martedì 27 novembre 2012


>> Il Dio carcerato <<
(1^ puntata)



« (…) l’impegno è nel senso di garantire che a tutti i detenuti
sia garantita la possibilità di praticare la propria religione (…) »
Giancarlo Caselli (1)



Carcere e religione. Un connubio che, di primo acchito, ci ricorda che il detenuto ha commesso un peccato-reato. E che quindi sta lì dentro per essere teoricamente rieducato, per riflettere nel profondo della sua coscienza sulla propria condotta negativa.
In carcere però ci si può facilmente scoraggiare, sconfortare. Fino al suicidio. Ecco dunque che, per alcuni, subentra una sete di spiritualità, una sete di religiosità. Per molti detenuti riaffiora la voglia di pregare, di colloquiare con il proprio Dio.
Per molti dei detenuti rispolverare il proprio credo significa aggrapparsi alla vita che lì, dentro alla propria cella sovraffollata ed in condizioni a dir poco disumane, altrimenti non avrebbe nessun senso, nessuno scopo.
Aggrapparsi al dialogo con Dio è utile soprattutto al detenuto per non annichilirsi completamente. Per vedere la luce della speranza dentro di lui. Per il suo recupero in umanità, dignità e sensibilità. Per la redenzione.
Ma il problema è che in carcere oggi è stracolmo di detenuti stranieri, uomini e donne, che rappresentano una umanità variegata che si esprime in tutte le lingue ed idiomi del mondo.
Di conseguenza sono presenti parecchi uomini e donne appartenenti alle grandi religioni e confessioni cristiane storiche: protestantesimo, cattolicesimo, islamismo, buddismo, hinduismo, ma anche molti stranieri dediti ai culti dei Testimoni di Geova, degli Avventisti del Settimo Giorno, degli evangelici etc.
Ci sono poi quelli che si definiscono “non credenti”, quei detenuti cioè che affermano genericamente di non essere interessati ai problemi religiosi, senza però sentirsi o dichiararsi atei, mentre si possono incontrare anche detenuti che si disinteressano al problema religioso e di spiritualità.

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Certo, in carcere bisogna trovare un senso a tutte quelle ore passate in cella guardando il soffitto. Un senso alla propria vita, una necessaria risposta all’aumentare dell’intensità dello sconforto. Per evitare che la segregazione di quella scatoletta chiamata cella non diventi luogo della disperazione più totale e porti all’annichilimento definitivo della persona. Ecco dunque che alcuni, molti, o pochi che siano non importa, tentano di credere ed affidare il proprio destino ad un Volontà Superiore.
Ma la struttura penitenziaria ha pensato anche a quello, all’assistenza spirituale, alla fede ed al culto religioso, se lo si desidera. L’ “offerta” istituzionalizzata, almeno in Italia, è data dal cristianesimo per mezzo del cappellano che può essere cattolico o evangelico in virtù delle Intese con lo Stato centrale, stipendiato e quindi “dipendente” statale.
E c’è anche una cappella per la celebrazione delle funzioni religiose.
Mentre per gli altri culti e religioni c’è più difficoltà ad essere “istituzionalizzati” da parte del nostro Stato italiano e ad entrare nelle strutture carcerarie perché non vi sono Intese “ad hoc”.
Eppure la richiesta di assistenza spirituale e di fede è molto alta, in percentuale dicono sia più alta del mondo esterno: in carcere si cerca il cappellano come conforto, come appoggio morale e materiale «frutto della centrifugazione di dolore e sofferenza che la cattività opera sui suoi “utenti”».(2)

(1) Italia: l'amnistia vista da fuori - Roma, giugno 2000 - http://www.paololandi.it/giornal/caselli.htm

mercoledì 14 novembre 2012


>> E’ Tempo di festa o di vacanza? <<

(11^ puntata)






«Il termine vacanze evoca il vuoto, ciò che è vacante, che è disponibile. Ma spesso ciò che è vacante, che è vuoto, fa paura. Ed ecco allora che le vacanze si riempiono di attività, di cose da fare, o da vedere: un’esposizione da visitare, un’attività sportiva da svolgere, un libro che bisogna aver letto. Per paura di che cosa?
Il saggio Lao-Tse, cinese, del VI secolo avanti Cristo, ha pronunciato un elogio del vuoto: “ Trenta raggi convergono nel mozzo, ma è il vuoto tra di loro che fa avanzare il carro. Il vaso è fatto d’argilla, ma è il vuoto al suo interno che lo rende utilizzabile. Muri e tetto e porte e finestre costituiscono la casa, ma è il vuoto della camera che permette di abitarci”.
Le vacanze ridanno spazio al vuoto e perciò costituicono un’occasione per recuperare il giusto ritmo. Ritrovare il vuoto delle vacanze significa prendersi il tempo di fermarsi, di riposare, di stare in silenzio. Significa recuperare la dimensione della contemplazione, della lentezza. Ridare importanza all’incontro, al ricordo, alla memoria, alla riparazione. Anche alla meditazione. E perché no, anche alla preghiera. Quando l’agitazione prende il sopravvento, quando le pagine dell’agenda non sono più sufficienti per notare tutti gli appuntamenti, tutte le scadenze, tutto ciò che dobbiamo fare, tutti i nostri compiti, quando non leggiamo più per il piacere di farlo, ma per necessità di lavoro, quando non riusciamo più a ritrovare il silenzio e la nostra vita spirituale si riduce a poche, sporadiche e distratte parentesi, significa che abbiamo urgente bisogno di una vacanza. E soprattutto del vuoto che essa offre e contiene»(1).

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Marco si trovò a pensare così…

Cosa servono le feste. Non so che farmene della festa. Fosse per me, le abolirei tutte; quand’è festa non so mai cosa fare. Unico lato positivo: non si va a scuola. D’estate però non c’è neanche questo vantaggio, perché tanto non si va a scuola neanche gli altri giorni. A cosa servono le feste?
Non penso sia una questione di fantasia; è che proprio non ne capisco l’utilità. I giorni di festa sono come gli altri, al massimo i miei litigano un po’ di più … tutto qui. Il pranzo della festa è come tutti gli altri giorni: i dolci, di solito ce ne sono anche durante la settimana, basta aprire il frigorifero. Sono quelli comprati, e a me sembrano quasi tutti uguali. Gli abiti della festa nessuno li usa a casa mia, anzi è l’unico giorno in cui papà è senza cravatta, si mette più comodo che può e si piazza davanti alla TV, magari dopo aver bevuto del buon vino. Questo per lui è fare festa! Mamma qualche volta va a Messa, ma non si veste bene, “tanto non ne vale la pena”; per quelle quattro donnette che ci sono in Chiesa. Solo se il papà la portasse fuori, allora sì, si metterebbe bene o se magari venissero gli amici (succede pochissime volte).
Le feste dovrebbero essere abolite.
Quando ho iniziato a protestare mi hanno comprato il motorino, “Così troverai amici”, hanno detto. Ma dove sono? Per infinite domeniche fino quasi ai quindici anni mi hanno parcheggiato dalla nonna, finché era viva, tutte le domeniche, pranzo compreso, adesso dove li trovo gli amici?
Ho tentato di girare per le vie del mio paese con il motorino, giri su giri, forse avrei trovato qualche altro strampalato come me che gira a vuoto chiedendosi: “Ma gli altri come passano le feste?”.

