sofferta: il non poter
rispondere a certe situazioni drammatiche, il constatare alcune
ingiustizie evidenti, il notare, talvolta, una logica sbagliata, il
non riuscire a trovare la strada per far capire gli errori, danno
alla mia vita religiosa la dimensione della Croce.
Porto
con me, ogni giorno, tutto il loro dolore; sento il mio stesso corpo
appesantito dal peso dei drammi e della povertà di questi miei
fratelli che assumo nella preghiera e la cui amicizia traduco in
lode.
Da
molti anni mi è stato affidato il Padiglione “Roma” dei giovani
tossicodipendenti (ogni padiglione porta il nome di una città). La
maggior parte di loro non ha vissuto l’infanzia; per molti la vita
di fatiche e disagi ha avuto inizio intorno agli otto – nove anni;
il ricordo della tenerezza materna, per altri, è solo nostalgia.
Entro spesso nel loro ambiente di provenienza: sono famiglie molto
povere economicamente e culturalmente. Mi accorgo come donna e come
religiosa che il mio affetto sincero nei loro riguardi, le mie
attenzioni per le loro necessità li inteneriscono; riscoprono la
vita, vogliono parlarne, esprimono i loro desideri, le loro attese ma
sempre nel timore di restare ancora soli, di essere ulteriormente
delusi.
L’uomo
in situazione di detenzione, nella maggior parte dei casi, è in
situazione d’invocazione; anche inconsapevolmente il suo animo
invoca il Regno di Dio, l’avvento dell’Amore, della giustizia e
della pace, che identifica con una vita familiare serena. Ho scoperto
che quelli che rifiutano Dio, non sono sempre gli orgogliosi e i
superbi, ma spesso uomini sinceri che negano tale esistenza per sete
e fame di giustizia: il più delle volte è la consapevolezza di
essere vittima dell’ingiustizia e della solitudine a spingere i
poveri e i miseri alla violenza o all’autodistruzione, attraverso
il suicidio e la droga.
Il
mio compito, accanto a questi fratelli che hanno soffocato, talvolta,
con i reati più vari, la loro nostalgia di bene e di vero, è di
offrire una mano tesa e un’amicizia vera; quelli che chiedono di
parlarmi, anche se hanno ormai lucidamente macerato nella propria
coscienza tutto l’abisso del male, mi possono avvicinare. Essi
sanno…che vado per offrire loro la mia fede, la mia certezza che la
Parola di Dio fa nuove tutte le cose, che anche dall’esperienza del
peccato e della morte può nascere l’uomo nuovo, perché “ogni
delitto commesso dall’uomo è punto di partenza dell’azione
riabilitante di Dio” (Card. Martini).
Sono convinta che l’Avvento del Regno ha bisogno della passione degli amici di Gesù, e i fratelli detenuti, inconsapevolmente, aumentano questa mia passione, mi fanno dono della loro sofferenza che alimenta la fiamma della mia preghiera e garantisce la “vita” della mia adorazione.
Ogni
giorno, durante la celebrazione eucaristica, c’è un momento
culmine per me: nella Consacrazione, quando il sacerdote innalza il
calice, il mio cuore grida: “Tutto…e Tutti!”. E’ un’offerta,
è una supplica, è il desiderio che quel sangue porti a compimento –
oggi – la salvezza per ogni uomo ed in particolare per i fratelli
che incontro là, dove il bisogno di salvezza è più urgente: il
carcere. Mi sembra che in quel momento, nel calice, siamo tutti
uniti: in Cristo siamo ricondotti al Padre.
E
già si compie la preghiera: Venga il tuo Regno»(5).
