sabato 29 dicembre 2012



>> Il mondo cattolico entra in carcere<<
(8^ puntata)




Sono numerose le realtà cattoliche presenti nelle strutture carcerarie in Italia. A partire dal cappellano cattolico e via via in carcere si alternano al presenza di associazioni di volontariato cattoliche quali ad esempio la Caritas, la San Vincenzo De Paoli ecc…
Qui di seguito descriviamo il lavoro svolto dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, “associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio – Ente ecclesiastico civilmente riconosciuto con D.P.R. 596/72” come si legge nella carta intestata della stessa Comunità, fondata da don Oreste Benzi, ora defunto.



Seguono anche alcune travagliate testimonianze di persone detenute che ne fanno parte.
Tale associazione nel 2005 ha aperto la casa Madre del Perdono che da anni «accoglie detenuti comuni non tossicodipendenti, sviluppando un progetto educativo con l’obiettivo di rimuovere le cause che rendono la persona propensa ad atteggiamenti, sentimenti e atti criminosi.
Dal 2005 ad oggi sono state accolte oltre 150 persone alle quali in varie forme e gradi sono state offerte occasioni di cambiamento di vita che passano soprattutto attraverso un cambio di mentalità. I problemi di maggiore entità sono costituiti da episodi di fuga avvenuti da persone prive di permesso di soggiorno. La nuova sede è stata inaugurata l’11 luglio del 2008» (1).
Chi chiede di entrare in questa struttura lo fa perché vuole cambiare vita e prendere coscienza del grave reato commesso: esso viene aiutato ed «accompagnato dalla speranza di poter ricominciare una vita diversa, accettando di dover fare una cammino di riconciliazione con se stessi e con la società intera. (…) Il percorso educativo elaborato dal servizio carcere dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII si differenzia da quello delle comunità terapeutiche per le tossicodipendenze pur avendo molti aspetti in comune. L’elemento forza del percorso è dato dalla gratuità delle persone che vi operano, siano esse operatori interni ma ancor più, grazie alla presenza di volontari esterni che donano gratuitamente il loro tempo, con amore» (2).
All’interno di questa comunità c’è anche un momento di formazione religiosa dal punto di vista cattolico: «Momenti di conoscenza sui fondamenti della religione Cattolica e attraverso essi capire cosa Dio dice (non rubare, non uccidere,amare ecc.);a tal riguardo si svolgono serate di catechismo dialogato, di testimonianze di fede vissuta (missionari, consacrati, sposi, handicappati, ex-carcerati,prostitute ecc.). Se nella formazione si cerca di comprendere cosa Dio dice, nei momenti di culto e di preghiera si chiede a Dio la forza e la grazia per vivere ciò che Lui vuole. Tali momenti quotidiani e settimanali sono strutturati.
La formazione umana e quella religiosa ovviamente si amalgama in un unico percorso educativo che necessita un’adesione alta e motivata, pur rispettando a discrezione dei responsabili tempi e modi»(3).


«Nell’11 luglio 2008 all’inaugurazione della nuova sede – racconta Giorgio Pieri, responsabile del Servizio carcere - Emilia Romagna della Comunità - il Vescovo Francesco auspicò che la casa divenisse “L’Università del perdono”. Come spesso avviene nelle cose di Dio il progetto si sta svelando piano piano nella propria identità e strada facendo riconosce che quelle parole del vescovo Francesco esprimevano una profezia.
Diceva don Oreste: ”l’uomo non è il suo errore” e quando non si è accecati dalla paura e dal giudizio, si scopre che in quell’uomo che sbaglia c’è Gesù: ”ero in carcere e siete venuti a visitarmi”.
Sempre più la casa dovrà specializzarsi nell’approfondire la “pedagogia del perdono” per tracciare poi sentieri di riconciliazione. Questa esperienza può rivelarsi feconda specie se condivisa con il territorio»(4).
Lo stesso Pieri aggiunge: «“Stiamo tracciando il sentiero della riconciliazione”, con questo pensiero di fondo ho camminato insieme ai partecipanti del primo pellegrinaggio “Fuori le sbarre”. La marcia è iniziata il 27 marzo 2010 alle ore 07.00. Eravamo una quarantina. In questa occasione si è tentato di unire simbolicamente chi sta dentro con chi sta fuori. All’interno del carcere con la stessa traccia di preghiera i detenuti, con l’aiuto del cappellano, del gruppo di volontari del rinnovamento dello spirito e di una suora, hanno pregato nei nostri stessi orari. Particolarmente significativa è stata l’adesione alla preghiera delle suore carmelitane di Sogliano (RN), “recluse per amore” che hanno aderito all’iniziativa».
Ed ecco le testimonianze raccolte durante il pellegrinaggio “fuori dalle sbarre” raccolte dallo stesso responsabile del Servizio carcere, Giorgio Pieri:
« (…) Mario è il primo detenuto accolto della “Casa Madre del Perdono” che con orgoglio ha letto una poesia che ricorda il suo malessere vissuto nei venticinque anni di carcerazione, ma anche la scoperta di un mondo nuovo grazie all’incontro con i disabili avvenuta nella Comunità Papa Giovanni XXIII che l’ha accolto. In questa occasione, Franco, Domenico, Giovanni raccontano la loro esperienza di” recuperandi”.




Ricordo un esercizio d’ascolto a cui partecipai parlando, mentre gli altri in silenzio mi ascoltavano: in una lunga ora per la prima volta raccontai i miei problemi, le mie paure e, per la prima volta mi sentii libero di piangere, libero nell’anima… non mi sentivo giudicato.
Dopo solo due mesi di semilibertà, con l’aiuto della casa, sono riuscito a parlare con mia moglie nel profondo comunicandogli cose che non ero riuscito nei venti anni di detenzione e nei cinque anni di permesso premio.
Da quel giorno vivo la comunità con il cuore aperto e sincero e anche la preghiera mi ha aiutato:era molto che avevo abbandonato il rapporto col Signore, ma qua mi sono ricreduto e lo sto vivendo con molto sentimento. Proprio praticando la fede, per la prima volta ho preso coscienza di quello che ho fatto: ho tolto la vita ad un altro essere umano, questo non me lo potrò mai perdonare. Per la prima volta dopo venti anni, ho pregato per l’anima della persona che ho ucciso, vittima della mia cattiveria.
Da quando ho cominciato a rivedere tutto su ciò che ho fatto, mi sento un peso sullo stomaco che fa male, un male che non si può spiegare con delle parole.
E’ come se dentro di me si fosse creato un vuoto che non si può riempire con niente e nessuno e chiedo perdono a Dio tutti i giorni ma penso di non meritarlo: come può un peccatore come me avere tanto? Continuerò nella mia preghiera a chiederlo sempre, con il cuore e con l’anima”. A queste parole è seguito un profondo silenzio misto gioia».



«La pastorale carceraria tende a coinvolgere la comunità cristiana in un percorso di attenzione verso la realtà del carcere per sentirla come parte integrante del cammino della Chiesa diocesana, nello stesso tempo tende a far sentire il detenuto inserito pienamente nella famiglia della chiesa locale attraverso iniziative e cammini di fede che devono incarnare nella situazione la pastorale della diocesi.
Il carcere non è un isola, anzi, rappresenta quella realtà di chiesa che soffre a causa del male, del peccato, e lì dove un membro soffre tutto il corpo soffre.
Il cristiano e le nostre comunità sono chiamate a guardare a questa realtà con occhi diversi da chi giudica con il metro della giustizia umana (spesso vendicativa e farisaica), ma con occhi di misericordia, ciò non significa assolutamente addolcire il male o cercare di giustificarlo, ma andare alle radici, per scoprire dove ha origine, dov’è la fonte della malattia di cui spesso il condannato ne rappresenta solo il sintomo».
Tutto ciò sopraccitato è quanto si legge in un opuscoletto che presenta il Centro diocesano di Pastorale Carceraria di Napoli.
Tra le persone preposte a guidare questo ufficio della Diocesi di Napoli c’è suor Maria Lidia Schettino che si auto-presenta così:
«Oggi l’argomento “carcere” trova nell’informazione più spazio che in passato; non può passare nell’anonimato, specialmente per il mondo cristiano-cattolico, per la Chiesa che vuole impegnarsi in prima persona per risolvere il problema carcerario, secondo l’ottica del Vangelo.