Interessante notare come questo ragazzino adolescente, di cui ho riportato la sua testimonianza anonima, si interroghi sul significato del tempo per la festa, sul significato che oggigiorno diamo alle giornate di festa come, ad esempio, la domenica. Arrivando a dire addirittura che abolirebbe le feste perché non ne capisce l’utilità: sembrerebbe essere per Marco una noia. Noia testimoniata anche dai genitori in quanto sua madre dice che, anche se qualche volta va alla Messa domenicale non si veste bene, non si veste “a festa” come facevano una volta i nostri nonni. Si vestirebbe bene solo ed esclusivamente se suo marito magari la invitasse ad andare a cena fuori. Lì si che sarebbe la vera festa per lei.
E Marco invece non sa come occupare il suo momento di festa domenicale ed allora ecco giri su giri in motorino per sprecare benzina e soldi per riempire quel vuoto di una domenica qualunque di noia dei nostri ragazzi.
Interessante anche notare come ci sia una distinzione in Marco del momento di festa che capita una tantum od una volta la settimana e l’estate che, come noto, per gli studenti è festa tutti i giorni perché le vacanze estive durano due mesi e mezzo. E quindi se d’inverno nei giorni di festa non si va a scuola, d’estate non si va a scuola neanche gli altri giorni.

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Per i ragazzi è difficile fare la distinzione tra tempo di festa e tempo di vacanza. Anche per gli adulti è necessario distinguere tra tempo di vacanza, di ozio e di riposo.


E’ altresì difficile non cadere per i nostri adolescenti in una sorta di noia nei momenti delle cosiddette “feste comandate”. Lo si capisce bene dal discorso del ragazzo di cui sopra: occorre un riempitivo per i momenti di vuoto in cui i giovani di oggi si trovano a vivere. E quindi è sempre più rischioso per loro scivolare in quei “riempitivi” che sono, ad esempio, gli atti di vandalismo fatti senza rendersi conto di ciò che si fa (esempio: i sassi gettati dal cavalcavia oppure le devastazioni e gli allagamenti fatti ai danni di strutture pubbliche come gli edifici scolastici “per passare il tempo” essi dicono).
Oppure quel tempo di festa e di vacanza, come ad esempio il sabato sera, trascorso nello sballo più pazzesco che , con magari l’aiuto di sostanze quali droghe e alcool in un mix con musiche sparate a tutto volume, rendono più divertente in discoteca lo sballo fino a tarda notte. Per poi passare la giornata di domenica, festa per antonomasia nel nostro calendario civile, regolarmente a dormire a letto per tutta la giornata per riprendersi dall’ubriacatura della sera precedente.
E qui Elisabetta, ragazza adolescente, ci spiega a grandi linee come un sabato sera si sia divertita a fare festa in discoteca. Sentiamola:

Elisabetta si trovò a pensare così…

Yahoo, come mi sono divertita. Che sballo!
Aveva ragione Miriam. La discoteca è il luogo per eccellenza del divertimento. Finalmente i miei mi hanno dato l’autorizzazione: sabato sera ci sono stata.
Assieme a Miriam ci siamo recati alla discoteca più “in” della nostra regione; lei era molto esperta e disinvolta, si vedeva che era una veterana. Sapeva tutto del locale, si muoveva come a casa sua. Per ballare non avevo problemi, ma era tutto il resto che non mi era familiare: la musica a tutto volume, le luci e la confusione. Era come essere in un frullatore: bellissimo, un’esperienza da ripetere.

In un primo momento ti senti stordita, è vero: ma poi ti passa ed entri a far parte del popolo delle discoteche. La musica ritmica ti fa muovere, ti fa sentire un tutt’uno con gli altri. Se hai problemi di carattere non ci sono problemi: birra e pasticche, così ti senti più leggera. E mentre qualcuno ti tocca un po’, non importa, fa parte della festa, del divertimento. Senti il tuo corpo scatenato, libero, molto leggero. La sensazione è quella d’essere “fuori”, l’atmosfera diventa surreale. Mi sono dimenticata di tutto: problemi scolastici, le “pare” (litigi) dei miei … tutto era molto più bello, più eccitante. Il ritorno è un po’ duro, ma ne valeva la pena. La domenica mattina, però, la devi passare a letto per smaltire quel senso di stordimento che ti tiri dietro. I genitori “rompono”: cosa hai fatto, con chi eri, hai bevuto, ecc…che palle!

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E’ invece importante capire che c’è un tempo per il lavoro, la produttività umana ed un tempo per la vacanza. Quelle che una volta si chiamavano ferie, le trascorriamo al mare o in montagna o a casa a riposarsi almeno per un mese a seconda dei contratti lavorativi lontano dalla fabbrica, dall’ufficio o dalla scuola (per gli studenti ed i professori). Se un tempo erano vacanze estive con tempistiche lunghe «che si concludevano soltanto con i primi temporali di settembre»(2).
E poi per gli studenti c’era la scuola che ricominciava. Una volta ad ottobre, oggi nella prima metà di settembre, pronti a guardare attentamente il calendario scolastico in attesa delle prime vacanze dalle lezioni.
Ci sono solo rimasti i fine settimana di festa che, per qualche studente, contemplano anche la giornata del sabato, mentre per altri vi è solo la domenica. Spesso questa parentesi breve fra le settimane lavorative coincide con il tempo libero dei genitori e che viene sfruttato per il meglio: d’inverno grandi sciate in montagna «o semplicemente una boccata d’aria respirabile prima di tornare nell’effetto serra delle metropoli»(3).
E quei fine settimana (che, all’americana, si dicono weekend) diventano sempre più simili a giornate lavorative, visto lo stesso stress delle interminabili code di ore per raggiungere, appunto, lo skilift della montagna fuori dalla metropoli dove si abita. E quindi si ripete lo stesso meccanismo del traffico cittadino, questa volta però tutto trasportato in paesaggi da favola. Dove peraltro oggigiorno – grazie alle nuove tecnologie - si può anche essere reperibili sempre, sia col telefonino che via mail. Infatti, «se qualche decennio fa il periodo vacanziero equivaleva a un modo di ricaricare corpo e spirito, oggi la vacanza (…) non sembra altro che un’appendice del lavoro»(4).
Così come un tempo le grandi fabbriche (come ad esempio la Fiat nda) chiudevano sempre il solito mese estivo e tutti andavano in ferie in contemporanea, rallentando la vita anche nelle grandi città, oggi invece «dal cuore di metropoli che hanno deciso di non fermarsi partono telefonate, e-mail, sms verso spiagge greche o turche, provocando risposte e decisioni. Una volta il tempo del riposo era sacro e inviolabile»(5).
Se consideriamo poi che portarsi computer e cellulari in vacanza viene anche pubblicizzato in tv da multinazionali della comunicazione che ti dicono che, grazie al wi-fi ed a una chiavetta magica da inserire nel tuo pc puoi navigare e leggere la posta anche in spiaggia, con tanto di ragazze sexy in costume da bagno che attorno a te nella sabbia giocano a beach-volley, non stupiamoci poi che uomini e donne manager non staccano mai la spina «con il risultato di stressare il corpo e la mente»(6) come ci ricorda Enzo di Frenna, giornalista e presidente della onlus Netdipendenza. 



Pensate che per queste persone negli Stati Uniti sono stati inventati dei programmi di disintossicazione, con vere e proprie vacanze e momenti di relax pensate per i cosiddetti “tecno-stressati” affinché riescano a «costruire un rapporto sano con la tecnologia e il lavoro»(7). Un esperimento di un corso in tal senso si è tenuto nell’estate 2008 tra i boschi della Toscana con esercizi in acqua, passeggiate, attività di respirazione e sedute di yoga oltre ad altre attività per aiutare i partecipanti «ad affrontare eventuali crisi di astinenza da cellulari e mail»(8).

