>> L'islam entra in carcere <<
(7^ puntata)
>> Intervista a Mohammed Khalid Rhazzali <<
«”Una
piccola moschea è regolarmente allestita presso la Casa
circondariale di Prato, una sala di cultura islamica esiste a Ferrara
ed un’apposita saletta per la preghiera è prevista a San
Gimignano” informa il ministero della Giustizia. Valvole di sfogo
spirituale di questo genere sono utili in tutte le carceri. E forse
sarebbe meglio avere, al fianco dei 250 cappellani cristiani, degli
imam ufficiali, preparati e moderati» (1).
Tutto ciò
riportato tra virgolette qui sopra sarebbe necessario perché in
effetti, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria, al 31 gennaio 2009 i detenuti musulmani presenti nelle
carceri italiane erano 9 mila 006 contro gli 8 mila 382 degli
appartenenti ad altra religione e sul totale di 21 mila 891 detenuti
stranieri. Vale a dire oltre il 40% del numero totale dei detenuti in
Italia è musulmano.
Mohammed
Khalid Rhazzali, dottore di ricerca in Sociologia dei processi
comunicativi e interculturali presso l’Università di Padova nonché
professore a contratto di Sociologia dei diritti umani presso la
stessa università e docteur de recherche en Sociologie presso
l’Ecole de Hautes Etudes en Science Sociale di Parigi, ha appena
concluso una ricerca che è divenuta un libro (Franco Angeli editore)
dal significativo titolo “L’Islam in carcere”. Con lui abbiamo
fatto questa lunga chiacchierata-intervista proprio sulla realtà dei
detenuti musulmani nelle carceri italiane.
Rhazzali,
non tutte le carceri accettano l'imam all'interno della struttura,
alcuni direttori hanno difficoltà a vedere quale, dal punto di vista
formale e giuridico, dei tanti imam delle tante correnti islamiche
dovrebbero fare entrare. Lei ha notato questa prima difficoltà?
«C’è un
vuoto regolamentare, che però non è un vero vuoto perchè il
principio dell'assistenza religiosa e spirituale c'è e vale per
tutti.
Il problema
va rinviato al rapporto tra tutte le comunità islamiche e
l’amministrazione pubblica: per dirla in breve, sono vent’anni
che i musulmani aspettano l'intesa tra lo Stato e le organizzazioni
islamiche d’Italia. Anche se da una parte c'è una certa maturità,
dall'altra parte tutto viene lasciato alle sensibilità dei singoli
attori che operano in un territorio nazionale caratterizzato ormai da
una certa differenziazione del welfare, dei diritti sociali, che però
potrebbe risultare alla lunga rischiosa. Dunque se siamo ad esempio
in Emilia Romagna, in Piemonte o anche in alcune parti della mia
Regione, il Veneto, può darsi che si verifichino spontaneamente e in
coerenza con certe tradizioni welfaristiche locali sensibilità e
collaborazioni tra gli istituti penitenziari e il territorio
circostante al di là dei formalismi»
Dipende
allora da direttore e direttore?
«Esattamente,
e dipende anche dalla collaborazione dei musulmani che sono in quella
determinata struttura carceraria. Dipende anche dall’esistenza di
un’associazione islamica o moschea in prossimità del carcere o
nella città più vicina. Dipende dalla risorsa umana e materiale che
tale associazione ha a disposizione da destinare al tema carcere.
Trattandosi comunque di associazioni no
profit, di volontari:
bisogna vedere dunque se hanno le forze per occuparsi anche dei
detenuti. Dipende dalla rete di relazioni che hanno sviluppato con le
istituzioni e le associazioni laiche e religiose che lavorano
all’interno del carcere».
In
carcere c'è il cappellano cattolico che opera nella piena
ufficialità. Come viene visto dal musulmano?
«Dipende
dalla sensibilità del singolo cappellano. Però in linea generale il
cappellano è ritenuto come uno degli operatori del carcere e quindi
come una risorsa ulteriore anche per i musulmani. La cappella per
alcuni (pochi), è un luogo di preghiera interconfessionale. Altri
potrebbero meno sinceri e la frequentano per avere in cambio qualche
aiuto».
