sabato 12 gennaio 2013



>> Il mondo protestante valdese entra in carcere <<
(10^ puntata)


carcere parigino La Santé



Sappiamo che in generale per il mondo protestante il centro della fede è la Sacra Scrittura, “sola Scrittura”, aveva detto di seguire Martin Lutero al momento della Riforma. Oltre ovviamente alla “sola Fede e sola Grazia”.
Ecco dunque che il pastore Francesco Sciotto della Chiesa Valdese di Palermo, dopo aver effettuato il servizio civile al carcere minorile a Bicocca (Catania), chiese alla Facoltà valdese di poter effettuare un anno di studio all’estero sempre sul carcere. Fu la Fédération Protestante de France a chiedergli nel periodo ottobre 2000 - marzo 2002 di fare uno stage di lavoro alla prigione Santé a Parigi.
Rientrato in Italia dopo questa interessante e formativa esperienza, il pastore Sciotto nel maggio 2003 discusse la tesi di laurea in Teologia pratica presso la Facoltà Valdese a Roma dal titolo “Nel pozzo delle rane. Esperienze di cappellania carceraria” .
Attualmente Francesco Sciotto è coordinatore del gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione chiese evangeliche d’Italia.
Una voce autorevole, dunque, che parte affrontando l’argomento più caro a tutti i fratelli protestanti: la Bibbia con il primo capitolo dal titolo “La prigione nelle Sacre Scritture”
Nelle pagine del pastore Sciotto troviamo degli spunti molto interessanti: La Bibbia, ad esempio, che può diventare «il fulcro di ogni relazione d’aiuto. Lo è innanzitutto perché accompagna lungo il suo lavoro il counselor. Lo accompagna all’inizio della relazione, nelle prime visite dove si chiacchiera del più e del meno. Lo accompagna in seguito, nell’ascolto, quando la sofferenza si fa parola e richiesta di aiuto. Lo affianca negli alti e bassi del lavoro in generale.
Ma è fulcro anche e soprattutto perché, poco a poco, accompagna anche la sofferenza del detenuto, che in maniera naturale e spontanea chiede di leggere dei passi, di condividere le sue impressioni, le sue preghiere. È questa condivisione, questo confronto, che fa rivivere il testo biblico, che lo rende spesso parlante.
La Bibbia diventa a questo punto funzione stessa della relazione, collante dell’accompagnamento pastorale» (1).
Ovviamente però sempre più frequentemente i detenuti usavano la Bibbia come pretesto per scambiare quattro chiacchiere, per bere un caffè, insomma per incontrare qualcuno di fuori magari come «richiesta di aiuto che viene da chi esperisce un vuoto quotidiano ed esistenziale da colmare, una ferita da rimarginare, un dolore da sedare. Ebbene, credo che a pochi dei nostri contemporanei che si trovino in tali condizioni, capiti di aprire una pagina a caso delle Scritture e di trovarvi all’interno immediato lenimento. La Bibbia è, per la maggior parte delle persone, niente di più che un libro scritto troppi secoli addietro. Qualcosa che non riesce più a parlare alla gente d’oggi» (2).
Da un attenta e meditata lettura biblica si può vedere come si trovi il tema della prigionia e della prigione, ma anche quello dell’attesa che il pastore Sciotto ha evidenziato nell’Antico Testamento e dell’utilizzo repressivo del carcere portato alla luce nel Nuovo Testamento.
La cosa che fa più specie è che a Bibbia disconosce il volto della prigione e del carcere «inteso come pena. Questa peculiarità ne fa il luogo dell’espiazione, della punizione, ma anche del ravvedimento, della reinserzione» (3).
Nella Bibbia l'attesa dei prigionieri diviene l'attesa metaforica di qualche cosa d' altro, giudizio divino, intervento di un liberatore o intervento celeste.
Inoltre ci dice sempre il pastore Sciotto nella sua tesi «non c'è qui un giudizio moralistico su chi è “dentro”. Nessuno ci dice se hanno meritato o no la detenzione, semplicemente perché si tratta di persone che aspettano, che probabilmente lo fanno soffrendo e che sono in balia delle prepotenze e delle sopraffazioni dei potenti. Quest’attesa, ingiusta e per di più incerta, penosa, diventa paradigma esistenziale di coloro che attendono; metafora, pur triste, di una speranza. La loro condizione diviene un’immagine di attesa escatologica e teologica di liberazione» (4).
Interessante è poi cogliere nel lavoro del pastore Sciotto che è stato, lo ricordiamo, anche cappellano in Francia e lo è tutt'ora come volontario in Sicilia, il fatto che non si è da soli con il detenuto ma «al timone della barca, oltre a noi e al detenuto, ci sia il Cristo dormiente che, nel racconto evangelico di Mc. 4, 35-41 guida la barca in mezzo alla tempesta. È questa una notazione che in prima istanza deve essere chiara al pastore: nella relazione d’aiuto non siamo, né saremo mai capaci di aiutare qualcuno da soli, etsi deus non daretur. La nostra specificità sta nel fatto che proviamo a tradurre e riformulare le ansie e gli stati d’animo del nostro interlocutore in preghiera e riflessione; mai in terapia, né ictanto meno in analisi. Questo non significa che dovremo sempre trovare un versetto biblico che risponda per noi a tutte le frasi pronunciate da un detenuto, o che quest’ultimo debba ogni cinque minuti sentirsi da noi invitato a pregare o a studiare insieme un passo della bibbia. Tutti i manuali potranno darci delle indicazioni su come valutare ciò che abbiamo ascoltato. Come qualsiasi counselor dovremo, dopo aver valutato, scegliere una rotta possibile per far progredire il lavoro, ma dovremo fare tutto ciò sapendo che il nostro ruolo è quello di cappellani» (5).