Dal 1979 opero come assistente volontaria in questa realtà umana tanto particolare: ascolto le storie più varie, mi sono confidate ed affidate situazioni di sofferenza che mai avrei immaginato potessero albergare in cuore umano, ho potuto tante volte partecipare alla ricerca interiore della verità da parte di chi, nella vita quotidiana, mal gestendo la propria libertà, non aveva mai supposto di essere portatore di valori umani e divini. Nel carcere, strano ma vero, sento la presenza reale, concreta, sensibile di Gesù ed in tante circostanze ho compreso, accanto ai detenuti, cosa significhi pazientare nel soffrire, cosa sia alimentare la speranza del trionfo dell’amore, come si possa condividere il poco che si ha con chi non ha nulla. Attraverso le loro esperienze ho conosciuto il “baratro del fango” e l’“altezza della libertà” e mi sono sentita proiettata in una dimensione di vita sconvolgente.
La mia presenza tra i detenuti è una presenza sofferta: il non poter rispondere a certe situazioni drammatiche, il constatare alcune ingiustizie evidenti, il notare, talvolta, una logica sbagliata, il non riuscire a trovare la strada per far capire gli errori, danno alla mia vita religiosa la dimensione della Croce.
Porto con me, ogni giorno, tutto il loro dolore; sento il mio stesso corpo appesantito dal peso dei drammi e della povertà di questi miei fratelli che assumo nella preghiera e la cui amicizia traduco in lode.
Da molti anni mi è stato affidato il Padiglione “Roma” dei giovani tossicodipendenti (ogni padiglione porta il nome di una città). La maggior parte di loro non ha vissuto l’infanzia; per molti la vita di fatiche e disagi ha avuto inizio intorno agli otto – nove anni; il ricordo della tenerezza materna, per altri, è solo nostalgia. Entro spesso nel loro ambiente di provenienza: sono famiglie molto povere economicamente e culturalmente. Mi accorgo come donna e come religiosa che il mio affetto sincero nei loro riguardi, le mie attenzioni per le loro necessità li inteneriscono; riscoprono la vita, vogliono parlarne, esprimono i loro desideri, le loro attese ma sempre nel timore di restare ancora soli, di essere ulteriormente delusi.
L’uomo in situazione di detenzione, nella maggior parte dei casi, è in situazione d’invocazione; anche inconsapevolmente il suo animo invoca il Regno di Dio, l’avvento dell’Amore, della giustizia e della pace, che identifica con una vita familiare serena. Ho scoperto che quelli che rifiutano Dio, non sono sempre gli orgogliosi e i superbi, ma spesso uomini sinceri che negano tale esistenza per sete e fame di giustizia: il più delle volte è la consapevolezza di essere vittima dell’ingiustizia e della solitudine a spingere i poveri e i miseri alla violenza o all’autodistruzione, attraverso il suicidio e la droga.
Il mio compito, accanto a questi fratelli che hanno soffocato, talvolta, con i reati più vari, la loro nostalgia di bene e di vero, è di offrire una mano tesa e un’amicizia vera; quelli che chiedono di parlarmi, anche se hanno ormai lucidamente macerato nella propria coscienza tutto l’abisso del male, mi possono avvicinare. Essi sanno…che vado per offrire loro la mia fede, la mia certezza che la Parola di Dio fa nuove tutte le cose, che anche dall’esperienza del peccato e della morte può nascere l’uomo nuovo, perché “ogni delitto commesso dall’uomo è punto di partenza dell’azione riabilitante di Dio” (Card. Martini).

Sono convinta che l’Avvento del Regno ha bisogno della passione degli amici di Gesù, e i fratelli detenuti, inconsapevolmente, aumentano questa mia passione, mi fanno dono della loro sofferenza che alimenta la fiamma della mia preghiera e garantisce la “vita” della mia adorazione.
Ogni giorno, durante la celebrazione eucaristica, c’è un momento culmine per me: nella Consacrazione, quando il sacerdote innalza il calice, il mio cuore grida: “Tutto…e Tutti!”. E’ un’offerta, è una supplica, è il desiderio che quel sangue porti a compimento – oggi – la salvezza per ogni uomo ed in particolare per i fratelli che incontro là, dove il bisogno di salvezza è più urgente: il carcere. Mi sembra che in quel momento, nel calice, siamo tutti uniti: in Cristo siamo ricondotti al Padre.
E già si compie la preghiera: Venga il tuo Regno»(5).
Suor Maria Lidia, 74 anni, in origine era una professoressa che ha lasciato la scuola superiore per consacrasi, nel 1965, nella congregazione delle “suore d’Ivrea”. Entra in carcere per sostituire una suora già preposta a quel luogo. E ci rimane, cambiandone tre: prima Pozzuoli, poi Secondigliano ed infine quello di Poggioreale. A tutt’oggi ogni giorno deve affrontare le difficoltà quotidiane dovute anche alle proporzioni del carcere dove presta la sua opera di conforto ai detenuti vale a dire la struttura di Poggioreale: per gli oltre duemila detenuti ci sono già quattro cappellani che fanno con difficoltà il loro lavoro.
«Un ergastolano mi ha detto: “dovete farla ogni otto giorni la Messa, perché quando entro nella cella e sto solo per tante ore rielaboro tutte le cose che ho sentito e non sapete che colloquio ho con Gesù Cristo!” C’è da credergli»(6).


Suor Maria Lidia ha anche curato un libro, oramai fuori catalogo ed introvabile, dal titolo “Nostalgia d’innocenza” (Edizioni Dehoniane di Bologna) dove sono raccolte le centinaia di lettere che la suora ha ricevuto negli anni di attività carceraria: «coloro che avranno la bontà e la pazienza di leggere queste lettere come se fossero scritti di un proprio “caro” vivranno l’ebbrezza di un percorso che, dai meandri di un’esistenza confusa, conduce verso una luminosa e solare scoperta: la fiducia nella vita, la fede ritrovata, la rinnovata capacità di essere onesti. Il goderne diviene forza ed entusiasmo anche per noi che, fuori dalla realtà carcere, crediamo di possedere il monopolio di ogni valore umano»(7). Le pagine scritte da suor Maria Lidia sono «intrise di desideri e speranze, dolore e amore, sogni e realtà, che rivelano come nulla possa cancellare la dignità dell’essere umano e la creatività del suo cuore. In ambiente così negativo e ostile quale il carcere oggi, è possibile riscoprire sentimenti come la sincera ricerca del vero senso della vita, della famiglia, l’amicizia, il bisogno di Dio, di donarsi agli altri.
Le lettere inviate a suor Lidia da quel luogo di fango e bellezza si offrono anche quale stimolo e provocazione rivolti all’azione pastorale della Chiesa, esplicitamente chiamata dal suo Signore ad “annunciare ai prigionieri la liberazione”»(8).
Nel libro le lettere sono state divise per settori, tra cui quello denominato “Introspezione: i bisogni immateriali” e quello denominato “Spiritualità: l’esperienza religiosa”. Da questi due capitoletti ne abbiamo estratti alcuni brani che proponiamo qui di seguito.
«Il mio sogno è di ritornare ad essere una persona normale… come ce ne sono tante… Ma anche se fallirò, il mio sogno e la mia speranza è e rimane solo questo» scrive Gerardo (9). E noi non sappiamo poi se poi Gerardo è ritornato ad essere una persona normale come era nei suoi sogni di detenuto.
Ma c’è anche Andrea che scrive a suor Lidia dicendole « (…) Vorrei partire dall’esperienza personale, perché la vita è una serie di scelte e decisioni personali e la responsabilità individuale non può essere delegata ad altri, come non è possibile che altri debbano ricercare la soluzione dei nostri problemi. Ogni uomo può scegliere il male o il bene, che sono dentro ognuno di noi. Evidentemente, quanto più chiaramente osserviamo la realtà, tanto più saremo capaci di affrontare le difficoltà e le insidie della vita. (…)»(10).
E Mimmo scrive sempre a suor Lidia queste parole: « (…) Il Dio nel quale io credo è un Dio interiore, che è in me e che può palesarsi solo nel mio animo, se la mia condotta è degna. Il Dio dei cieli come ricompensa, a mio parere, non è altro che un anticipo di serenità vissuta in un animo puro. Io vedo il Dio terreno nell’uomo degno, intelligente, buono, sincero, che, in mancanza di una prova più certa, è ben degno di rappresentare il vero Dio. Forse ho fatto un po’ di confusione, ma la prego di considerare il mio stato d’animo. (…)»(11).
E lo stesso Mimmo in un'altra lettera inviata sempre a suor Lidia sul fatto che discutere su Dio sarebbe bello scrive: «(…) Fermarsi a discutere su Dio sarebbe bello, ma comporterebbe il danno di trovarsi troppo indietro. Sono delle scuse e mi vergogno di formulare questi pensieri, ma che cosa devo fare? Tu sai che nessuno più di me avrebbe il diritto di credere in Dio. A me hanno insegnato che bisogna rispettare chi ci aiuta materialmente, chi ci può aiutare in maniera tangibile. Adesso che sono più cosciente, vorrei abbandonarmi meno a questa teoria del baratto. Però la situazione e la mia pena non lasciano spazio al misticismo e la mia stessa cultura non è che fredda ed esteriore. A chi non piacerebbe cullarsi nella speranza di un Dio giusto e buono? Ammetterai che ci vuole molto coraggio a credere in una pace futura, mentre si soffre nel presente. Allora, ormai non è un mistero, pensa di me, che sono un uomo di scarso coraggio, ma non privo di fede. Ricordi san Pietro? Nemmeno lui credeva di poter camminare sull’acqua. Dunque, se dubitava un uomo così buono, posso essere perdonato io, omino fino a ieri cattivo e incivile? (…)»(12).
Scrive Riccardo il suo ringraziamento alla suora dei miracoli, ovvero sempre suor Lidia, dicendo: «(…) Grazie per avermi fatto da Mosé, continuerò il cammino che ho intrapreso, grazie alla piccola suora dei miracoli. Voi siete una persona veramente speciale e sono orgogliosa di avervi conosciuto. Ringrazio la polizia che mi ha arrestato, il giudice che mi ha giudicato, sono sicuro che hanno fatto parte del disegno di Dio, per darmi in questo modo la possibilità di capire quanto era vuota la mia vita, quanto facevo soffrire i miei figli, mia moglie, chi mi vuol bene. Ringrazio costoro poiché nel carcere ho conosciuto suor Lidia e, tramite voi, il bisogno di cercare e di trovare Dio: adesso sono sereno, so che dentro di me è scattato un interruttore che non si staccherà più. (…)»(13)..
Scrive invece Vincenzo: «Io non so chi sono, mi dico maledetto e mi professo ateo. Non per questo ho rifiutato i tanti amici che la Chiesa mi ha regalato…
Ultima in ordine di tempo, la dinamica suor Lidia, persona vera come poche, che ho incontrato durante il viaggio sul treno della vita. “Cristo reclinò il capo con l’ultimo sguardo rivolto al mondo, dall’alto di una croce”»(14).
Scrive Adriano: « (…) Non ho mai dubitato che Dio fosse vicino a me anche se non prego più, la sua presenza è costante al mio fianco, lo vedo tutti i giorni, vedo la magnificenza del Creato. Ho fede che il mio domani sarà più radioso del presente (…)»(15).