Molto
spesso si nota che il mondo cattolico tende ad inglobare, a voler in
qualche maniera convertire. Certi atteggiamenti similmente le fa
anche un certo tipo di fondamentalismo islamico? Lei ha trovato certe
situazioni nelle carceri?
«Premesso
che la tendenza a convertire le persone risulta in qualche modo come
caratteristica di quasi tutte le religioni e non dei loro
fondamentalismi. Le religioni spiegano le loro ragioni alle persone e
se qualcuno si convince può aderire liberamente. Quindi non dobbiamo
preoccuparci se qualcuno tenta di convertire qualcun altro. Caso mai
occorre lavorare perché questo accada alla luce del sole e che le
persone siano messe nelle condizioni di professare liberamente i
propri culti e di convertirsi anche in altre direzioni nel corso
della vita. E quindi è una faccenda paradossalmente tutt’altro che
privata e deve essere discussa, decisa, elaborata pubblicamente.
Perciò ritorna la rilevanza dell’intesa tra lo Stato e le
confessioni religiose che stabilisce per legge funzioni e
responsabilità. Il caso islam da questo punto di vista diventa
un’urgenza a cui dare risposte nell’immediato. Ecco che quando
parliamo del carcere siamo dinanzi a una delle istituzioni che fa i
conti quotidianamente anche con la gestione religiosa dei musulmani.
E il non prestare attenzione a questo aspetto rischia sì di essere
un elemento su cui inventarsi un fondamentalismo islamico specifico
delle carceri europei, una specie di “religione degli oppressi”
che si occupa dell’assistenza religiosa. Nel caso specifico del
nostra pianeta carcere in Italia, a parte quei sorvegliati speciali
legati al terrorismo che uno un regime a parte, non è emerso
dall’indagine che ho condotto gruppi cosiddetti fondamentalisti che
si trovano lì con l’obiettivo di convertire delle persone in
qualche ideologia islamista. Più meno si tratta spesso di detenuti
che hanno commesso reati comuni con pene medie di due o tre anni e
che si rivolgono alla religione cercando qualche risorsa: passatempo,
qualche effetto terapeutico, contro l’avvilimento e lo
smarrimento,… Ho trovato qualche gruppo che si aut-organizza
attorno a questa tematica. Sono riuscito anche a intervistare un
autoproclamato imam e più di qualche detenuto molto ingaggiato in
questo senso, ma tutte le volte si tratta di persone slegate da
qualche movimento, ideologia,… La cosa che colpisce è la
conversione o ri-conversione spontanea dei giovani che si definiscono
comunque musulmani senza però un accompagnamento di nessuno. C’era
di qua e di là qualche convertito italiano (in un caso era romeno) e
non mi sono occupato di tale tema che dovrebbe essere studiato a
parte, ma in generale
convinti
impegnati e semplici osservanti o convertiti si trovano a fare
bricolage religioso per sopravvivere…».
Trova che
anche nel carcere sia cambiato l'atteggiamento che c'era prima
dell'undici settembre 2001 (cioè dell’attentato alle Torri Gemelle
a New York) e quello di adesso?
«A questo
proposito mi sono fatto raccontare dagli operatori carcerari: ebbene
tutti quanti sono consapevoli che è successo qualche cosa dopo
quella data, qualche cosa che ha cancellato anni di dialogo, ad
esempio, interreligioso tra cristiani e musulmani, è come se si
fossero azzerati tutti i rapporti positivi che c'erano tra istituti
penitenziari e associazioni islamiche.
I linguaggi
sono cambiati rispetto a prima e non c’erano le categorie del
post-undici settembre 2001 che hanno influenzato negativamente
qualsiasi politica che miri a valorizzare il dato religioso
musulmano. Era quindi più facile che i musulmani e gli altri si
confrontassero sull'opportunità dell'assistenza spirituale o
religiosa in carcere, vista anche in tutta la sua efficacia
riabilitativa.