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E poi ci si mettono anche i negozi a non chiudere più nei giorni delle feste comandate, come si suol dire. E’ il caso, ad esempio, di un piccolo paese piemontese dove l’Ipercoop ha tenuto aperto i battenti del negozio anche il 1^ maggio del 2008, quella che da sempre in tutta Europa si chiama Festa del Lavoro. Con grande dissenso manifesto dei sindacati che fuori picchettavano e protestavano vistosamente.
E la stessa cosa si è ripetuta al 1^ maggio 2009. In quella data però non è stato il solo a tenere aperto: se n’ è aggiunto anche un altro paese piemontese che, a modo suo, ha stabilito un piccolo record: è stato l’unico Comune della Provincia di Torino ad avere due supermercati aperti (il Pam e il Gigante entrambi a poche centinaia di metri l’uno dall’altro) nel giorno dedicato alla festa dei lavoratori. Ed è stato comunque uno dei cinque centri della Provincia torinese, appunto, salito agli onori delle cronache giornalistiche per la presenza di centri commerciali ad “apertura straordinaria”, proprio cioè il 1^ maggio 2009.



Senza contare che questi centri commerciali, quel giorno così come negli altri della settimana, stanno aperti ben undici ore, mentre lo stipendio medio di un dipendente di un qualunque supermercato guadagna 900 euro al mese.
Eppure, oltre ai casi qui documentati, pochi altri (o quasi nessuno) si ribellano a questo stato di cose. Per cui gli ipermercati magari aprono dalle 9 del mattino alle 19 della sera la domenica o prima delle festività natalizie. Con magari l’assunzione con contratti a termine: per alcuni mesi dunque questo personale in più risulterà obbligato a lavorare su turni massacranti per esempio alle casse.
A Torino invece il Comune ha ceduto ai commercianti del centro cittadino: undici mesi di festivi di apertura garantita all'anno. Sì, perché «fino a ieri nell'area della Ztl (Zona a traffico limitato) allargata, più quella attorno alla Gran Madre, i negozio potevano rimanere aperti da aprile fino ad ottobre compresi, ora invece serrande alzate per chi vuole da marzo a novembre. Poi si aggiungono le domeniche extra per lo shopping natalizio e quelle, a gennaio, per i saldi invernali»(9).
Di questa deroga torinese pare che ne approfittino, secondo i dati comunali, «circa il 20-25 per cento, in pratica un negozio su quattro tiene aperto in una fascia oraria della domenica nell'area centrale, soprattutto le catene. A Venezia e Firenze la media è molto più alta: si arriva al 45 per cento»(10).
Ormai a queste aperture ci siamo ahinoi abituati, sono prassi comune a tutti questi grandi magazzini, aperture che hanno avuto anche il parere favorevole dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato espresso il 31 marzo 2008 che ha fatto sapere che «per favorire la concorrenza tra esercizi commerciali, a tutto vantaggio dei consumatori, i negozianti possono decidere di tenere aperti il proprio negozio anche nei giorni festivi»(11). Questo parere viene «dopo che alcuni esercizi di Roma sono stati multati perché aperti il giorno di Pasquetta, contrariamente a quanto stabilito da un’ordinanza comunale»(12). Tra le motivazioni portate dall’Autorità garante vi è quella del turismo, cioè che «in tutti i Comuni a economia prevalentemente turistica e nelle città d’arte i negozianti devono avere la possibilità di svolgere la loro attività anche nei giorni festivi»(13).
Eppure qualche anno fa in una via centrale di Torino, durante le feste natalizie, era comparso un lenzuolo con frasi di protesta di alcune commesse rimaste anonime contro l’apertura dei negozi del centro (non solo centri commerciali) per questo tempo di festa. Una forma di protesta che non ebbe risultati concreti.
Una opposizione, ferma ma isolata, alla decisione di tenere aperti i negozi ed in centri commerciali nelle festività di stampo cristiano e cattolico giunge dal mondo cattolico, soprattutto dalle gerarchie: viene fortemente criticata tale decisione, fatto salvo ovviamente per quei servizi di emergenza strettamente necessari come ospedali, forze dell’ordine, protezione civile che, obbligatoriamente e ovviamente, debbono tenere aperte le strutture e garantire il servizio ventiquattro ore su ventiquattro e che, per forza di cose, sono organizzate in turni lavorativi.
Anche se il cardinale di Torino, Severino Poletto ricorda che i cristiani hanno l’obbligo, secondo il  comandamento apposito, di santificare le feste e quindi il buon cattolico dovrebbe tenere abbassate le serrande del proprio negozio. Ma queste voci dai più non vengono ascoltate.
Forse che il tempo per assistere e partecipare alle celebrazioni domenicali od alle funzioni natalizie e pasquali, per chi è credente, sono meno importanti dello shopping natalizio effettuato la domenica precedente il 25 dicembre? E’ proprio necessario questo consumismo esasperato anche in un tempo di festa? Forse che anche quei lavoratori dei supermercati non hanno diritto ad avere un tempo fare festa con la loro famiglia nelle cosiddette feste comandate?
Eppure, anche se la crisi economica attanaglia il settore del commercio, qualcuno tra i sindacalisti che cercano di tutelare i commessi dei negozi dice che il riposo dei lavoratori andrebbe rispettato, che anche queste persone che lavorano nell’ambito del commercio debbono poter coltivare i loro affetti e divertimenti, debbono poter seguire le loro inclinazioni religiose.
Ha forse ragione un prete ortodosso di un paesino vicino Varsavia a sostenere che «Da quando siamo nell’Unione europea il tempo non c’è più»(14)?


(1) Tratto dalla Newsletter Ecumenici del 9/7/2009

(2)     E. Berselli, “Purchè siano brevi” , in La Repubblica del 12/8/2008
(3)     Ibidem
(4)      Ibidem
(5)      Ibidem
(6)      A. Longo, “Per chi in ferie non stacca (né il pc né il telefonino)”, in Il Venerdì di Repubblica del 15/8/2008
(7)      Ibidem
(8)      Ibidem
(9)     d. lon. “Negozi aperti di domenica via libera 11 mesi all'anno”, in La Repubblica – cronaca di Torino del 28/10/2008
(10)    Ibidem
(11)     Altroconsumo n^ 216 del giugno 2008
(12)     Ibidem
(13)     Ibidem
(14)     P. Rumiz, “La maledizione del tempo accelerato” in La Repubblica del 25/8/2008

lunedì 12 novembre 2012


>> Il Tempo è memoria <<

(10^ puntata)


"Proteggi i ricordi, le fotografie, le prove scritte che sei esistito.
Se tutto brucia, se perdi tutto, se ti prendono tutto, dovrai dimostrare a te stesso che una volta ERI".
Nedzad Makjumic, poeta bosniaco