Suor
Maria Lidia, 74 anni, in origine era una professoressa che ha
lasciato la scuola superiore per consacrasi, nel 1965, nella
congregazione delle “suore d’Ivrea”. Entra in carcere per
sostituire una suora già preposta a quel luogo. E ci rimane,
cambiandone tre: prima Pozzuoli, poi Secondigliano ed infine quello
di Poggioreale. A tutt’oggi ogni giorno deve affrontare le
difficoltà quotidiane dovute anche alle proporzioni del carcere dove
presta la sua opera di conforto ai detenuti vale a dire la struttura
di Poggioreale: per gli oltre duemila detenuti ci sono già quattro
cappellani che fanno con difficoltà il loro lavoro.
«Un
ergastolano mi ha detto: “dovete farla ogni otto giorni la Messa,
perché quando entro nella cella e sto solo per tante ore rielaboro
tutte le cose che ho sentito e non sapete che colloquio ho con Gesù
Cristo!” C’è da credergli»(6).
Suor
Maria Lidia ha anche curato un libro, oramai fuori catalogo ed
introvabile, dal titolo “Nostalgia d’innocenza” (Edizioni
Dehoniane di Bologna) dove sono raccolte le centinaia di lettere che
la suora ha ricevuto negli anni di attività carceraria: «coloro che
avranno la bontà e la pazienza di leggere queste lettere come se
fossero scritti di un proprio “caro” vivranno l’ebbrezza di un
percorso che, dai meandri di un’esistenza confusa, conduce verso
una luminosa e solare scoperta: la fiducia nella vita, la fede
ritrovata, la rinnovata capacità di essere onesti. Il goderne
diviene forza ed entusiasmo anche per noi che, fuori dalla realtà
carcere, crediamo di possedere il monopolio di ogni valore umano»(7). Le pagine scritte da suor Maria Lidia sono «intrise di desideri e
speranze, dolore e amore, sogni e realtà, che rivelano come nulla
possa cancellare la dignità dell’essere umano e la creatività del
suo cuore. In ambiente così negativo e ostile quale il carcere oggi,
è possibile riscoprire sentimenti come la sincera ricerca del vero
senso della vita, della famiglia, l’amicizia, il bisogno di Dio, di
donarsi agli altri.
Le
lettere inviate a suor Lidia da quel luogo di fango e bellezza si
offrono anche quale stimolo e provocazione rivolti all’azione
pastorale della Chiesa, esplicitamente chiamata dal suo Signore ad
“annunciare ai prigionieri la liberazione”»(8).
Nel
libro le lettere sono state divise per settori, tra cui quello
denominato “Introspezione: i bisogni immateriali” e quello
denominato “Spiritualità: l’esperienza religiosa”. Da questi
due capitoletti ne abbiamo estratti alcuni brani che proponiamo qui
di seguito.
«Il
mio sogno è di ritornare ad essere una persona normale… come ce ne
sono tante… Ma anche se fallirò, il mio sogno e la mia speranza è
e rimane solo questo» scrive Gerardo (9).
E noi non sappiamo poi se poi Gerardo è ritornato ad essere una
persona normale come era nei suoi sogni di detenuto.
Ma
c’è anche Andrea che scrive a suor Lidia dicendole « (…) Vorrei
partire dall’esperienza personale, perché la vita è una serie di
scelte e decisioni personali e la responsabilità individuale non può
essere delegata ad altri, come non è possibile che altri debbano
ricercare la soluzione dei nostri problemi. Ogni uomo può scegliere
il male o il bene, che sono dentro ognuno di noi. Evidentemente,
quanto più chiaramente osserviamo la realtà, tanto più saremo
capaci di affrontare le difficoltà e le insidie della vita. (…)»(10).
E
Mimmo scrive sempre a suor Lidia queste parole: « (…) Il Dio nel
quale io credo è un Dio interiore, che è in me e che può palesarsi
solo nel mio animo, se la mia condotta è degna. Il Dio dei cieli
come ricompensa, a mio parere, non è altro che un anticipo di
serenità vissuta in un animo puro. Io vedo il Dio terreno nell’uomo
degno, intelligente, buono, sincero, che, in mancanza di una prova
più certa, è ben degno di rappresentare il vero Dio. Forse ho fatto
un po’ di confusione, ma la prego di considerare il mio stato
d’animo. (…)»(11).