Ho
interpellato anche degli imam circa la loro attività nelle carceri.
È emersa però una figura di imam specifica del contesto europeo che
si configura su di versi campi del sociale. L'assistenza religiosa,
anche in altre istituzioni (ospedale, caserme,..), e altre funzioni
tipiche del sociale (mediazione istituzionale e di prossimità)
risultano essere sempre di più campi in cui l’imam si trova
coinvolto, ma non si potrebbero collocare in qualche tradizione
teologica islamica. Tuttavia, e il caso ce lo dimostra, la tradizione
teologica islamica si trova in coerenza con i propri principi che le
permettono, mediante il concetto di al-Ijtihad
al-‘Aqli (lo sforzo intellettuale), di
rivedere in continuazione il suo rapporto con il presente e il
futuro. Da questo punto di vista l'islam è molto flessibile ed è
capace di “inventarsi” degli istituti legati ai tempi ed ai
territori in quei i fedeli si trovano».
Come vive
il detenuto islamico la propria condanna? Con pentimento e
contrizione? Come un macigno nella coscienza? Viene anche escluso
dalla comunità islamica?
«I
musulmani si comportano ovviamente come tutti gli altri detenuti. I
musulmani in quel contesto devono fare anche loro i conti con la loro
identità di detenuto. Musulmano e detenuto può risultare una
combinazione positiva al fine del proprio recupero, sia per sé che
per la collettività. Questo però dipende da quello che si dice e si
pensa, da una parte, sulla prigione e dall’altra, sui musulmani. E
qui non è escluso nessun attore sulla scena pubblica. Anche le
organizzazione islamiche sono responsabili, un po’ perché mancano
le cornici istituzionali e i finanziamenti e un po’ perché la
condanna sociale potrebbe essere interpretata come divina e, quindi,
da questo punto di vista ha poco da fare la comunità islamica.
Invece del pentimento, che emerge con forza dai racconti di giovani
detenuti e che a volte si combina con una strana relazione con il
Maktub (il destino),
ci potrebbe essere del risentimento che a seconda di chi ci si trova
davanti, spingerebbe alcuni a sviluppare discorsi che la fanno facile
e identifichino nella propria condanna il loro perseguimento in
quanto musulmani.
Tuttavia, il
carcere si configura come un “mondo parallelo”, un “mondo in
miniatura”, gli stessi dibattiti che si fanno fuori si riproducono
nel carcere. Il carcere però ci insegna che tutte le dinamiche
sociali si portano all'esasperazione. Alla stessa maniera di come si
vive fuori, anche lì si comunica, si vive e ci si trova attraverso
la tv (i detenuti guardano moltissima tv) dentro i medesimi processi,
però i carcerati sono ovviamente più condizionati nel loro modo di
interpretare, di elaborare, e rischiano dinanzi a delle chiusure di
perdere tale capacità che li serve anche per uscire e per
riscattarsi. Questo succede normalmente con tutti. E in cosa sono
diversi allora i musulmani rispetto agli altri? La domanda è
retorica. La religione per tutti può essere una risorsa dentro il
carcere, una risorsa a cui attingere per resistere contro gli assalti
dell’istituzione totale. Tuttavia, si può osservare presso i
musulmani una certa specificità per ciò che riguarda la dimensione
della religiosità; che potrebbero sembrare più inclini alla
religiosità o più attaccati alla tradizione religiosa, ma questo
risulta dalla letteratura in questione come l’esito di politiche
identitarie che hanno costringono chi non ha strumenti conoscitivi,
chi non ha potere politico, a ridurre, a schiacciare, la complessità
del rapporto con la propria identità, o le proprie identità, sul
versante religioso. Insomma, ai musulmani, migranti o non, di vecchia
e nuova generazione, carcerati o non, è stato detto negli ultimi
vent’anni che la vostra identità di musulmani è poco integrabile
con il resto delle dimensioni della vita sociale, culturale e
politica. Da queste retoriche è scaturita una violenza, sostenuta
anche da alcune forze politiche, che rischia di convincere i
musulmani di adattarsi al proprio stereotipo, ad arroccarsi, ad
essenzializzare la loro esperienza religiosa».