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1 Opuscolo della Comunità
2 Ibidem
3 Ibidem
4 Dalla lettera che Giorgio Pieri ha scritto ai parroci.
6 “Volontariato: Poggioreale, cercando Dio tra le mura del carcere” in Avvenire del 20 luglio 2005
7  Dall’Introduzione del libro di suor Maria Lidia Schettino “Nostalgia d’innocenza” , edizioni Dehoniane Bologna 2005
8 Dalla scheda di presentazione dell’Ufficio Stampa delle edizioni Dehoniane di Bologna
9 A cura di suor Maria Lidia Schettino “Nostalgia d’innocenza” edizioni Dehoniane Bologna 2005
10 Ibidem p. 246
11 Ibidem p. 248-249
12 Ibidem p. 258
13 Ibidem p. 265-266
14 Ibidem p. 279-280
15 Ibidem p 304

domenica 23 dicembre 2012


>> L'islam entra in carcere <<
(7^ puntata)
>> Intervista a Mohammed Khalid Rhazzali <<

«”Una piccola moschea è regolarmente allestita presso la Casa circondariale di Prato, una sala di cultura islamica esiste a Ferrara ed un’apposita saletta per la preghiera è prevista a San Gimignano” informa il ministero della Giustizia. Valvole di sfogo spirituale di questo genere sono utili in tutte le carceri. E forse sarebbe meglio avere, al fianco dei 250 cappellani cristiani, degli imam ufficiali, preparati e moderati» (1).
Tutto ciò riportato tra virgolette qui sopra sarebbe necessario perché in effetti, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 gennaio 2009 i detenuti musulmani presenti nelle carceri italiane erano 9 mila 006 contro gli 8 mila 382 degli appartenenti ad altra religione e sul totale di 21 mila 891 detenuti stranieri. Vale a dire oltre il 40% del numero totale dei detenuti in Italia è musulmano.
Mohammed Khalid Rhazzali, dottore di ricerca in Sociologia dei processi comunicativi e interculturali presso l’Università di Padova nonché professore a contratto di Sociologia dei diritti umani presso la stessa università e docteur de recherche en Sociologie presso l’Ecole de Hautes Etudes en Science Sociale di Parigi, ha appena concluso una ricerca che è divenuta un libro (Franco Angeli editore) dal significativo titolo “L’Islam in carcere”. Con lui abbiamo fatto questa lunga chiacchierata-intervista proprio sulla realtà dei detenuti musulmani nelle carceri italiane.
Rhazzali, non tutte le carceri accettano l'imam all'interno della struttura, alcuni direttori hanno difficoltà a vedere quale, dal punto di vista formale e giuridico, dei tanti imam delle tante correnti islamiche dovrebbero fare entrare. Lei ha notato questa prima difficoltà?
«C’è un vuoto regolamentare, che però non è un vero vuoto perchè il principio dell'assistenza religiosa e spirituale c'è e vale per tutti.
Il problema va rinviato al rapporto tra tutte le comunità islamiche e l’amministrazione pubblica: per dirla in breve, sono vent’anni che i musulmani aspettano l'intesa tra lo Stato e le organizzazioni islamiche d’Italia. Anche se da una parte c'è una certa maturità, dall'altra parte tutto viene lasciato alle sensibilità dei singoli attori che operano in un territorio nazionale caratterizzato ormai da una certa differenziazione del welfare, dei diritti sociali, che però potrebbe risultare alla lunga rischiosa. Dunque se siamo ad esempio in Emilia Romagna, in Piemonte o anche in alcune parti della mia Regione, il Veneto, può darsi che si verifichino spontaneamente e in coerenza con certe tradizioni welfaristiche locali sensibilità e collaborazioni tra gli istituti penitenziari e il territorio circostante al di là dei formalismi»
Dipende allora da direttore e direttore?
«Esattamente, e dipende anche dalla collaborazione dei musulmani che sono in quella determinata struttura carceraria. Dipende anche dall’esistenza di un’associazione islamica o moschea in prossimità del carcere o nella città più vicina. Dipende dalla risorsa umana e materiale che tale associazione ha a disposizione da destinare al tema carcere. Trattandosi comunque di associazioni no profit, di volontari: bisogna vedere dunque se hanno le forze per occuparsi anche dei detenuti. Dipende dalla rete di relazioni che hanno sviluppato con le istituzioni e le associazioni laiche e religiose che lavorano all’interno del carcere».




