domenica 23 dicembre 2012


>> L'islam entra in carcere <<
(7^ puntata)
>> Intervista a Mohammed Khalid Rhazzali <<

«”Una piccola moschea è regolarmente allestita presso la Casa circondariale di Prato, una sala di cultura islamica esiste a Ferrara ed un’apposita saletta per la preghiera è prevista a San Gimignano” informa il ministero della Giustizia. Valvole di sfogo spirituale di questo genere sono utili in tutte le carceri. E forse sarebbe meglio avere, al fianco dei 250 cappellani cristiani, degli imam ufficiali, preparati e moderati» (1).
Tutto ciò riportato tra virgolette qui sopra sarebbe necessario perché in effetti, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 gennaio 2009 i detenuti musulmani presenti nelle carceri italiane erano 9 mila 006 contro gli 8 mila 382 degli appartenenti ad altra religione e sul totale di 21 mila 891 detenuti stranieri. Vale a dire oltre il 40% del numero totale dei detenuti in Italia è musulmano.
Mohammed Khalid Rhazzali, dottore di ricerca in Sociologia dei processi comunicativi e interculturali presso l’Università di Padova nonché professore a contratto di Sociologia dei diritti umani presso la stessa università e docteur de recherche en Sociologie presso l’Ecole de Hautes Etudes en Science Sociale di Parigi, ha appena concluso una ricerca che è divenuta un libro (Franco Angeli editore) dal significativo titolo “L’Islam in carcere”. Con lui abbiamo fatto questa lunga chiacchierata-intervista proprio sulla realtà dei detenuti musulmani nelle carceri italiane.
Rhazzali, non tutte le carceri accettano l'imam all'interno della struttura, alcuni direttori hanno difficoltà a vedere quale, dal punto di vista formale e giuridico, dei tanti imam delle tante correnti islamiche dovrebbero fare entrare. Lei ha notato questa prima difficoltà?
«C’è un vuoto regolamentare, che però non è un vero vuoto perchè il principio dell'assistenza religiosa e spirituale c'è e vale per tutti.
Il problema va rinviato al rapporto tra tutte le comunità islamiche e l’amministrazione pubblica: per dirla in breve, sono vent’anni che i musulmani aspettano l'intesa tra lo Stato e le organizzazioni islamiche d’Italia. Anche se da una parte c'è una certa maturità, dall'altra parte tutto viene lasciato alle sensibilità dei singoli attori che operano in un territorio nazionale caratterizzato ormai da una certa differenziazione del welfare, dei diritti sociali, che però potrebbe risultare alla lunga rischiosa. Dunque se siamo ad esempio in Emilia Romagna, in Piemonte o anche in alcune parti della mia Regione, il Veneto, può darsi che si verifichino spontaneamente e in coerenza con certe tradizioni welfaristiche locali sensibilità e collaborazioni tra gli istituti penitenziari e il territorio circostante al di là dei formalismi»
Dipende allora da direttore e direttore?
«Esattamente, e dipende anche dalla collaborazione dei musulmani che sono in quella determinata struttura carceraria. Dipende anche dall’esistenza di un’associazione islamica o moschea in prossimità del carcere o nella città più vicina. Dipende dalla risorsa umana e materiale che tale associazione ha a disposizione da destinare al tema carcere. Trattandosi comunque di associazioni no profit, di volontari: bisogna vedere dunque se hanno le forze per occuparsi anche dei detenuti. Dipende dalla rete di relazioni che hanno sviluppato con le istituzioni e le associazioni laiche e religiose che lavorano all’interno del carcere».




In carcere c'è il cappellano cattolico che opera nella piena ufficialità. Come viene visto dal musulmano?
«Dipende dalla sensibilità del singolo cappellano. Però in linea generale il cappellano è ritenuto come uno degli operatori del carcere e quindi come una risorsa ulteriore anche per i musulmani. La cappella per alcuni (pochi), è un luogo di preghiera interconfessionale. Altri potrebbero meno sinceri e la frequentano per avere in cambio qualche aiuto».