C’è qualcuno che ha perso la memoria. In Italia soprattutto. E soprattutto su avvenimenti scomodi della storia che sarebbe stato meglio non fossero mai avvenuti. No, non perché è malato di Alzehimer, no.
C’è qualcuno nel nostro Paese che vuol far finta di nulla, come se alcuni drammi non fossero mai accaduti. Una sorta di revisionismo forti del fatto che gli italiani facilmente ricacciano tutto nell’oblìo.
Si vuole, insomma, cancellare la memoria storica anche e soprattutto di tragici eventi come lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti.
Arrivando persino a far studiare ai nostri giovani a scuola su libri di storia “rivisitati” secondo il più becero e vigliacco revisionismo storico che taluni vorrebbero applicare.
Forti del fatto che tanto gli ex-internati sono ormai quasi tutti scomparsi, oppure sono vecchi ed innocui. Ma ciò non può succedere. Sì, certo mi si dirà: ogni anno il 27 gennaio celebriamo il “Giorno della memoria” voluto dal nostro Parlamento con decreto legge. E’ un giorno importantissimo, per non cancellare la memoria di quei tragici eventi, per ricordare che ciò che è stato non si venga a ripetere mai più. E’ necessario tramandare “di generazione in generazione” . Perché «attraverso la narrazione si cresce e si scoprono eventi legati alla quotidianità e circoscritti, compresi in avvenimenti globali, universali, collettivi, comunitari, storici»(1).
E’ quindi necessario fare sforzi ed esercizi legati alla memoria, proteggendo i ricordi, le storie e tramandandole. Soprattutto poi se riguardano fatti drammatici come la Resistenza o la deportazione nei campi di concentramento. La memoria è importante anche perché dagli errori commessi nel passato si può guardare all’oggi senza più ripeterli, cercando di ovviare ad essi. «Possiamo raccontare ai nostri giovani piccole storie esemplari di espropriazioni, di resistenza, una delle armi più straordinarie contro tutti i tipi di revisionismo storico, da quello più infame, ma forse più facile da combattere, il negazionismo perché talmente grossolano e stupido nelle sue argomentazioni, confutabile mostrando i documenti e facendo parlare i testimoni, a quello più raffinato del conteggio delle vittime»(2). Nelle facoltà umanistiche delle università italiane si insegna un metodo pedagogico che consiste proprio in una sorta di Pedagogia Narrativa, dove ci si racconta nelle tradizioni, sforzandosi ad operare una forma di autonarrazione di sé, di scavo interiore, con l’aiuto  reciproco nell’ascolto e nella ricerca in sé stessi tramite l’altro: una sorta di autocomprensione e comprensione della propria e dell’altrui unicità ed individualità fatta sia di sofferenze che di gioie.
Tutto ciò si dimostra utile nei confronti delle nuove generazioni che si presentano generalmente «più superficiali, più incapaci di mantenere l’attenzione, ma la sensibilità dei ragazzi nei confronti di queste tematiche è ancora notevole, perché si innamorano delle storie di resistenza, delle vicissitudini umane di sofferenza che leggono nei testi e nelle testimonianze dei superstiti sopravvissuti ai lager»(3).
E’ necessario dunque che questi ragazzi, questi giovani oggi siano stimolati a reagire ad una società sempre più indifferente, razzista e xenofoba, soprattutto quella che è oggi l’Italia.
Tutti noi, soprattutto i giovani d’oggi, devono saper «entrare in una tensione di ricerca, indagine interrogativa: come è stato possibile?»(4). A questo tipo di domanda che riguarda un pezzo della nostra narrazione della triste storia passata si può rispondere «attraverso la Pedagogia concreta dei gesti»(5) che illumina gli occhi e ci guidano nella comprensione di «cosa sono i fenomeni di espropriazione, alienazione, violenza. Il campo di sterminio è stato un laboratorio pedagogico dove i nazisti hanno cercato in tutti i modi di “costruire soggetti distrutti”: ossimoro, contraddizione in cui nasce un’antropologia, un setting pedagogico dove si formula l’annientamento, dove è possibile studiare le pratiche di resistenza nei campi, con la consapevolezza che chi ha resistito è riuscito, in qualche modo, a mettere in atto strategie, una contropedagogia, una ”pedagogia della resistenza”, minimale, infinitesimale, fatta di brandelli di piccoli gesti, minimi spazi, misere, povere cose, di tempi infinitesimali sottratti al tempo preciso, altamente sistematico, precostituito dello sterminio. Questo è il tentativo di raccontare, tramandare, narrare, la resistenza, la deportazione, la liberazione»(6).
Sono dunque importantissime le testimonianze come quella che segue. Per rinfrescarci la memoria. Per non dire un domani: “io non sapevo, a me non l’hanno mai detto!” e frasi simili.
Possiamo dunque convenire con Heinrich Böll che «una società senza memoria è una società malata».

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Natale Pia kz 115658 Mauthausen-Gusen e nipote di Vittorio Benzi kz 115373 morto di fame e fatica a Mauthausen-Gusen a 17 anni, Biagio Benzi kz 43493 superstite di Flossenbürg e Giovanni Benzi, kz 7332 superstite di Bolzano, tutti partigiani vittime del rastrellamento avvenuto nella zona di Nizza Monferrato il 3 dicembre


Mi sono deciso a scrivere la mia storia dopo più di 55 anni per diversi motivi, non ultimo la mia carta d’identità la quale mi dice che io non sono un’eccezione e la fine non può essere lontana. Finirà con me la possibilità di testimoniare verbalmente come sto ancora facendo. Noto un grande interessamento da parte di chi non ha vissuto quei tempi terribili e trovo giusto che continuino a conoscerli tramite chi li ha vissuti sulla propria pelle.
Non trovo faticoso il ricordare perchè noi sopravvissuti le cose che raccontiamo le portiamo dentro come fossero successe ieri.
Grazie all’impegno di bravi insegnanti che lavorano anch’essi a tutela della memoria di questo passato ancora recente, spesso vengo invitato nelle scuole a parlare agli studenti, nei quali noto  un interessamento e una partecipazione sinceri, soprattutto quando li accompagno a visitare i luoghi nei quali si sono realizzate le atrocità di cui parlo. La loro commozione e il sincero impegno a non dimenticare e a non far dimenticare affinchè non debbano più accadere così grandi tragedie mi gratifica e mi fa sentire meno in debito nei confronti di coloro che in quei luoghi hanno perso la vita lasciando a noi sopravvissuti il dovere morale di testimoniare.
Mi succede a volte che conoscenti che mi sanno per l’ennesima volta in partenza per un nuovo pellegrinaggio mi dicano pensando di scherzare: «ma allora ci sei stato bene in quei luoghi, che ci torni così spesso!»
Io non ho mai dimenticato le migliaia di persone che hanno sofferto tanto quanto me ed anche di più e alla fine hanno trovato la morte; la morte di per sè è sempre brutta, ma soffrire l’inverosimile per poi morire è veramente tragico.
Non dimentico nemmeno quei momenti di guerra quando le pallottole fischiavano ed arrivavano da tutte le parti, chi mi assicura che non ce ne fosse una indirizzata a me se non ci fosse stato un altro che l’ha fermata prima? E quell’ipotetico mio salvatore perché non dovrei andare a ricordarlo?
Vi tornai la prima volta nella ricorrenza del decimo anniversario della liberazione ed entrare ancora a Mauthausen ed a Gusen fu per me un vero trauma.
Emozionato e con le gambe tremanti provai ad uscire ed a rientrare un po’ di volte, fino a quando mi rinfrancai e potei completare con il groppo alla gola il mio percorso della memoria, ricordando le enormi sofferenze patite da me e dai compagni che non sono tornati; fu allora che mi ripromisi di tornarvi ogni volta mi fosse stato possibile.
Iniziai a tornarvi ogni 5 anni in compagnia di mia moglie, poi nel ‘65 accompagnai con il mio pulmino che mi serviva per il lavoro adattato a camper tutta la famiglia, anche se il più piccolo dei miei figli aveva solo 4 anni; venne anche la sorella più giovane di mia moglie e in quell’occasione deponemmo sul retro del monumento italiano di Mauthausen una lapide in ricordo di Vittorio, il mio giovane cognato deportato con me in quell’inferno ma che ho quasi subito perso di vista: i documenti lo danno come morto il giorno del suo diciottesimo compleanno. Ricordo che dal forno crematorio di Gusen, allora senza la protezione del memoriale, potemmo prelevare un po’ di poveri resti che portammo a casa a mia suocera che li custodì con amore e li volle con sé nell’ultima dimora.
Da allora io e mia moglie siamo tornati spesso, anche in compagnia di giovani studenti accompagnati dai loro insegnanti, o con i nostri nipoti più grandi.
Sono ormai passati oltre cinquant’anni da quegli eventi ma quando mi succede per una ragione o per un’altra di non poterci andare per un po’ di tempo, cresce in me un’inquietudine che mi spinge a partire.
Appena mi è stato possibile sono tornato per due volte con mia moglie anche in tutte le zone che ho attraversato durante la campagna di Russia e credo di essere riuscito ad individuare perfino qualche isba in cui ho ricevuto soccorso.
Noi pochi fortunati che siamo tornati abbiamo il dovere di ricordare e far ricordare e l’obbligo di implorare che queste cose successe non vengano dimenticate affinchè si faccia in modo che non debbano mai più ripetersi.