In carcere c'è il cappellano cattolico che opera nella piena ufficialità. Come viene visto dal musulmano?
«Dipende dalla sensibilità del singolo cappellano. Però in linea generale il cappellano è ritenuto come uno degli operatori del carcere e quindi come una risorsa ulteriore anche per i musulmani. La cappella per alcuni (pochi), è un luogo di preghiera interconfessionale. Altri potrebbero meno sinceri e la frequentano per avere in cambio qualche aiuto».
Molto spesso si nota che il mondo cattolico tende ad inglobare, a voler in qualche maniera convertire. Certi atteggiamenti similmente le fa anche un certo tipo di fondamentalismo islamico? Lei ha trovato certe situazioni nelle carceri?
«Premesso che la tendenza a convertire le persone risulta in qualche modo come caratteristica di quasi tutte le religioni e non dei loro fondamentalismi. Le religioni spiegano le loro ragioni alle persone e se qualcuno si convince può aderire liberamente. Quindi non dobbiamo preoccuparci se qualcuno tenta di convertire qualcun altro. Caso mai occorre lavorare perché questo accada alla luce del sole e che le persone siano messe nelle condizioni di professare liberamente i propri culti e di convertirsi anche in altre direzioni nel corso della vita. E quindi è una faccenda paradossalmente tutt’altro che privata e deve essere discussa, decisa, elaborata pubblicamente. Perciò ritorna la rilevanza dell’intesa tra lo Stato e le confessioni religiose che stabilisce per legge funzioni e responsabilità. Il caso islam da questo punto di vista diventa un’urgenza a cui dare risposte nell’immediato. Ecco che quando parliamo del carcere siamo dinanzi a una delle istituzioni che fa i conti quotidianamente anche con la gestione religiosa dei musulmani. E il non prestare attenzione a questo aspetto rischia sì di essere un elemento su cui inventarsi un fondamentalismo islamico specifico delle carceri europei, una specie di “religione degli oppressi” che si occupa dell’assistenza religiosa. Nel caso specifico del nostra pianeta carcere in Italia, a parte quei sorvegliati speciali legati al terrorismo che uno un regime a parte, non è emerso dall’indagine che ho condotto gruppi cosiddetti fondamentalisti che si trovano lì con l’obiettivo di convertire delle persone in qualche ideologia islamista. Più meno si tratta spesso di detenuti che hanno commesso reati comuni con pene medie di due o tre anni e che si rivolgono alla religione cercando qualche risorsa: passatempo, qualche effetto terapeutico, contro l’avvilimento e lo smarrimento,… Ho trovato qualche gruppo che si aut-organizza attorno a questa tematica. Sono riuscito anche a intervistare un autoproclamato imam e più di qualche detenuto molto ingaggiato in questo senso, ma tutte le volte si tratta di persone slegate da qualche movimento, ideologia,… La cosa che colpisce è la conversione o ri-conversione spontanea dei giovani che si definiscono comunque musulmani senza però un accompagnamento di nessuno. C’era di qua e di là qualche convertito italiano (in un caso era romeno) e non mi sono occupato di tale tema che dovrebbe essere studiato a parte, ma in generale
convinti impegnati e semplici osservanti o convertiti si trovano a fare bricolage religioso per sopravvivere…».
Trova che anche nel carcere sia cambiato l'atteggiamento che c'era prima dell'undici settembre 2001 (cioè dell’attentato alle Torri Gemelle a New York) e quello di adesso?
«A questo proposito mi sono fatto raccontare dagli operatori carcerari: ebbene tutti quanti sono consapevoli che è successo qualche cosa dopo quella data, qualche cosa che ha cancellato anni di dialogo, ad esempio, interreligioso tra cristiani e musulmani, è come se si fossero azzerati tutti i rapporti positivi che c'erano tra istituti penitenziari e associazioni islamiche.
I linguaggi sono cambiati rispetto a prima e non c’erano le categorie del post-undici settembre 2001 che hanno influenzato negativamente qualsiasi politica che miri a valorizzare il dato religioso musulmano. Era quindi più facile che i musulmani e gli altri si confrontassero sull'opportunità dell'assistenza spirituale o religiosa in carcere, vista anche in tutta la sua efficacia riabilitativa.
Ho interpellato anche degli imam circa la loro attività nelle carceri. È emersa però una figura di imam specifica del contesto europeo che si configura su di versi campi del sociale. L'assistenza religiosa, anche in altre istituzioni (ospedale, caserme,..), e altre funzioni tipiche del sociale (mediazione istituzionale e di prossimità) risultano essere sempre di più campi in cui l’imam si trova coinvolto, ma non si potrebbero collocare in qualche tradizione teologica islamica. Tuttavia, e il caso ce lo dimostra, la tradizione teologica islamica si trova in coerenza con i propri principi che le permettono, mediante il concetto di al-Ijtihad al-‘Aqli (lo sforzo intellettuale), di rivedere in continuazione il suo rapporto con il presente e il futuro. Da questo punto di vista l'islam è molto flessibile ed è capace di “inventarsi” degli istituti legati ai tempi ed ai territori in quei i fedeli si trovano».
Come vive il detenuto islamico la propria condanna? Con pentimento e contrizione? Come un macigno nella coscienza? Viene anche escluso dalla comunità islamica?
«I musulmani si comportano ovviamente come tutti gli altri detenuti. I musulmani in quel contesto devono fare anche loro i conti con la loro identità di detenuto. Musulmano e detenuto può risultare una combinazione positiva al fine del proprio recupero, sia per sé che per la collettività. Questo però dipende da quello che si dice e si pensa, da una parte, sulla prigione e dall’altra, sui musulmani. E qui non è escluso nessun attore sulla scena pubblica. Anche le organizzazione islamiche sono responsabili, un po’ perché mancano le cornici istituzionali e i finanziamenti e un po’ perché la condanna sociale potrebbe essere interpretata come divina e, quindi, da questo punto di vista ha poco da fare la comunità islamica. Invece del pentimento, che emerge con forza dai racconti di giovani detenuti e che a volte si combina con una strana relazione con il Maktub (il destino), ci potrebbe essere del risentimento che a seconda di chi ci si trova davanti, spingerebbe alcuni a sviluppare discorsi che la fanno facile e identifichino nella propria condanna il loro perseguimento in quanto musulmani.
Tuttavia, il carcere si configura come un “mondo parallelo”, un “mondo in miniatura”, gli stessi dibattiti che si fanno fuori si riproducono nel carcere. Il carcere però ci insegna che tutte le dinamiche sociali si portano all'esasperazione. Alla stessa maniera di come si vive fuori, anche lì si comunica, si vive e ci si trova attraverso la tv (i detenuti guardano moltissima tv) dentro i medesimi processi, però i carcerati sono ovviamente più condizionati nel loro modo di interpretare, di elaborare, e rischiano dinanzi a delle chiusure di perdere tale capacità che li serve anche per uscire e per riscattarsi. Questo succede normalmente con tutti. E in cosa sono diversi allora i musulmani rispetto agli altri? La domanda è retorica. La religione per tutti può essere una risorsa dentro il carcere, una risorsa a cui attingere per resistere contro gli assalti dell’istituzione totale. Tuttavia, si può osservare presso i musulmani una certa specificità per ciò che riguarda la dimensione della religiosità; che potrebbero sembrare più inclini alla religiosità o più attaccati alla tradizione religiosa, ma questo risulta dalla letteratura in questione come l’esito di politiche identitarie che hanno costringono chi non ha strumenti conoscitivi, chi non ha potere politico, a ridurre, a schiacciare, la complessità del rapporto con la propria identità, o le proprie identità, sul versante religioso. Insomma, ai musulmani, migranti o non, di vecchia e nuova generazione, carcerati o non, è stato detto negli ultimi vent’anni che la vostra identità di musulmani è poco integrabile con il resto delle dimensioni della vita sociale, culturale e politica. Da queste retoriche è scaturita una violenza, sostenuta anche da alcune forze politiche, che rischia di convincere i musulmani di adattarsi al proprio stereotipo, ad arroccarsi, ad essenzializzare la loro esperienza religiosa».
Che siano musulmani o meno, può essere che i detenuti siano depressi e che magari possano esserci dei suicidi. C’è una richiesta verso l’esterno di aiuto e di ricerca di spiritualità per, in qualche modo, redimersi e riscattarsi?
«Sì, il tema dei suicidi ha dimostrato che tale fenomeno non risparmia nessuno. Gli ultimi dati presentano uno scenario in cui si muore interculturamente di carcere: ricorrono al suicidio musulmani e cristiani, tunisini e romeni, nigeriani e italiani. Vi è già un’ampia letteratura che insiste su un intreccio di fattori (sovraffollamento, maltrattamento) esterni e la correlazione tra questi e l’aumento del tasso di suicidio. In questa prospettiva, risulta arduo parlare per ragioni legate alla nostra storia politica laica di spiritualità o di religione come soluzione o strumento che possa attenuare tale fenomeno. Questa in parte è stata la mia premessa nel mio studio, cioè rimettere in discussione la rilevanza o irrilevanza del religioso nel contesto carcerario e nella contemporaneità in generale. I carcerati esprimono con forza questo bisogno (religioso) e se questo per alcuni può risultare regredivo, ciò va analizzato e preso sul serio.
Quali sono le problematiche generali che sentono di più i musulmani nel carcere? E’ proprio solo la religione, la preghiera, la moschea oppure il permesso di soggiorno, il procurarsi il cibo o trovare lavoro quando usciranno da quella struttura?
«Bisogna distinguere. Ci sono i musulmani italiani, incluse anche le seconde generazioni che non si trovano ad avere i problemi legati al permesso di soggiorno. Poi c’è l’islam migrante che deve fare in conti con le dinamiche migratorie, le leggi e la condizione giuridica in cui si trovano. I musulmani, da questo punto di vista, hanno gli stessi problemi di un altro straniero: l’espulsione o la clandestinità dopo la conclusione della pena.
Altra cosa è invece l’istituto penitenziario, che ha una sfida da affrontare legata al futuro della società italiana e quindi anche alla pluralità culturale e religiosa presente in tutte le sfere pubbliche di questa società. Quindi non bisogna lasciare da soli gli istituti di pena a gestire la complessità da un punto di vista discrezionale. Questa sfida è un tema di grande attualità sempre all’ordine del giorno dove le istituzioni hanno sempre bisogno di modelli operativi e di una legislazione chiara. Faccio l’esempio del dare o meno da mangiare la carne halal (dove cioè l’animale è stato macellato secondo le norme della legge islamica): la carne halal non viene data o viene data a seconda delle diete ed a seconda delle risorse che si hanno all’interno della singola struttura penitenziaria. E’ ovvio che gli istituti sono interessati in linea di principio a queste tematiche perché sono interessati a mantenere l’ordine dentro il carcere e non. Ma questi dibattiti devono essere svolti altrove, non ci può essere una negoziazione a livello locale, anche se in realtà ogni carcere rispetta le leggi e i regolamenti e tutti risultano essere in linea con i principi costituzionali.
Ci sono delle buonissime pratiche nelle carceri ma il problema è: la politica cosa sta facendo per i problemi del carcere? Non si può demandare tutto alla sensibilità o meno del singolo direttore. Diciamo che non c’è chiarezza e non ci sono modelli operativi. Dal punto di vista del rispetto della religione nel carcere la maggior parte dei musulmani praticanti dicono che ci sono delle buone pratiche e c’è il rispetto, anche da parte delle guardie».