Molto spesso si nota che il mondo cattolico tende ad inglobare, a voler in qualche maniera convertire. Certi atteggiamenti similmente le fa anche un certo tipo di fondamentalismo islamico? Lei ha trovato certe situazioni nelle carceri?
«Premesso che la tendenza a convertire le persone risulta in qualche modo come caratteristica di quasi tutte le religioni e non dei loro fondamentalismi. Le religioni spiegano le loro ragioni alle persone e se qualcuno si convince può aderire liberamente. Quindi non dobbiamo preoccuparci se qualcuno tenta di convertire qualcun altro. Caso mai occorre lavorare perché questo accada alla luce del sole e che le persone siano messe nelle condizioni di professare liberamente i propri culti e di convertirsi anche in altre direzioni nel corso della vita. E quindi è una faccenda paradossalmente tutt’altro che privata e deve essere discussa, decisa, elaborata pubblicamente. Perciò ritorna la rilevanza dell’intesa tra lo Stato e le confessioni religiose che stabilisce per legge funzioni e responsabilità. Il caso islam da questo punto di vista diventa un’urgenza a cui dare risposte nell’immediato. Ecco che quando parliamo del carcere siamo dinanzi a una delle istituzioni che fa i conti quotidianamente anche con la gestione religiosa dei musulmani. E il non prestare attenzione a questo aspetto rischia sì di essere un elemento su cui inventarsi un fondamentalismo islamico specifico delle carceri europei, una specie di “religione degli oppressi” che si occupa dell’assistenza religiosa. Nel caso specifico del nostra pianeta carcere in Italia, a parte quei sorvegliati speciali legati al terrorismo che uno un regime a parte, non è emerso dall’indagine che ho condotto gruppi cosiddetti fondamentalisti che si trovano lì con l’obiettivo di convertire delle persone in qualche ideologia islamista. Più meno si tratta spesso di detenuti che hanno commesso reati comuni con pene medie di due o tre anni e che si rivolgono alla religione cercando qualche risorsa: passatempo, qualche effetto terapeutico, contro l’avvilimento e lo smarrimento,… Ho trovato qualche gruppo che si aut-organizza attorno a questa tematica. Sono riuscito anche a intervistare un autoproclamato imam e più di qualche detenuto molto ingaggiato in questo senso, ma tutte le volte si tratta di persone slegate da qualche movimento, ideologia,… La cosa che colpisce è la conversione o ri-conversione spontanea dei giovani che si definiscono comunque musulmani senza però un accompagnamento di nessuno. C’era di qua e di là qualche convertito italiano (in un caso era romeno) e non mi sono occupato di tale tema che dovrebbe essere studiato a parte, ma in generale
convinti impegnati e semplici osservanti o convertiti si trovano a fare bricolage religioso per sopravvivere…».
Trova che anche nel carcere sia cambiato l'atteggiamento che c'era prima dell'undici settembre 2001 (cioè dell’attentato alle Torri Gemelle a New York) e quello di adesso?
«A questo proposito mi sono fatto raccontare dagli operatori carcerari: ebbene tutti quanti sono consapevoli che è successo qualche cosa dopo quella data, qualche cosa che ha cancellato anni di dialogo, ad esempio, interreligioso tra cristiani e musulmani, è come se si fossero azzerati tutti i rapporti positivi che c'erano tra istituti penitenziari e associazioni islamiche.
I linguaggi sono cambiati rispetto a prima e non c’erano le categorie del post-undici settembre 2001 che hanno influenzato negativamente qualsiasi politica che miri a valorizzare il dato religioso musulmano. Era quindi più facile che i musulmani e gli altri si confrontassero sull'opportunità dell'assistenza spirituale o religiosa in carcere, vista anche in tutta la sua efficacia riabilitativa.