(1) L. Tussi, “Dentro le Storie - L’importanza delle memorie di vita ‘… per non dimenticare’ e tramandare la Shoah, “di generazione, in generazione”…

(2) Ibidem

(3) Ibidem

(4) Ibidem

(5) Ibidem

(6) Ibidem

domenica 11 novembre 2012


>> I Tempi del carcere <<

(9^ puntata)



«Mi hanno dato l’erbetta. Che significa: sono stato condannato all’ergastolo»(1). Così comincia il suo libro “ MAI – L’ergastolo nella vita quotidiana” (ed. Sensibili alle Foglie 2005) Annino Mele, in carcere dal 1987.
Questa pena estrema ha, per convenzione temporale, la drammatica dicitura “Fine Pena: 99/99/9999” l’equivalente di “Fine Pena: MAI”. «Sono stati i programmatori dell’informatizzazione del sistema penale che avevano bisogno di una data da scrivere nel campo “fine pena” escogitando per i casellari giudiziari l’escamotage di reiterare il numero 9»(2).
Di solito al cittadino che viene recluso in un carcere la pena ha una determinata durata temporale: condannato a 3 anni, 5 anni, 10 anni…consentendogli prima o poi di acquisire la libertà di gestirsi la sua vita nei tempi e modi da solo.
Come abbiamo detto non è così per l’ergastolo. Nessuno di noi riesce ad immaginarlo. E il nostro amico intervistato qui sotto si spinge ancora più in là dicendo che «la morte ha più senso»(3).
Una pena senza fine a cui la persona condannata uscirà ed il mondo sarà notevolmente cambiato,: cambiamenti sociali, storici inevitabili. «Vivo il giorno per giorno, minuto per minuto»(4) diceva un altro recluso vivendo una sorta di reclusione per l’eternità: «Sia quando coltiva la speranza, che quando vi rinuncia, concentrandosi sulle possibilità offerte dal quotidiano, l’ergastolano cerca di uscire dal tempo dell’eternità per orientarsi con il tempo umano e storico dell’impermanenza e del cambiamento»(5).

Che cosa sono allora le distanze chilometriche che noi, uomini liberi, percorriamo ogni giorno in automobile a fronte di un a pena che risulta infinita E allora come può vivere la dimensione del tempo una persona reclusa per tutta la vita o quasi? «Le giornate se ne vanno come vengono – racconta Mele nel suo libro – senza offrirmi niente a cui poter guardare. Per questo aspetto la notte. (...) Ci vuole pazienza. E io ho fede nella pazienza. E’ un buon Dio anche quella, sai. Guai se viene meno, soprattutto nei momenti difficili. Sarebbe la fine, una fine dagli esiti incalcolabili. Pazienza, ci vuole pazienza. Dobbiamo ripetercelo senza mai stancarci»(6).
E per Annino Mele nel carcere a vita c'è la scansione del tempo ad un calendario che così ci racconta proprio in un paragrafo del libro citato che lui intitola appunto “Calendario”:
«Primi giorni di maggio. Non lo crederai, ma a fare riferimento al calendario è per me un fatto quasi comico.
Da anni lo consulto solo perchè segno i giorni del colloquio e delle telefonate. Se questi appuntamenti finiscono il venticinque del mese strappo subito la pagina e passo a quello dopo.

Due colloqui e quattro telefonate: per me un mese è tutto qua. Tutto in questi sei giorni. L’anno e gli anni, quindi, passano veloci. Sei giorni, senza contare le notti, sommando le ore, si fermano a settantadue. In un anno arriviamo a ottocentosettantaquattro ore d'affetto. In realtà sarebbero veramente molte meno perchè ogni telefonata dura al massimo dieci minuti e i colloqui due ore ciascuno.
Ma devi tener conto che i dieci minuti di telefonata mi riempiono comunque la giornata e così pure le due ore dei colloqui.
Sicchè i conti tornano, tornano al mio cuore. Sarà forse per questo, per questa riduzione all'osso del tempo, che gli oltre vent'anni di carcere scontati sembrano essere passati in un batter d'occhio»(7).