(1) F. Biloslavo, “Dagli imam fai-da-te proselitismo in carcere, boom conversioni ... all'islam” in http://hurricane_53.ilcannocchiale.it/2010/05/28/dagli_imam_faidate_proselitism.html

domenica 16 dicembre 2012


>> L’Islam entra in carcere<<

(6^ puntata)





E’ alquanto curioso che «in carcere c'è la cappella cattolica ma non c'è la moschea, in una situazione dove il 35% della popolazione detenuta è di religione musulmana» (1)
Se per i cattolici l’ordinamento penitenziario prevede la cappellania e quindi la figura del  cappellano del carcere, ci può essere invece qualche difficoltà per chi crede in un altro Dio  come, ad esempio, i musulmani. Le difficoltà le hanno proprio gli imam islamici ad incontrare i detenuti appartenenti alla fede di Allah: «al momento entrano solo negli Istituti di Firenze, Secondigliano, Brescia, Milano, Roma Rebibbia e Roma Regina Coeli»(2).

Invece a Torino i musulmani hanno delle difficoltà ad entrare per l’assistenza carceraria. «Con i musulmani le cose si complicano un po’ - spiegava  l'allora  direttore della struttura Pietro Buffa - perché potremmo avere dei problemi nel riconoscimento dell’ imam. In ogni caso basta che facciano richiesta di entrare come assistenti volontari ai sensi dell'articolo 17 dell’ordinamento penitenziario e sarà il Dap a provvedere al loro riconoscimento»(3).

Eppure al carcere Lorusso e Cotugno, conosciuto da tutti come «Le Vallette», possono entrare senza problemi sia i buddhisti di una particolare comunità che i preti ortodossi.  Anche se l'articolo 36 dell'ordinamento penitenziario parla chiaro: i detenuti di credo  diverso dal cattolicesimo hanno il «diritto di ricevere, su loro richiesta, l'assistenza dei  ministri del proprio culto e di celebrarne i riti».

Ci deve però essere una soluzione. Soluzione che è stata trovata dal Dipartimento  amministrativo penitenziario con una circolare del 1997 che «stabiliva con il Ministero  dell’interno una procedura che prevede l’individuazione da parte della direzione dell’istituto del ministro di culto, la comunicazione delle sue generalità all’Ufficio Centrale Detenuti e Trattamento, l’acquisizione dal Ministero dell’interno del parere di rito per rilasciare l’autorizzazione all’accesso»(4). Circolare poi confermata da quella del 2002 che chiedeva inoltre di «specificare anche la moschea o la comunità di appartenenza dell’imam e di comunicare alla Direzione Generale i nominativi di tutti i rappresentanti di fede islamica autorizzati all’ingresso nelle carceri, anche ai sensi dell’art.17 dell'ordinamento penitenziario»(5)



Nel carcere di Bollate la direttrice Lucia Castellano dice: «in ogni reparto abbiamo  moschee attrezzate di tappetini e corani, e rispettiamo il ramadan e la festa del sacrificio. Al momento nessun detenuto ha mai chiesto l'ingresso di qualcuno di esterno e a fare da imam è uno di loro»(6) 
«Spiega il direttore della Casa Circondariale di Verona, Salvatore Erminio: “I ministri di  culto vengono indicati dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, alcuni entrano e  altri no”. L'istituto veronese in passato ha ospitato un rappresentante buddista, ed entrano senza problemi sia dei Testimoni di Geova che un prete greco ortodosso e uno rumeno.  Continua il direttore: “i preti ortodossi hanno magari difficoltà nell'utilizzo della Chiesa  visto che i loro riti sono diversi, ma possono svolgere attività di intercultura e incontrare i detenuti in colloquio. Da quando sono io il direttore – ossia da almeno sei anni - non ho  ricordi che sia invece mai entrato nessun ministro di culto musulmano”. A questo proposito il portavoce del consiglio islamico di Verona, Mohsen Khochtali  dichiara: “Nel 2007 abbiamo fatto richiesta per entrare in occasione di grandi festività o per dei colloqui, ma l'esito è stato negativo. Per noi sarebbe importante parlare con chi è dentro per incoraggiarlo a cambiare vita, a non sognare e cercare di trovare un lavoro onesto una volta fuori”»(7)
Nel carcere di Verona, dove circa il 70 per cento di detenuti è straniero, il cappellano  cattolico don Maurizio dice: «la convivenza tra le varie religioni è buona, vengono a messa un po' tutti e persino qualche musulmano non si nega questa possibilità»(8)mentre però la maggior parte dei musulmani prega nelle proprie celle o nei corridoi: in occasioni particolari come il mese di ramadam viene messa a loro disposizione la palestra. Lo stesso cappellano dice anche che «Algerini e marocchini sono più convinti, scrivono in arabo e leggono il Corano. Indossano le loro tuniche ma solo per pregare nelle celle. Se qualcuno chiede di conoscere meglio il Cristianesimo potrebbe però essere guardato con sospetto dai più fanatici»(9)
.




In sostanza «un immigrato di cultura musulmana non trova più spazio per viversi come "soggetto di Allah": Non dimentichiamo che per il mondo musulmano la religione è  presente in tutti i momenti della vita quotidiana; non c'è la separazione tra sacro e profana  che anche un cattolico italiana vive nelle relazioni sociali. La situazione carceraria  riproduce l'aspetto totalizzante dell'islam ma negando l'esistenza di quest'ultimo»(10).
Non dimentichiamoci poi che «Michel Foucault ha spiegato molto bene in “Sorvegliare e punire” come il carcere produce una vera “tecnologia di controllo sul corpo e l'anima del  detenuto”: Cosa significa questo per un musulmano che non vive la separazione sacro- profano e viene negato come “spiritualità”»(11).