E
lo stesso Mimmo in un'altra lettera inviata sempre a suor Lidia sul
fatto che discutere su Dio sarebbe bello scrive: «(…) Fermarsi a
discutere su Dio sarebbe bello, ma comporterebbe il danno di trovarsi
troppo indietro. Sono delle scuse e mi vergogno di formulare questi
pensieri, ma che cosa devo fare? Tu sai che nessuno più di me
avrebbe il diritto di credere in Dio. A me hanno insegnato che
bisogna rispettare chi ci aiuta materialmente, chi ci può aiutare in
maniera tangibile. Adesso che sono più cosciente, vorrei
abbandonarmi meno a questa teoria del baratto. Però la situazione e
la mia pena non lasciano spazio al misticismo e la mia stessa cultura
non è che fredda ed esteriore. A chi non piacerebbe cullarsi nella
speranza di un Dio giusto e buono? Ammetterai che ci vuole molto
coraggio a credere in una pace futura, mentre si soffre nel presente.
Allora, ormai non è un mistero, pensa di me, che sono un uomo di
scarso coraggio, ma non privo di fede. Ricordi san Pietro? Nemmeno
lui credeva di poter camminare sull’acqua. Dunque, se dubitava un
uomo così buono, posso essere perdonato io, omino fino a ieri
cattivo e incivile? (…)»(12).
Scrive
Riccardo il suo ringraziamento alla suora dei miracoli, ovvero sempre
suor Lidia, dicendo: «(…) Grazie per avermi fatto da Mosé,
continuerò il cammino che ho intrapreso, grazie alla piccola suora
dei miracoli. Voi siete una persona veramente speciale e sono
orgogliosa di avervi conosciuto. Ringrazio la polizia che mi ha
arrestato, il giudice che mi ha giudicato, sono sicuro che hanno
fatto parte del disegno di Dio, per darmi in questo modo la
possibilità di capire quanto era vuota la mia vita, quanto facevo
soffrire i miei figli, mia moglie, chi mi vuol bene. Ringrazio
costoro poiché nel carcere ho conosciuto suor Lidia e, tramite voi,
il bisogno di cercare e di trovare Dio: adesso sono sereno, so che
dentro di me è scattato un interruttore che non si staccherà più.
(…)»(13)..
Scrive
invece Vincenzo: «Io non so chi sono, mi dico maledetto e mi
professo ateo. Non per questo ho rifiutato i tanti amici che la
Chiesa mi ha regalato…
Ultima in
ordine di tempo, la dinamica suor Lidia, persona vera come poche, che
ho incontrato durante il viaggio sul treno della vita. “Cristo
reclinò il capo con l’ultimo sguardo rivolto al mondo, dall’alto
di una croce”»(14).
Scrive
Adriano: « (…) Non ho mai dubitato che Dio fosse vicino a me anche
se non prego più, la sua presenza è costante al mio fianco, lo vedo
tutti i giorni, vedo la magnificenza del Creato. Ho fede che il mio
domani sarà più radioso del presente (…)»(15).
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1 Opuscolo della Comunità
2 Ibidem
3 Ibidem
4 Dalla lettera che Giorgio Pieri ha scritto ai parroci.
6 “Volontariato: Poggioreale, cercando Dio tra le mura del carcere”
in Avvenire del 20 luglio 2005
7 Dall’Introduzione del libro di suor Maria Lidia Schettino
“Nostalgia d’innocenza” , edizioni Dehoniane Bologna 2005
8 Dalla scheda di presentazione dell’Ufficio Stampa delle edizioni
Dehoniane di Bologna
9 A cura di suor Maria Lidia Schettino “Nostalgia d’innocenza”
edizioni Dehoniane Bologna 2005
10 Ibidem p. 246
11 Ibidem p. 248-249
12 Ibidem p. 258
13 Ibidem p. 265-266
14 Ibidem p. 279-280
15 Ibidem p 304
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