Intervista ad un ex-detenuto ergastolano

N.V. ha 54 anni. Ha avuto una condanna all’ergastolo per fatti legati alla lotta armata degli anni Settanta. Ha scontato 22 anni e 5 mesi tra reclusione (15 anni) e semireclusione, poi il Tribunale di sorveglianza gli ha concesso la libertà condizionale. Al termine dei 5 anni della condizionale , come previsto dalla legge, è stata dichiarata esaurita la pena. Ora lavora in una editrice-cooperativa di cui è tra i soci fondatori.
Nel suo libro “Qualcosa da tenere per sé” (ed. Mondadori), la scrittrice Margherita Oggero dice    testualmente che «(...) In galera le giornate non finiscono mai. Il tempo è immobile e sempre uguale. Ore identiche a quelle che sono venute prima e verranno dopo, e pensieri che tornano in circolo come sul solco graffiato di un vecchio disco. Pensieri che diventano ossessioni, abitudini che si trasformano in manie. Difendersi da se stessi prima che dagli altri. Abolire l'impazienza. Non contare quanto manca. Non illudersi che fuori tutto resti come prima. (...)». Sei d'accordo? Ti va di commentare punto per punto questo scritto?
«Il testo di Margherita Oggero che mi proponi coglie alcuni aspetti dell’esperienza del recluso. Ciò che però in quel frammento non compare ma che invece è importante far vedere è che il tempo del recluso è totalmente gestito dall’istituzione carceraria. E’ l’istituzione che decide se e a che ora un recluso può prendere l’aria, se e a che ora può fare la doccia, se e quando può socializzare con altri reclusi, se e quando e quante volte può incontrare i suoi familiari a colloquio, a che ora si aprono le celle e a che ora si chiudono… in sostanza il tempo di vita del recluso è totalmente gestito dall’istituzione e anche sorvegliato, non c’è un solo minuto in cui l’internato è fuori dallo sguardo dell’istituzione.
Poi c’è il tempo della pena»
Che reazione (o sensazione) hai avuto quando lo Stato ha decretato, con la formula “fine pena: mai”, l'ergastolo per te? Cosa ha voluto (o vuol) dire in termini di Tempo quella frase?
«Se una persona condannata ad una pena temporale può dire a se stessa: qualunque cosa accada il giorno X sarò una persona libera, e quindi avere un punto di orientamento, il recluso senza fine pena, il recluso condannato all’ergastolo, non può fare questo conto. Nel suo certificato penale il fine pena è scritto con un numero immaginario: 99/99/9999. La sua possibilità di uscita, se non è fra gli ergastolani ai quali è preclusa la possibilità di ottenere i benefici previsti dalla legge (che quindi resteranno a vita in carcere), è legata unicamente alla grazia o all’ottenimento della libertà condizionale che sono entrambi provvedimenti gestiti da autorità diverse ma assolutamente discrezionali. Quindi la vita di una persona condannata all’ergastolo, la sua possibilità di uscire dalla pena, dipende unicamente dal potere discrezionale di un’autorità. Per questo motivo l’esperienza che la persona condannata all’ergastolo vive è quella di sentirsi totalmente nelle mani dell’istituzione che può decidere a suo piacimento se tenere un ergastolano a vita in carcere o farlo uscire. Si potrebbe dire che se con la pena di morte lo Stato toglie la vita ad una persona, con l’ergastolo se la prende.
L’impatto con la parola ergastolo è reso bene da una frase di Pietro Ingrao: “Sono contro l’ergastolo perché non riesco ad immaginarlo”. Anche fra i reclusi l’ergastolo è una parola tabù. Per aggirarla si usano alcuni eufemismi, prendere l’ergastolo si dice “avere l’erba”… che forse è come dire che si sta un po’ sotto terra»
All'interno della cella avevi un orologio? Un calendario? Che rapporto si instaura con questi oggetti?
«Nella mia esperienza carceraria è sempre stato vietato avere l’orologio, ed il calendario l’usavo solo per segnare i giorni in cui potevo fare colloquio con i miei familiari oppure telefonare. Ma per sopravvivere alla torsione del tempo è decisivo costruire un tempo per sé, caratterizzato da un proprio fare autodeterminato, cosa non facile. Negli ultimi anni della mia carcerazione ho scoperto di avere una vena creativa inaspettata. Di notte quando si chiudevano le celle mi lasciavo andare alla pittura usando la terra del campetto di calcio del carcere di Rebibbia ed altre materie colorate che avevo in cella per cucinare, lo zafferano, ad esempio. Il patriota Settembrini, condannato all’ergastolo, scriveva nelle “Ricordanze” che l’attività autodeterminata consente al recluso di pensare: “almeno in questo son libero”, almeno in questo agisco per me stesso.
Producevo 3/4 opere a notte e alla fine, estenuato, mi godevo l’incanto della sospensione del tempo. Dipingendo era come se accendessi le luci su un altro mondo, anche se l’orecchio rimaneva comunque vigile all’ascolto di ciò che accadeva in sezione, perché la porta della cella si sarebbe potuta aprire in qualunque momento, ad esempio per una perquisizione, o per la conta notturna dei detenuti, la qual cosa avrebbe violato quel momento. Ero quindi simultaneamente collocato un una doppia dimensione: mano e occhi immersi nel tempo della creazione, orecchio attento ai ritmi dell’istituzione carceraria.
Come giudichi l'uomo moderno che oggi vive sempre correndo e correndo dietro al Tempo, l'uomo contemporaneo che sembra volere sempre tutto e all'istante, che “brucia” i secondi e il Tempo nella logica del “tutto e subito”, grazie anche alla tecnologia, ai mass media, mail e telefonini che ci fa vivere “in Tempo reale” avvenimenti lontani di altri continenti?
Da alcuni anni sono uscito dal carcere e vedo che i dispositivi reclusivi di controllo del tempo delle persone sono disseminati ovunque nelle istituzioni sociali, ad esempio in alcune aziende la “pausa fisiologica”, quella per andare a gabinetto, per intenderci, è considerata dall’azienda un “furto di tempo”. Per quel che riguarda il mio lavoro, invece, con altre persone, alcune delle quali provenienti dalla reclusione, sono riuscito a costruire un’esperienza lavorativa di tipo cooperativo che consente ai soci cooperanti di decidere autonomamente come organizzare il proprio tempo di lavoro.
Quanti orologi hai in casa? Che cosa è per te il Tempo oggi?
«L’orologio, ora che posso, lo uso stabilmente perché ho imparato a considerare il mio tempo e quello delle altre persone una cosa preziosa, questa considerazione della preziosità del tempo penso sia anche un indicatore del rispetto che si ha verso se stessi e verso gli altri. Far aspettare ad esempio è uno dei dispositivi attraverso cui le istituzioni totali, ma più in generale tutti i poteri,  fanno sentire la loro supremazia sulle persone. “Ci uccidevano con le attese” affermò una donna internata in campo di concentramento per raccontare uno dei dispositivi più mortificanti di Auschwitz».
Che ne pensi della vita cosiddetta slow, cioè della vita in lentezza, senza troppo stressarsi?
«In base all’esperienza che ho fatto, ed anche per le cose che ho raccontato finora, non vivo come decisiva la contrapposizione fra“tempo frenetico” e  “tempo lento”, mi sembra invece significativa l’alternativa tra il tempo singolarmente e collettivamente autodeterminato a quello sovra-determinato dalle varie istituzioni»


(1)   A. Mele, “MAI – L'ergastolo nella vita quotidiana” , edizioni Sensibili alle Foglie 2005,
(2)     A. Mele, “MAI – L'ergastolo nella vita quotidiana” , edizioni Sensibili alle Foglie 2005, dall'Introduzione di Nicola Valentino p. 7
(3)     Ibidem p. 13
(4)     Ibidem p. 14
(5)     Ibidem p. 14
(6)     Ibidem p. 17-18
(7)     Ibidem p. 28

sabato 10 novembre 2012


>> I Tempi dell'ospedale <<

(8^ puntata)




  
Tempi d’attesa segnalati per alcune prestazioni diagnostiche
Mammografia, 540 giorni
Ecocolordoppler, 420 giorni
Colonscopia con anestesia, 300 giorni
Risonanza magnetica, 270 giorni
Ecocardiogramma, 240 giorni
Ecografia tiroidea, 220 giorni


Tempi d’attesa segnalati per alcune visite specialistiche
Visita oculistica, 630 giorni
Visita senologica, 365 giorni
Visita ortopedica, 300 giorni
Visita fisiatrica, 220 giorni

(fonte: “Ai confini della sanità. I cittadini alle prese con il federalismo” Rapporto PiT Salute 2007, XI edizione. In www.cittadinanzattiva.it)

Il tempo nel campo medico, ospedaliero e sanitario, oltre all’urgenza ed alla tempestività d’intervento sul paziente al pronto soccorso ed al 118, è anche una variabile riguardante l’attesa come dimostrano i dati sopraccitati. Nella tempistica “biblica” per gli esami clinici che abbiamo testè visto, quasi normalmente le persone si indirizzano verso la struttura sanitaria privata ed a pagamento che ritengono essere più veloce e più efficiente. E molto spesso per il 91% dei casi «la scelta è guidata: proposta dall’operatore in modo esplicito (73%) piuttosto che velato: “sarebbe meglio non tardare” (18%)»(1).
Ma le attese in una istituzione totale come è l’ospedale sono anche altre, molto spesso più serie e drammatiche, oserei dire nel dna della struttura stessa e nella forma mentis della maggior parte degli operatori. Anche a partire dal pronto soccorso: ai pazienti in arrivo viene dato un cartellino rosso (codice rosso) se sono in pericolo di vita e devono avere la precedenza sugli altri, giallo che significa massima urgenza ma non pericolo di vita e dunque il paziente può attendere il suo turno senza passare davanti a nessuno. Poi via via altri codici di pazienti meno urgenti e non in serio pericolo di vita che dunque possono attendere anche delle ore nella sala d’aspetto del pronto soccorso.
Sentiamo però dalla viva voce di un paziente in attesa nella struttura di soccorso di un ospedale la sua vicenda:
«Gli era stato dato il cartellino giallo che significa massima urgenza ma non pericolo di vita, segnalato invece dal cartellino rosso. Per questo motivo un operaio ha atteso un’ora e più nel pronto soccorso, con la falange di un dito amputata, prima di abbandonare lì il pezzo di dito e cambiare ospedale. “Mi hanno lasciato per più di un’ora con dolori lancinanti – ha dichiarato – se osavo chiedere spiegazioni mi trattavano male”»(2).
Per chi è invece ricoverato la giornata del paziente è scandita in tutto e per tutto sempre da lunghe attese: «Aspetti il prelievo, la colazione, la pulizia della stanza e dei bagni, la visita medica, che è l’appuntamento più importante, il pranzo con la visita dei familiari, le visite specialistiche, la cena delle ore sei, e la visita pomeridiana dei familiari, infine l’ora buona per addormentarti. Questo impegno costante nell’attendere non mi consente di fare nulla. Mi ero portato un libro ma non sono riuscito a leggere nemmeno una pagina. Neppure il quotidiano riesco a leggere con la dovuta attenzione. La mente risulta sempre concentrata nell’attesa di un evento successivo. Anche un mio amico, che è stato ricoverato 20 giorni in ospedale, ha vissuto la stessa esperienza»(3)