*****
«”Una piccola moschea è regolarmente allestita presso la Casa circondariale di Prato, una sala di cultura islamica esiste a Ferrara ed un’apposita saletta per la preghiera è prevista a San Gimignano” informa il ministero della Giustizia. Valvole di sfogo spirituale di questo genere sono utili in tutte le carceri. E forse sarebbe meglio avere, al fianco dei 250 cappellani cristiani, degli imam ufficiali, preparati e moderati»(12).
______________________
(1) A. Goussot, “Carcere, mediazione, immigrazione: problematiche” , in Progetto regionale: Sportelli informativi e mediazione per detenuti negli Istituti penitenziari della regione Emilia Romagna. Seminari formativi rivolti agli operatori penitenziari. Materiale di studio e di discussione
(2) Sito internet www.innocentievasioni.net
(3) Ibidem
(4)Ibidem
(5)Ibidem
(6)Ibidem
(7)Ibidem
(8)Ibidem
(9)Ibidem
(10) A. Goussot, “Carcere, mediazione, immigrazione: problematiche” , in Progetto regionale: Sportelli informativi e mediazione per detenuti negli Istituti penitenziari della regione Emilia Romagna. Seminari formativi rivolti agli operatori penitenziari. Materiale di studio e di discussione
(11) Ibidem
(12) F. Biloslavo, “Dagli imam fai-da-te proselitismo in carcere, boom conversioni ... all'islam” in http://hurricane_53.ilcannocchiale.it/2010/05/28/dagli_imam_faidate_proselitism.html


lunedì 10 dicembre 2012


>> L’esperienza interreligiosa di Alberto e Marialuisa Milani 
volontari A. Vo .C  (Comunità di base di Bologna) <<

(5^ puntata)




Sono ormai dieci anni che abbiamo scelto di dedicare una parte significativa del nostro tempo, alle persone ristrette in carcere, in qualità di volontari dell’Associazione A.Vo.C. di Bologna, ma sempre, quando siamo interpellati, sulle attività che promuoviamo, dobbiamo affrontare la difficoltà di selezionare le cose da dire, tra le molteplici emozioni che abitano la nostra mente e il nostro cuore.
Ogni incontro in carcere è sempre segnato dalla sofferenza di verificare lo stato di disumanità nel quale vivono le persone, a causa del sovraffollamento, della mancanza di operatori, del nulla e del disimpegno in cui i detenuti sono costretti a vivere.
Con tutti i volontari poi condividiamo il disagio di poter incontrare un numero talmente esiguo di persone, rispetto alla totalità delle presenze, che pur non impedendoci di continuare il nostro impegno, ci obbliga a rendere nota questa realtà.
A Bologna ci sono attualmente 1184 persone appartenenti a paesi, etnie, religioni diverse e anche questo ci ha profondamente interrogati. Nella nostra Associazione, attiva in carcere da oltre 30 anni, le prime attività, che sono state proposte sono stati


I gruppi della lettura del Vangelo” che ancora continuano i loro incontri, aprendo la partecipazione a tutti (i gruppi sono frequentati regolarmente anche da persone di altra fede)
Noi, pur avendo sempre scelto, nell’arco della nostra vita, “la fiaccola della parola del Signore per illuminare i nostri passi” abbiamo deciso di andare in carcere laicamente sollecitati da “ ..ho gridato e Allah, che ha sentito le mie grida, vi ha mandato…” come ci ha scritto Mazuz, e abbiamo dato vita ad un programma di Cineforum, che svolgiamo, con un gruppo di uomini e separatamente. con un gruppo di donne.
Fin dai primi incontri ci siamo resi conto, che ai nostri cine-forum, c’era sempre un’ alta presenza di islamici (su 1184 detenuti, 600 sono di fede islamica) quindi abbiamo sentito l’esigenza di tenerne conto, anche nella programmazione dei film e nelle diverse ricorrenze dell’anno (Ramadam, Natale ecc )
Abbiamo così dedicato gli appuntamenti, prossimi alla fine del Ramadam, ad una ricognizione dei pilastri della fede Islamica, e parimenti alla centralità dell’annuncio del Vangelo in occasione del Natale, con successive proiezioni di film che toccavano le tematiche (“Ibraim e i fiori del Corano”, “Viaggio a Kandahar”,” I cento chiodi” ecc).
Sono state e sono esperienze veramente toccanti, capaci di far sentire ad ogni soggetto la gioia di appartenere, con pari dignità, alla propria fede e soprattutto volte al riconoscimento che, tutti apparteniamo alla grande famiglia umana, che rivolge la propria invocazione all’unico Dio. Esperienze concrete, volte a suscitare l’impegno di ciascuno, nei confronti del fratello in difficoltà, nel “qui ed ora” durissimo, del carcere, dove ha un senso cercare Dio, nello sguardo del fratello, nella sofferenza di chi sta condividendo quotidianità di solitudine, di abbondano, di estremo disagio.
E il nostro piccolo impegno ha “contaminato” positivamente molti, promuovendo sensibilità prima decisamente assenti tra i così detti “buoni”.
Quest’anno l’ A.Vo.C. ha donato a tutti coloro che avevano partecipato al Ramadam, un sacchetto di dolci,unito agli auguri, per esprimere vicinanza alla festa dei fratelli islamici.
Per il terzo anno in collaborazione col cappellano, con rappresentanti di fede ortodossa, protestanti e evangelici, mediatrici culturali di fede islamica, abbiamo promosso, anche in carcere, la Giornata del dialogo cristiano-islamico.
Gli incontri di preghiera si sono svolti in due giorni, perché, per le caratteristiche del carcere, (problemi di sicurezza, divieti di incontri ecc.) abbiamo organizzato sei momenti che hanno coinvolto un gran numero di persone, appartenenti anche ad altre esperienze di fede.
Non è certo possibile sintetizzare in poche righe , le emozioni dei diversi incontri, realizzati nelle sezioni o nei singoli bracci, ma certamente in quei momenti, abbiamo anche noi sentito “il soffio di Dio, nell’alito del vento”
Ci è rimasto nell’animo il silenzio del raccoglimento, abitato dal richiamo alla preghiera del musulmano, che in tunica bianca, rivolto verso oriente, ha fatto vibrare nell’aria le note del suo canto. Note raccolte da fedeli di altri bracci , da volti invisibili, che, da dietro le sbarre, hanno risposto al richiamo.


E nello stesso raccoglimento è risuonato il Salmo di Davide scelto dalle componenti cristiane (cattolica, ortodossa ed evangelica ) per celebrare il tema proposto dai promotori della giornata del dialogo “Amare la terra e tutti gli esseri viventi“:
Poi la Sura Apriente e la lettura della Sura LV, lette in arabo dal Corano e condivise poi in italiano. E a seguire una preghiera letta da una buddhista e il cantico delle creature condiviso da tutti.
Non sono mancate le commosse preghiere spontanee di volontari e detenuti e la recita del Padre nostro nelle lingue delle persone presenti. Infine l’invito ad essere costruttori di pace di giustizia formulato per la prima volta il 27 ottobre 196 ad Assisi, dai rappresentanti di tutte le religioni.
E perché, nel cuore di ognuno, restasse il gioioso ricordo della comune preghiera abbiamo concluso donando ad ogni partecipante la poesia di Nazim Hikmet “Non vivere su questa terra“ per prenderci cura della terra, ma soprattutto dell’uomo.

venerdì 7 dicembre 2012


>> Il Buddhismo entra in carcere <<

(4^ puntata)




Dalla lettera di un detenuto:
«Il buddhismo mi sta insegnando a guardare tutto ciò che avviene nella mia vita in modo differente da quello al quale ero abituato.
Io sono il creatore della mia sofferenza così come della mia felicità.
Sono felice che il buddhismo sia parte della mia vita. Il buddhismo mi ha conferito dignità, coraggio e onore».

*****

«Spesso mi e’ stato detto che la prigione e’ uno stato della mente. Questa affermazione non e’ mai stata così vera come da quando ho incontrato il Dharma e realizzato che la mia stessa mente mi tiene incarcerato molto di più di quello che qualsiasi prigione abbia mai fatto o farà».
Rob Cummins, Karnet Prison Farm,
Western Australia:

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«Anch’io voglio essere una persona dal cuore gentile e sempre felice. Per questo motivo voglio studiare e imparare».
Joseph Chiles