Ho interpellato anche degli imam circa la loro attività nelle carceri. È emersa però una figura di imam specifica del contesto europeo che si configura su di versi campi del sociale. L'assistenza religiosa, anche in altre istituzioni (ospedale, caserme,..), e altre funzioni tipiche del sociale (mediazione istituzionale e di prossimità) risultano essere sempre di più campi in cui l’imam si trova coinvolto, ma non si potrebbero collocare in qualche tradizione teologica islamica. Tuttavia, e il caso ce lo dimostra, la tradizione teologica islamica si trova in coerenza con i propri principi che le permettono, mediante il concetto di al-Ijtihad al-‘Aqli (lo sforzo intellettuale), di rivedere in continuazione il suo rapporto con il presente e il futuro. Da questo punto di vista l'islam è molto flessibile ed è capace di “inventarsi” degli istituti legati ai tempi ed ai territori in quei i fedeli si trovano».
Come vive il detenuto islamico la propria condanna? Con pentimento e contrizione? Come un macigno nella coscienza? Viene anche escluso dalla comunità islamica?
«I musulmani si comportano ovviamente come tutti gli altri detenuti. I musulmani in quel contesto devono fare anche loro i conti con la loro identità di detenuto. Musulmano e detenuto può risultare una combinazione positiva al fine del proprio recupero, sia per sé che per la collettività. Questo però dipende da quello che si dice e si pensa, da una parte, sulla prigione e dall’altra, sui musulmani. E qui non è escluso nessun attore sulla scena pubblica. Anche le organizzazione islamiche sono responsabili, un po’ perché mancano le cornici istituzionali e i finanziamenti e un po’ perché la condanna sociale potrebbe essere interpretata come divina e, quindi, da questo punto di vista ha poco da fare la comunità islamica. Invece del pentimento, che emerge con forza dai racconti di giovani detenuti e che a volte si combina con una strana relazione con il Maktub (il destino), ci potrebbe essere del risentimento che a seconda di chi ci si trova davanti, spingerebbe alcuni a sviluppare discorsi che la fanno facile e identifichino nella propria condanna il loro perseguimento in quanto musulmani.
Tuttavia, il carcere si configura come un “mondo parallelo”, un “mondo in miniatura”, gli stessi dibattiti che si fanno fuori si riproducono nel carcere. Il carcere però ci insegna che tutte le dinamiche sociali si portano all'esasperazione. Alla stessa maniera di come si vive fuori, anche lì si comunica, si vive e ci si trova attraverso la tv (i detenuti guardano moltissima tv) dentro i medesimi processi, però i carcerati sono ovviamente più condizionati nel loro modo di interpretare, di elaborare, e rischiano dinanzi a delle chiusure di perdere tale capacità che li serve anche per uscire e per riscattarsi. Questo succede normalmente con tutti. E in cosa sono diversi allora i musulmani rispetto agli altri? La domanda è retorica. La religione per tutti può essere una risorsa dentro il carcere, una risorsa a cui attingere per resistere contro gli assalti dell’istituzione totale. Tuttavia, si può osservare presso i musulmani una certa specificità per ciò che riguarda la dimensione della religiosità; che potrebbero sembrare più inclini alla religiosità o più attaccati alla tradizione religiosa, ma questo risulta dalla letteratura in questione come l’esito di politiche identitarie che hanno costringono chi non ha strumenti conoscitivi, chi non ha potere politico, a ridurre, a schiacciare, la complessità del rapporto con la propria identità, o le proprie identità, sul versante religioso. Insomma, ai musulmani, migranti o non, di vecchia e nuova generazione, carcerati o non, è stato detto negli ultimi vent’anni che la vostra identità di musulmani è poco integrabile con il resto delle dimensioni della vita sociale, culturale e politica. Da queste retoriche è scaturita una violenza, sostenuta anche da alcune forze politiche, che rischia di convincere i musulmani di adattarsi al proprio stereotipo, ad arroccarsi, ad essenzializzare la loro esperienza religiosa».