Il tempo dell’attesa, dicevamo all’inizio, in una struttura ospedaliera per un paziente è psicologicamente snervante. Perché quel “si metta lì e aspetti” detto da un operatore sanitario (infermiere o medico) sembra un’attesa indefinita, angosciante. Soprattutto se si attendono gli esiti di una visita, di un esame importante che decreta la vita o la morte. Oppure la nascita di un figlio e si sente la propria moglie urlare dietro una porta e non si è deciso di assisterla durante il parto.
Per analogia le lunghe attese sono presenti in qualunque istituzione totalizzante come nei manicomi, nelle carceri e nei campi di concentramento. In queste ultime strutture i nazisti uccidevano simbolicamente due volte le persone, prima una “uccisione psicologica” con le attese e poi quella fisica. Come ebbe a dire «Settimia Spizzichino: “Ad Auschwitz ci ammazzavano con le attese!”»(4).
Eppure l’attesa è un affidarsi ciecamente delle mani di un medico, di un chirurgo, di un infermiere come se avessero quasi una sorta di bacchetta magica per farci guarire.
L’attesa è ormai diventata uno status ospedaliero, una sorta di “malattia cronica” dei nosocomi e il malato non a caso viene chiamato paziente cioè «colui che soffre, dalla radice etimologica di patire, ma è anche chi attende e persevera con tranquillità»(5). Fare aspettare vuol dire comunque che la struttura ospedaliera ed i suoi dipendenti in qualche modo hanno una forma di dominio sul paziente e lui stesso ne viene catturato: trascorre il tempo a pensare che cosa succederà dopo l’attesa, che cosa si aspetta dall’attesa, se una buona o una cattiva notizia. Quindi non ha più «l’autonomia di potersene andare»(6).
E il tempo di attesa psicologicamente si dilata per cui la mezz’ora di attesa per un ricovero sembra essere un’eternità: «Devono ricoverarmi per un intervento chirurgico programmato. L’impiegato non mi ha informato di nulla, mi ha detto soltanto: “La chiamo io”. Mi telefona un’amica, le rispondo che sto aspettando da molto, da mezz’ora. Lei osserva che in fondo mezz’ora non è tanto, ed ha ragione. Ma a me sembra tantissimo, tutte le persone al piano terra dell’accettazione passano da un’attesa all’altra»(7).
Il tempo in ospedale è una continua attesa senza che nessuno dia delle spiegazioni. Allora l’attesa diventa anche smarrimento, tensione e paura.
Succede però che gli stessi operatori, per lavorare il meno possibile, rimandino a più tardi dei semplici e banali interventi ai malati in corsia. Rimandano e rimandano semplici operazioni affinché se li “sciroppino” i colleghi del turno successivo: è tragico da dirsi ma per loro il paziente è come non esistesse. Sentite in proposito questo significativo dialogo raccolto sempre nel libro “Barelle” curato da Nicola Valentino: «”Il signore accanto a me si è sporcato di feci. Lo venga a pulire”.
“Sì, ora vengo”.
Passa mezz’ora e non viene.
Lo vado a cercare e gli ripeto la richiesta.
“Se aspetta altri cinque minuti viene il mio collega che monta per il turno di notte”.
“Ma il signore sta nelle feci da tempo, sbraita, la stanza puzza e dobbiamo dormire”.
E’ alle strette. Viene a fare a malincuore la pulizia»(8).


(1)   “Ai confini della sanità. I cittadini alle prese con il federalismo” Rapporto PiT Salute 2007, XI edizione. In www.cittadinanzattiva.it
(2)      La Repubblica, 7 novembre 2000 inBarelle – I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle Foglie 2008, p. 58
(3)      “Barelle – I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle Foglie 2008, p. 59
(4)      “Barelle I dispositivi mortificanti dell’ospedalizzazione” a cura di Nicola Valentino, ed. Sensibili alle Foglie 2008, p. 58
(5)      Ibidem p. 59
(6)      Ibidem
(7)      Ibidem p. 59
(8)      Ibidem p. 62

venerdì 9 novembre 2012


>> L’Ozio cosiddetto “padre dei vizi” <<

(7^ puntata)



Nella nostra frenetica società molto spesso ci troviamo davanti a una sorta di paradosso: o a non avere tempo per nessuno, né per i rapporti umani, né per sé stessi, oppure ad avere i cosiddetti “tempi morti”, cioè dei momenti vuoti della nostra esistenza. Sarà capitato a tutti di conversare con asserzioni totalmente senza senso, sconclusionate, magari fatte per riempire un momentaneo vuoto, una noia, usando magari male quel tempo che ci viene donato. I cosiddetti “tempi morti”  della nostra esistenza.
Per i latini l' “otium” era la condizione dell'individuo privilegiato, che stavano bene in denaro, se lo potevano permettere solo il padrone ricco di schiavi, che erano padroni della loro vita e di quella degli altri, appunto degli schiavi. Si potevano permettere di oziare solo se non erano costretti a lavorare per sopravvivere. In altre parole l' “otium” dei latini era lo stile di vita del padrone aristocratico, del patrizio romano, del parassita dello Stato, che si gode la cosiddetta “bella vita” avendo molto tempo libero da poter spendere in diverse e divertenti attività. Ecco dunque che gli aristocratici latini potevano permettersi anche di godere della sfera del piacere, della bellezza, del godimento culturale ed estetico, della dimensione ricreativa, ludica e libidinosa della vita. I latini oziando poteva, ad esempio, andare alle Terme e curarsi nel corpo, mentre potevano anche frequentare luoghi di cultura e fare filosofia per arricchire lo spirito. Cosa che invece non poteva fare il povero, lo schiavo costretti a lavorare per sopravvivere assieme alle loro famiglie.
Eppure ancora oggi per molti l'avere tempo per oziare è “roba da ricchi”. Forse è uno stereotipo?
«E’ la vera ricchezza il tempo. Chi è ricco è colui che riesce a gestire il proprio tempo e riesce a spendere il proprio tempo in ciò che ha piacere di fare. Nel momento in cui io ho lavorato 10-12 ore e ne ho dormite almeno 7, 2-3 ore sono dedicate agli spostamenti. Ne rimangono 2. In due ore che cosa faccio? Posso andare a fare una partita di tennis, per esempio due ore non sono sufficienti per una partita di golf. I golfisti si sono fatti costruire la casa vicino al campo da golf per il tempo. Perché i golfisti amano passare il tempo con la loro passione»
E lei come fa?
«Ho delle altre persone che mi aiutano evidentemente. Cioè do lavoro ad altre persone, la mia segretaria e i miei collaboratori talvolta fanno anche delle attività che io dovrei fare nella mia vita privata, del tipo andare a farmi aggiustare la macchina perché altrimenti non sarei in grado di portarla»(1)..
La storia comunque si ripete. Perchè se all'epoca dei romani l'ozio era per i ricchi patrizi, chi lavorava? Gli schiavi come abbiamo detto. Oggi invece, come abbiamo sentito, i ricchi si divertono giocando a golf nel loro molto tempo libero, mentre fanno lavorare altre persone per addirittura farli  fare cose piccole come andare ad aggiustare l'automobile.