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«Il Liberation Prison Project (Progetto Liberazione nella Prigione) nasce negli Stati Uniti nel 1996 grazie alla fondatrice e attuale direttrice esecutiva Ven. Robina Courtin. “Lo scopo del progetto non è quello di rendere le persone buddhiste; è di aiutarle a sviluppare il loro potenziale umano” - Ven. Robina Courtin offre consigli spirituali e insegnamenti, così come libri e materiale vario, a persone in carcere che sono interessate ad esplorare, studiare e praticare il buddhismo.
Dalla data della sua fondazione Liberation Prison Project si è preso cura dei bisogni spirituali di circa 20.000 detenuti insegnando presso gli istituti carcerari; attraverso la corrispondenza epistolare; offrendo libri e materiale gratuitamente; fornendo corsi per corrispondenza; pubblicando una newsletter; sostenendo i cappellani e le librerie delle carceri; collaborando con altre organizzazioni a progetti di volontariato nelle carceri; sostenendo i detenuti anche nella fase di transizione che subentra al momento del rilascio garantendo così la continuità del sostegno e la formazione di una comunità aperta tra gli studenti al di fuori del carcere.
Il Progetto Liberazione Nella Prigione nasce qui in Italia dal desiderio di ampliare Liberation Prison Project, con l’obiettivo di portare nel nostro paese i grandi benefici che il progetto ha già diffuso in svariate parti del mondo, tra cui negli USA, in Australia, Spagna, Messico, Mongolia, Italia, e Nuova Zelanda.
Lo scopo del progetto è quello di aiutare le persone a sviluppare il proprio potenziale umano, senza nessuna volontà di renderle buddiste; si tratta di offrire ai detenuti strumenti di sviluppo personale e conoscenza di sé, quali la meditazione nelle sue differenti declinazioni, l’auto-osservazione e l’elaborazione di temi psicologici e filosofici rilevanti all’interno del contesto carcerario.
Tra i benefici riscontrati con questi metodi, si ricorda la diminuzione o la dissoluzione dei conflitti individuali ed interpersonali e la modifica di abitudini comportamentali, aspetti supportati dall’elevazione della mente e del cuore verso l’interiore potenziale di compassione e saggezza raggiungibile da chiunque, senza alcuna discriminazione.
In Italia siamo attivi con corsi settimanali presso cinque istituti carcerari (Massa, Bollate (MI), Spoleto, Gorgonia), e siamo in contatto con altre carceri al fine di organizzare dei corsi presso i loro istituti. Abbiamo donato libri ai detenuti e anche a svariate biblioteche all’interno delle carceri. Abbiamo ricevuto lettere e instaurato rapporti di corrispondenza con alcuni detenuti.
Il Progetto Liberazione Nella Prigione è un progetto dell’Istituto Lama Tzong Khapa associato alla Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana e inoltre collabora con altre associazioni al fine di creare una rete di volontariato in carcere che si occupa di diffondere la meditazione e altre tecniche attinte dalla tradizione buddhista per migliorare il benessere psico-fisico dei detenuti .
L’Istituto Lama Tzong Khapa é uno dei più grandi e più attivi centri di Buddhismo tibetano della tradizione Ghelug in occidente. Fondato nel 1977 da Lama Thubten Yesce e Lama Thubten Zopa Rinpoce, é membro della Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana (FPMT) e dell’Unione Buddhista Italiana (UBI). L’ILTK é particolarmente conosciuto e apprezzato per il valore dei suoi maestri, sia residenti sia ospiti, così come per i suoi articolati corsi di studio. Questi comprendono il Masters Program di studi buddhisti in Sutra e Tantra, di livello avanzato, il Basic Program, di livello intermedio, e Alla Scoperta del Buddhismo, di livello introduttivo. L’ILTK é altrettanto noto per gli insegnamenti di Dharma tenuti nei week-end durante tutto l’arco dell’anno. Il loro unico scopo é favorire una profonda trasformazione della persona, che porti al loro più elevato grado di sviluppo le qualità umane dell’amore, della compassione e della saggezza, fino allo stato della perfetta illuminazione. (fonte: www.iltk.it)

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 Intervista a Grazia Sacchi, volontaria del Progetto Liberazione Nella Prigione presso la Casa di Reclusione di Milano-Bollate
(Nota Bene: in rosso, le risposte dei membri del suo gruppo in carcere)

Secondo lei c’è sete di spiritualità e religiosità nei carcerati?
«Dipende dalle carceri e dai singoli reparti; per quanto riguarda la mia esperienza, ritengo che in alcune persone ci sia una gran sete di spiritualità, un gran desiderio di guardarsi dentro per andare oltre. Teniamo presente che un detenuto ha parecchie ore libere a disposizione, ha modo e tempo di riflettere e tale riflessione può essere a volte sconvolgente. Il vettore spirituale diventa un’ancora di salvezza, può dare un senso alle considerazioni pessimistiche e aiutare a svoltare pagina. Forse meno sete di religiosità, nel senso formale e strutturato del termine, oppure si tratta di una pratica religiosa strumentale (“Ti prego, fammi uscire da qui…”!) che poi non viene proseguita fuori dalla prigione».

Perché un detenuto si avvicina al buddhismo…?
«Il buddhismo che viene presentato nelle carceri dal nostro gruppo è un buddismo laico, si tratta dello studio filosofico-psicologico della mente, del suo funzionamento e la diffusione di valori etici universalmente condivisi. In questo senso, viene spesso accostato nella sua dimensione psico-filosofica;
si tratta della sola religione che ha approfondito questa tematica, le altro non lo fanno…. Ha permesso di analizzare la mia vita, eliminare la collera e la rabbia, i rimorsi, ha evitato di farmi vivere nel passato per farmi diventare una persona migliore»

Quale la sua utilità e lo scopo per un carcerato?
«Così come viene presentato fornisce suggerimenti di vita quotidiana molto pratici, condivisibili, quindi un aiuto concreto nella realtà di tutti i giorni.
Da quando seguo il corso sono aumentate le mie qualità: io già sono una persona paziente ed ora lo sono di più, perdo meno facilmente il controllo rispetto a prima e le mie discussioni sono semmai solo verbali. In carcere ci vuole molta pazienza, soprattutto con i propri compagni di cella: la cella è il luogo migliore per mettere in pratica ciò che si ascolta e si studia, una palestra ottimale, un piccolo mondo. Ho preso consapevolezza di tante cose e ho imparato a trasformare i problemi in soluzioni….
Qui in carcere si vive la vita in modo diverso, si è lontani da tutti: il buddismo mi ha aiutato ad un cambiamento interiore per vivere meglio questa realtà, ho superato tristezza, rabbia forte e difficoltà quotidiane, non che non ci sono più, ma le vivo in modo diverso»

Perché il vostro istituto ha deciso di entrare nelle carceri?
«Per rispondere ad esigenze importanti di crescita personale. Esiste un versante del buddismo, il cosiddetto “buddismo impegnato”, diffuso in luoghi di disagio sociale, di malessere psico-fisico o di accompagnamento ai morenti. Si tratta di compassione in azione. Le carceri sono da sempre un luogo di dolore, ma anche di possibile crescita e miglioramento, dipende da come si guarda la questione».



In che condizione psico-fisica e morale avete trovato i carcerati?
«Il carcere che frequento è un carcere modello in Italia ed in Europa, si tratta della casa di reclusione di Milano Bollate, ad elevato regime tratta- mentale. Per questa ragione, differentemente da altre realtà, le condizioni globali dei detenuti sono migliori. L’elevata attenzione alla riabilitazione determina un clima più attivo: i detenuti sono molto impegnati nelle varie attività, hanno pochi tempi vuoti, sono molto stimolati. Ciò conduce a creare stati morali più alti, anche se l’abbattimento psicologico è molto forte e l’umore depresso o arrabbiato ancora intenso. Ci sono altresì manchevolezze e disattenzioni dal punto di vista fisico-sanitario, anche se la cura in tale senso e delle condizioni igieniche è senz’altro buona».

Il detenuto ha comunque commesso un reato…serve questo come luogo di rieducazione così come è strutturato?
«In parte ho già risposto a questa domanda. La prigione, così come è strutturata nella maggior parte dei casi, non serve come luogo di rieducazione; si tratta di passare da una mentalità di carcere punitivo ad una visione di carcere trattamentale, dove si possano fornire strumenti per far sì che le persone credano al loro potenziale positivo. Il carcere è un luogo di riflessione, per tutti: invece di sviluppare un riflessione centrata sulla rabbia, sulla ritorsione, sulla paura, è meglio sviluppare una riflessione di consapevolezza rispetto ai comportamenti commessi, un lavoro di evoluzione del rimorso e quindi un’apertura ad una vita diversa. C’è si la possibilità di cambiare, magari non è alla portata di mano per tutti, per alcuni è più impegnativo, ma è possibile».

Come ci si può liberare quando si è in prigione, così come recita il vostro progetto?
«Si tratta di una liberazione interiore, al di là delle mura. E’ possibile vedere il cielo e non solo le sbarre».

Una vostra consorella, coordinatrice del vostro progetto in Australia, dice che «Il Buddhismo è lavorare sulla trasformazione della mente. Quindi fornisce loro strumenti e metodi per osservare effettivamente ogni singola situazione che sorge nella loro mente e per utilizzarla come meditazione». Le chiedo: su cosa si può meditare?
«Si può riflettere sugli sbagli commessi, sul perché si è stati accusati, giustamente o ingiustamente, sulle conseguenze delle nostre azioni. In ogni caso, lavorare sulla consapevolezza fa bene, fa crescere; anche se si fosse condannati a morte, si va incontro alla morte in modo più sereno, con delle capacità diverse».