«Sai Ciccio, negli ultimi giorni mi è capitato di trovarmi spesso a pregare per ciò che sta succedendo in Palestina. Stavo con la Bibbia in mano leggevo qualche passo, dopo aver acceso una candela, e pregavo il Signore. Vorrei che oggi facessimo questo insieme”. Avevo appena aperto la porta della sua cella, non mi ero ancora seduto, che F. mi aveva già detto queste parole. F. era un detenuto di origini nordafricane, nato e cresciuto in Francia, che prima di entrare in carcere poco o nulla aveva avuto a che fare con la religione. In prigione, dopo un lungo periodo di visite e partecipazione ai culti, chiese all’équipe dei pastori della Santé di essere battezzato. Credo che la preghiera abbia accompagnato in maniera assai rilevante il suo percorso di fede dietro le sbarre» (6).
Può capitare che il cappellano venga interpellato sulla preghiera, sul come pregare; ebbene Sciotto dalla sua esperienza ci dice di utilizzare il linguaggio comune dei detenuti e «soprattutto il momento nel quale offriamo a Dio le nostre difficoltà ed i nostri stati d’animo, perché egli se ne curi. È assolutamente importante che il detenuto che ci chiede di pregare insieme a lui riconosca nelle parole che offriamo al Signore le sue ansie, il suo ringraziamento, la sua gioia, la sua lode, i suoi modi di dire» (7).
Per ciò che riguarda il culto il pastore Sciotto racconta la sua esperienza parigina:

«Alla prigione della Santé il culto avveniva ogni quindici giorni, al sabato, animato da uno o più dei quattro cappellani dell’équipe. Dopo la lettura di un breve passo di un Salmo, o di un libro dei profeti, e una breve preghiera, si leggeva un testo e cominciava una discussione libera, introdotta dal pastore e da lui moderata. Tutti potevano iscriversi al culto e intervenire e spesso il discorso verteva su tematiche riguardanti la detenzione e la vita in carcere. Dopo una mezz’ora, si chiudeva la celebrazione con un canto, o con delle preghiere spontanee, o dicendo tutti insieme il “Padre Nostro”. Il culto protestante è considerato dai detenuti della Santè uno dei momenti di massima libertà della vita del carcere. Tradizione vuole ormai che siano iscritti al culto protestante tanti detenuti che si considerano “politici”: i baschi, ad esempio, i corsi, i kurdi. È un momento in cui ci si può incontrare e discutere e tutti i detenuti che pensano che manchino in detenzione spazi di confronto si battono perché esso funzioni. Un detenuto di origini nordafricane, che aveva scoperto che ero uno dei cappellani protestanti del carcere, e che probabilmente poco sapeva di religione e religioni, mi chiese un giorno: “tu sei il cappellano protestante? Vieni dalla Corsica o dai paesi Baschi?” Certamente non sapeva cosa fosse la Riforma. Credeva che i corsi ed i baschi fossero tutti protestanti, perché aveva sentito che quasi tutti i detenuti corsi e baschi venivano al culto protestante» (8)
Alla prigione della Santé di Parigi veniva celebrato il culto di Santa Cena che il pastore Sciotto ci descrive così: «Celebravamo la Santa Cena due volte l’anno, a Pasqua ed a Natale. La celebrazione aveva dunque una frequenza minima e coincideva con le feste. Questo ci dava la possibilità di chiedere alla direzione del carcere, sempre disponibilissima, di vivere insieme ad i detenuti un breve momento di festeggiamento dopo il culto. In questi casi chiudevamo il culto con la Cena e dopo ci fermavamo per una mezz’ora con i detenuti, per mangiare qualcosa con loro, tutti insieme. Avevamo infatti anche la possibilità, in queste occasioni, di portare qualche succo di frutta e dolcetti o salatini. Niente di particolare, in fin dei conti. Ma era un momento di festa, che potevamo passare in compagnia. Al culto protestante erano iscritti anche parecchi detenuti islamici. È ovvio che loro in primis non desiderassero partecipare alla Santa Cena: non potevano bere il vino, che è una bevanda alcolica e capivano benissimo, senza che ci fosse bisogno che qualcuno lo spiegasse loro con un divieto, che stavamo celebrando qualcosa che non apparteneva alla loro spiritualità. Ciò non vietava ad i musulmani di partecipare alla nostra e loro festa» (9).






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 (1) F. Sciotto, “Nel pozzo delle rane. Esperienze di cappellania carceraria”, tesi in Teologia Pratica della Facoltà Valdese di Roma, p. 9
 (2) Ibidem p. 8
 (3) Ibidem p. 31
 (4) Ibidem p. 32
 (5) Ibidem p. 96
 (6) Ibidem p. 99
 (7) Ibidem
 (8) Ibidem p. 102
 (9) Ibidem p. 105

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