Una sociologa alla giornalista della già citata trasmissione Rai Ballarò dice infatti: «Le classi sociali più alte hanno più tempo perché hanno la possibilità di acquistare dei servizi che consentono di ridurre il tempo vincolato, quello che ci è dato, quello che non si può scegliere perché è fatto di incombenze».
Questo interessante servizio citato ci dice anche che sono nate delle società di servizi proprio per soddisfare i benestanti, la ricca borghesia: ad esempio prenotare i posti e farsi i biglietti per un viaggio, noleggiarsi automobili, fare la fila per rinnovare il passaporto al proprio ricco cliente.... fino addirittura a cercare regali per le festività ai propri cari, mogli, figli ecc. fino a far dire al titolare di una agenzia specializzata in questi servizi che «noi cerchiamo quel regalo, glielo impacchettiamo e glielo recapitiamo ovviamente non arriviamo a scrivere il bigliettino perché sarebbe abbastanza impersonale e però quello è un bel risparmio di tempo!»(2).
C'è invece l'altra parte che non può certo permettersi di oziare, che viaggia sui mezzi pubblici per andare a lavorare e che non ha neanche pochi minuti per riposare. Significativa questa battuta colta al volo all'entrata di una linea della metropolitana di Roma sempre dalla giornalista di Ballarò del servizio sopra citato:«Il tempo? Se ne ha un po’ da darmi la ringrazio, non ne ho»(3). Ed anche quest'altra breve storia raccontata da una donna sempre in quella trasmissione: «Ho l’intera famiglia sulle spalle, ho le figlie che escono da scuola e nessun altro le può andare a prendere. Ho il cane, porto il cane a fare la passeggiata, poi torno a casa mi preparo, esco e vado a fare la spesa, poi torno, aiuto mia mamma, preparo, vado a prendere a scuola le ragazze, il pomeriggio le aiuto a fare i compiti, A fine giornata desidero solo un letto dove dormire»(4).

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Eppure i greci coniarono la frase “epimelestai eautou”, cioè “occupati di te stesso” quello che i latini chiamavano appunto l' “otium” che serviva a curare l'anima e il corpo. E non era certamente inteso come una perdita di tempo, per chi se lo poteva permettere. Furono i filosofi ed i poeti a scoprire questa sorta di “terapia”, di “medicina” dello spirito. Queste persone si incontravano per disquisire ma anche per curare bene il proprio corpo ad esempio alle terme, oppure facendo dello sport che faceva bene anche allo spirito. Ed è attraverso la cura e l’intenso rapporto del sé, correggendolo e trasformandolo che si arriva, per certuni, alla edificazione della propria salvezza. Dunque una modalità di approccio quasi terapeutica e per certi versi edonistica. 
«E’ l’esperienza di sé che si forma in questo possesso, non è semplicemente quella di una forza padroneggiata (...); è quella di un piacere che si trae da se stessi»(5).
Appare chiaro allora che possono curare con apposite tecniche il proprio Essere solo i cosiddetti «spiriti tranquilli e sereni (...) mentre quelli sempre carichi di impegni, come fossero sotto un giogo, non possono voltarsi a guardare indietro(...). La loro vita, dunque, si perde negli abissi del tempo (...) non ha alcuna importanza la quantità di tempo concesso se non ha un luogo per raccogliersi, ma passa attraverso delle vite sconnesse e incapaci di trattenerlo»(6).
Tutto nella vita dell'uomo ha un prezzo e quello «altissimo da pagare è la perdita di serenità. Come fa l'uomo veloce a liberarsi dal senso di angoscia che lo invade quando si ritrova in un vizioso inseguimento di cose da fare che non riescono a portare a termine per colpa di altre cose da fare che non si riescono a portare a termine, e così via...?»(7).
Per questo tipo di persone può esistere allora il “dolce far niente”? Esiste il cosiddetto “diritto all'ozio”?
Ci dice ancora Baker nel suo libro già citato che «pigrizia e ozio non sono la stessa cosa. (...) L'ozio ha un legame nobile con la cultura latina, ha connotati filosofici accettati pure dai borghesi più biechi. Mentre la pigrizia è figlia rinnegata, roba da fogna, bersaglio di tutti i moralismi. Essere pigri equivale ad essere delinquenti»(8).
Un tempo infatti l'ozio e la pigrizia facevano parte, per il cristianesimo più chiuso, dei vizi-peccati capitali: era l'accìdia osteggiata dalla tradizione giudaico-cristiana. In proposito il teologo battista statunitense Harvey Cox ha scritto: «Acedia viene dalle parole greche per esprimere non curanza (a-non: kedos-cura). I primi teologi cristiani considerarono acedia (accìdia) come uno dei sette peccati mortali»(9).


Se ricordate i nostri nonni dicevano che senza fare niente vengono i cattivi pensieri, mentre invece oggigiorno abbiamo bisogno di un tempo di ozio, non tanto per “bighellonare” tradotto più volgarmente in “cazzeggiare”; da quell'ozio (che etimologicamente è la negazione del “negotium”) che invece può diventare una virtù, cioè il saper gestire bene il proprio tempo libero con la creatività per migliorare, coltivare e valorizzare bene l'Essere, lo Spirito: non si è certo dei fannulloni se si impiega il tempo nella lettura di bei libri, nella visione di una mostra d'arte, in una passeggiata in campagna ascoltando i grilli e le cicale cantare, o nello stare seduti in spiaggia sotto il sole ad osservare il mare, le barche e l'orizzonte e meditare, riflettere e godere delle bellezze naturali o far correre i propri pensieri alla ricerca di ispirazioni poetiche o di altro. Ciò ci darebbe gioia e piacere nella vita soltanto se riuscissimo a volerlo, soltanto se riuscissimo meglio ad organizzare il nostro tempo. E se ne avessimo davvero le possibilità. «In fondo, il dolce far niente può essere l'occasione di un calmo viaggio all'interno di noi stessi. (...) Non fare niente ci permette di inseguire un pensiero passeggero, una musica sconosciuta ma familiare, contemplare il viso di un essere caro. E non trarne subito delle conseguenze»(10).


(1) Tratto da Ballarò trasmissione del 18/11/2008 – servizio “Il rapporto tra tempo libero e tempo lavoro – Poter vivere il tempo libero è la vera ricchezza di oggi” di Manuela Maddaloni e Vizia Portella
(2)    Ibidem
(3)     Ibidem
(4)     Ibidem
(5)     M. Foucault (1984) “La cura di Sé”, tr.it. Feltrinelli, Milano 1993, p. 46.
(6)     L.A. Seneca, “La brevità della vita”, Newton Compton, Roma 1994, p. 3
(7)     C.Baker, “Ozio, lentezza e nostalgia”, EMI, Bologna 2001, p. 49
(8)     Ibidem p. 69
(9)  H. Cox, “Non lasciatelo al serpente”, traduzione di A. Sorsata, (Teologia Publica), Queriniana editrice, Brescia, 1969, p.15
(10)    Ibidem p. 78