Il Dalai Lama dice che «il buddhismo è incentrato sulle nozioni di pena e sofferenza, di gioia e di felicità». Come vi avvicinate al singolo detenuto proponendogli questi insegnamenti? Come si fa a convincere il detenuto che è necessario vivere ma anche soffrire? Visto poi che la vita lì, dentro alla propria cella sovraffollata ed in condizioni a dir poco disumane, sembra non aver nessun senso, nessuno scopo?

«La vita ha un senso ed ha uno scopo, è preziosa di per sé, indipendentemente dal fatto di vivere in una cella; innanzitutto queste persone prima o poi usciranno dal carcere e quindi dovranno tornare nella vita “normale”. Se mentre sono dentro possono imparare a sviluppare competenze positive e qualità positive dell’essere, fuori saranno individui diversi. E anche all’interno del carcere possono essere diversi fra di loro, più umani, disponibili e quindi irradiare di amore e consapevolezza luoghi bui. La sofferenza può essere sanata, va nutrita per essere trasformata».

Come si fa ad evitare suicidi in carcere?
«Innanzitutto modificando il sistema della giustizia e le condizioni ambientali: in certe situazioni non umane è facile meditare un suicidio. Una mente instabile e fragile trova le condizioni migliori per eliminare il corpo. Il sistema giudiziario è lento e problematico: gran parte dei suicidi sono di persone in attesa di giudizio e questo è un dato che deve far riflettere. Il carcere trattamentale deve essere attento alle richieste psicologiche degli individui che non devono essere sottovalutate; va aumentato il personale psicologico, gli psicologi nelle carceri sono ancora troppo pochi. Il carcere deve essere umanizzato e vanno riconosciuti i diritti dei detenuti».

Voi tenete anche una corrispondenza fatta di lettere con i singoli detenuti? Che cosa vi scrivono?
A questa specifica domanda risponde Livia Pecci, insegnante per corrispondenza

«Sì, alcuni di noi si occupano di corrispondere con alcuni detenuti, ma soltanto nel momento in cui siano loro a richiederlo. Si tratta di quelle persone che hanno deciso di conoscere in modo più approfondito il Buddhismo, e dunque, oltre che fornire loro dei testi, partendo da una dispensa di base fino a testi più specifici, gli viene data, appunto, la possibilità di essere seguiti individualmente da un volontario che corrisponderà con loro. Almeno inizialmente non c'è una conoscenza diretta, quindi il contatto è solo epistolare. I temi centrali di cui si tratta sono, essenzialmente, temi inerenti il Dharma, cioè l'insegnamento di Buddha Shakyamuni, però, inevitabilmente, ci vengono riportati anche fatti della loro vita, ciò che gli accade in carcere, e ci parlano anche dei rapporti con le loro famiglie e delle loro ansie, angosce e sensi di inadeguatezza e di sconforto. Noi tentiamo di rispondere un po’ a tutto, nei limiti delle nostre capacità, inquadrando le nostre risposte o suggerimenti nell'ambito del pensiero buddhista. Cerchiamo, in sostanza, di dar loro la possibilità di vedere le problematiche da una diversa angolazione, che magari finora non avevano mai considerato, quella della possibile trasformazione interiore indicata dal Buddha»

Come sono i rapporti vostri con i familiari di chi sta in carcere?

«Non abbiamo rapporti con i familiari; in carcere nessun volontario può avere contatti con familiari, avvocati, ecc. per ragioni di coinvolgimento personale e pulizia del setting. Il nostro progetto si rivolge solo ai detenuti e agli ex detenuti, ovvero alle persone che hanno seguito il progetto durante la detenzione e che vogliono proseguire anche una volta scontata la pena.
Penso che il beneficio che portiamo ai detenuti influenzi positivamente anche le loro famiglie. Spesso i detenuti ci parlano del miglioramento del rapporto con i loro familiari, del risanamento dei conflitti, dell’aiuto tramite la preghiera e la meditazione che si sentono di poter ora donare ai loro cari. Se sboccia un fiore, è primavera in tutto il mondo».



Estratti da lettere di detenuti che seguono il progetto buddhista
« (…) Tutte le sere, dopo aver fatto la mia meditazione, chiedo a Buddha di poter essere il suo canalizzatore di amore e di poter aiutare il prossimo. (…)»
« (…) So che tutto è impermanente e che il cambiamento, nonostante porti sofferenza, è necessario per imparare a non sbagliare più. (…)»
« (…) Mi rendo conto che il mondo soffre e in me si accresce la voglia di fare qualcosa di buono per esso; ultimamente sto meditando sul fatto di ‘scambiare se stessi con gli altri’, l’insegnamento che dette Buddha a Manjushri. (…)»
« (…) E’ con grande gioia che sto vivendo questa mia ripresa, giorno per giorno l’energia vitale si sta rigenerando e la rabbia residua svanisce. Le sue impronte devono essere purificate, ma la collera, quella cattiva ed impulsiva, si sta piano piano esaurendo. Leggo sempre i testi sul Buddhismo, ogni giorno, e cerco di praticare gli insegnamenti ed i consigli nel quotidiano. Cerco di praticare l’equanimità nei confronti degli altri detenuti e delle guardie. Questo mi aiuta tanto ad essere più sereno ed a vivere meglio con gli altri. Sto cominciando a non lamentarmi più e a non fare polemiche, vivo con più integrità, senza troppi conflitti. Mi sto rendendo conto delle sterili proteste e di quell’attaccamento alle proprie idee, che sembravano monoliti di granito. (…) »
« (…) Ho constatato di persona cosa sia la legge del karma: ho capito che bisogna piantare semi buoni per raccogliere frutti buoni. (…) »
« (…)Mi fa male la rabbia, è la mia vera afflizione mentale. Però, anche nei momenti più brutti, mi faccio forza e non abbandono il Dharma. E’ proprio in quei momenti, quando i dubbi sorgono, che ora la forza fuoriesce. Sono felice di questa vittoria sull’illusione, anche della droga! Spero che la mia vita sia cambiata, perché imparare è cambiare, e sto imparando ad ogni istante. (…)»
« (…) Sono felice di sapere che l’esistenza non è fine a se stessa, non è vuota di significato. (…) »
« (…) La via del Buddha è il sentiero che conduce alla liberazione. Per la prima volta nella mia vita, incomincio ad avere fede in qualcosa, ed è come una pianticella che cresce. (…) »
« (…) Studiando il Dharma, riesco a capire certi meccanismi in maniera chiara e limpida. Anche la rabbia non sorge più tanto spesso, come era solita sorgere, e quando sorge è un attimo solo, riesco ad osservarla senza intervenire e reagire, come ero solito fare. Non è sopprimere le vecchie reazioni e farmi venire il mal di stomaco, semplicemente non mi ci aggrappo più, come facevo prima. Anch’io ero preda degli stati d’animo, passavo da momenti di massima esaltazione a momenti di delusione e tristezza. L’equilibrio è tra gli opposti estremi, come dice Buddha Shakyamuni. Osservo tutto ciò di me, ne sono diventato cosciente, prima non me ne accorgevo, stavo bene o stavo male. (…) »
« (…) Vorrei ringraziare tutti quanti per quello che fate per noi detenuti e per il mondo intero. Il messaggio del Buddha, attraverso i suoi discepoli di ieri e di oggi, giunge a tutti ed a noi in carcere ha fatto veramente breccia nel cuore. Ora sento profondamente che il Dharma fa parte della mia vita. Sono felice di aver incontrato il Buddha ed i suoi seguaci. … »
« (…) Non mangio la carne perché penso che quell’animale che è stato ucciso poteva essere, nelle vite passate, anche mia madre, mio padre, mio fratello, ecc. Quindi, se penso a questo, genero compassione e mi rendo conto che, se altri come me lo facessero, ci sarebbero meno uccisioni e meno commercio di carne. (…) »
« (…) Voglio diventare un buon buddhista, perché voglio diventare un buon riferimento per gli altri. La mia più grande felicità sarebbe quella di vedere dei futuri Maestri che insegnino il Dharma come tu lo insegni a me e come io trovo conforto nelle tue parole, anche gli altri lo possano trovare nelle mie. (…) »
« (…) Ho anche smesso di fumare e qui smettere penso che sia molto più difficile che farlo fuori da queste mura. Però mi sono detto: “Un buon buddhista non fuma!”. Voglio fare da esempio. Solo pensando che un giorno anch’io potrò collaborare ad aiutare le persone che hanno avuto i miei stessi problemi o problemi simili, mi rende felice e pieno di gioia. Penso che non ci sia cosa migliore che veder stare bene chi un giorno ti ha chiesto aiuto. (…) »