Che siano
musulmani o meno, può essere che i detenuti siano depressi e che
magari possano esserci dei suicidi. C’è una richiesta verso
l’esterno di aiuto e di ricerca di spiritualità per, in qualche
modo, redimersi e riscattarsi?
«Sì, il
tema dei suicidi ha dimostrato che tale fenomeno non risparmia
nessuno. Gli ultimi dati presentano uno scenario in cui si muore
interculturamente di carcere: ricorrono al suicidio musulmani e
cristiani, tunisini e romeni, nigeriani e italiani. Vi è già
un’ampia letteratura che insiste su un intreccio di fattori
(sovraffollamento, maltrattamento) esterni e la correlazione tra
questi e l’aumento del tasso di suicidio. In questa prospettiva,
risulta arduo parlare per ragioni legate alla nostra storia politica
laica di spiritualità o di religione come soluzione o strumento che
possa attenuare tale fenomeno. Questa in parte è stata la mia
premessa nel mio studio, cioè rimettere in discussione la rilevanza
o irrilevanza del religioso nel contesto carcerario e nella
contemporaneità in generale. I carcerati esprimono con forza questo
bisogno (religioso) e se questo per alcuni può risultare regredivo,
ciò va analizzato e preso sul serio.
Quali
sono le problematiche generali che sentono di più i musulmani nel
carcere? E’ proprio solo la religione, la preghiera, la moschea
oppure il permesso di soggiorno, il procurarsi il cibo o trovare
lavoro quando usciranno da quella struttura?
«Bisogna
distinguere. Ci sono i musulmani italiani, incluse anche le seconde
generazioni che non si trovano ad avere i problemi legati al permesso
di soggiorno. Poi c’è l’islam migrante che deve fare in conti
con le dinamiche migratorie, le leggi e la condizione giuridica in
cui si trovano. I musulmani, da questo punto di vista, hanno gli
stessi problemi di un altro straniero: l’espulsione o la
clandestinità dopo la conclusione della pena.
Altra cosa è
invece l’istituto penitenziario, che ha una sfida da affrontare
legata al futuro della società italiana e quindi anche alla
pluralità culturale e religiosa presente in tutte le sfere pubbliche
di questa società. Quindi non bisogna lasciare da soli gli istituti
di pena a gestire la complessità da un punto di vista discrezionale.
Questa sfida è un tema di grande attualità sempre all’ordine del
giorno dove le istituzioni hanno sempre bisogno di modelli operativi
e di una legislazione chiara. Faccio l’esempio del dare o meno da
mangiare la carne halal (dove cioè l’animale è stato macellato
secondo le norme della legge islamica): la carne halal non viene data
o viene data a seconda delle diete ed a seconda delle risorse che si
hanno all’interno della singola struttura penitenziaria. E’ ovvio
che gli istituti sono interessati in linea di principio a queste
tematiche perché sono interessati a mantenere l’ordine dentro il
carcere e non. Ma questi dibattiti devono essere svolti altrove, non
ci può essere una negoziazione a livello locale, anche se in realtà
ogni carcere rispetta le leggi e i regolamenti e tutti risultano
essere in linea con i principi costituzionali.
Ci sono
delle buonissime pratiche nelle carceri ma il problema è: la
politica cosa sta facendo per i problemi del carcere? Non si può
demandare tutto alla sensibilità o meno del singolo direttore.
Diciamo che non c’è chiarezza e non ci sono modelli operativi. Dal
punto di vista del rispetto della religione nel carcere la maggior
parte dei musulmani praticanti dicono che ci sono delle buone
pratiche e c’è il rispetto, anche da parte delle guardie».
(1) F. Biloslavo, “Dagli
imam fai-da-te proselitismo in carcere, boom conversioni ...
all'islam” in
http://hurricane_53.ilcannocchiale.it/2010/05/28/dagli_imam_faidate_proselitism.html
Nessun commento:
Posta un commento