Che siano musulmani o meno, può essere che i detenuti siano depressi e che magari possano esserci dei suicidi. C’è una richiesta verso l’esterno di aiuto e di ricerca di spiritualità per, in qualche modo, redimersi e riscattarsi?
«Sì, il tema dei suicidi ha dimostrato che tale fenomeno non risparmia nessuno. Gli ultimi dati presentano uno scenario in cui si muore interculturamente di carcere: ricorrono al suicidio musulmani e cristiani, tunisini e romeni, nigeriani e italiani. Vi è già un’ampia letteratura che insiste su un intreccio di fattori (sovraffollamento, maltrattamento) esterni e la correlazione tra questi e l’aumento del tasso di suicidio. In questa prospettiva, risulta arduo parlare per ragioni legate alla nostra storia politica laica di spiritualità o di religione come soluzione o strumento che possa attenuare tale fenomeno. Questa in parte è stata la mia premessa nel mio studio, cioè rimettere in discussione la rilevanza o irrilevanza del religioso nel contesto carcerario e nella contemporaneità in generale. I carcerati esprimono con forza questo bisogno (religioso) e se questo per alcuni può risultare regredivo, ciò va analizzato e preso sul serio.
Quali sono le problematiche generali che sentono di più i musulmani nel carcere? E’ proprio solo la religione, la preghiera, la moschea oppure il permesso di soggiorno, il procurarsi il cibo o trovare lavoro quando usciranno da quella struttura?
«Bisogna distinguere. Ci sono i musulmani italiani, incluse anche le seconde generazioni che non si trovano ad avere i problemi legati al permesso di soggiorno. Poi c’è l’islam migrante che deve fare in conti con le dinamiche migratorie, le leggi e la condizione giuridica in cui si trovano. I musulmani, da questo punto di vista, hanno gli stessi problemi di un altro straniero: l’espulsione o la clandestinità dopo la conclusione della pena.
Altra cosa è invece l’istituto penitenziario, che ha una sfida da affrontare legata al futuro della società italiana e quindi anche alla pluralità culturale e religiosa presente in tutte le sfere pubbliche di questa società. Quindi non bisogna lasciare da soli gli istituti di pena a gestire la complessità da un punto di vista discrezionale. Questa sfida è un tema di grande attualità sempre all’ordine del giorno dove le istituzioni hanno sempre bisogno di modelli operativi e di una legislazione chiara. Faccio l’esempio del dare o meno da mangiare la carne halal (dove cioè l’animale è stato macellato secondo le norme della legge islamica): la carne halal non viene data o viene data a seconda delle diete ed a seconda delle risorse che si hanno all’interno della singola struttura penitenziaria. E’ ovvio che gli istituti sono interessati in linea di principio a queste tematiche perché sono interessati a mantenere l’ordine dentro il carcere e non. Ma questi dibattiti devono essere svolti altrove, non ci può essere una negoziazione a livello locale, anche se in realtà ogni carcere rispetta le leggi e i regolamenti e tutti risultano essere in linea con i principi costituzionali.
Ci sono delle buonissime pratiche nelle carceri ma il problema è: la politica cosa sta facendo per i problemi del carcere? Non si può demandare tutto alla sensibilità o meno del singolo direttore. Diciamo che non c’è chiarezza e non ci sono modelli operativi. Dal punto di vista del rispetto della religione nel carcere la maggior parte dei musulmani praticanti dicono che ci sono delle buone pratiche e c’è il rispetto, anche da parte delle guardie».

(1) F. Biloslavo, “Dagli imam fai-da-te proselitismo in carcere, boom conversioni ... all'islam” in http://hurricane_53.ilcannocchiale.it/2010/05/28/dagli_imam_faidate_proselitism.html

Nessun commento:

Posta un commento