sabato 2 novembre 2013
sabato 28 settembre 2013
AOSTA
28/09/2013 - AMBIENTE
Il pirogassificatore di Borgofranco
spaventa anche la Bassa Valle
L’area dove dovrebbe sorgere il pirogassificatore
“Per le nano particelle non c’è confine, la sperimentazione è una decisione scellerata”
DANIELA GIACHINO
PONT-SAINT-MARTIN
L’impianto sperimentale che la Provincia di Torino ha autorizzato per due anni a Borgofranco d’Ivrea, che prevede la combustione di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da plastiche generiche, pollina, fanghi di cartiera e fanghi provenienti da impianti di depurazione delle acque reflue urbane, ha coinvolto anche gli abitanti della Bassa Valle d’Aosta.
A fianco dei comitati dei cittadini «Dora Baltea che respira» e «Dora Baltea in movimento» anche il gruppo «No Piro», la cui posizione boccia in modo esplicito anche la sola sperimentazione. Tra loro pure alcuni cittadini della Bassa Valle. «Siamo fermamente e pacificamente contrari all’attivazione del pirogassificatore di Borgofranco d’Ivrea, nell’area dell’ex Alcan - dice Gigi Bussi referente valdostano del comitato -. L’impianto non deve operare perché porterà sicuro e grave danno alla salute della popolazione e all’ambiente. I progetti presentati in Provincia parlano della vera intenzione speculativa: dopo la sperimentazione si vuole utilizzare l’impianto installato per passare all’incenerimento permanente di grandi quantità di rifiuti. Lo dimostra il fatto che è stata presentata la richiesta di poter bruciare 16 mila tonnellate l’anno. Il no alla sperimentazione è quindi inscindibile dal no netto all’utilizzo del grande pirogassificatore che si vuole attivare nell’immediato futuro».
Accanto ai comitati si è schierata Valle Virtuosa. «Quello che sta accadendo ai confini della Valle d’Aosta ci tocca direttamente - dice Jeanne Cheillon, presidente di Valle Virtuosa -. Gli scienziati dicono che le nano particelle sprigionate dai pirogassificatori percorrono migliaia di chilometri. Non essendoci a Carema un muro, non solo la Bassa Valle subirà le conseguenze dell’inquinamento, ma tutta la Valle d’Aosta. Con il ricatto dei nuovi posti di lavoro si vuole imporre una decisione scellerata».
Il comitato «No Piro» guarda al futuro. «Il turismo del futuro premierà i territori che avranno salvaguardato la loro integrità e le loro bellezze naturali - aggiunge Bussi -. Il pirogassificatore sarà un danno di sostanza e di immagine allo sviluppo di questo settore che riteniamo fondamentale dopo la deindustrializzazione del nostro territorio. L’incenerimento è un sistema di smaltimento dei rifiuti arcaico, con una ricaduta occupazionale minima. La vera occupazione proviene dall’impiego di personale in attività che realizzi la separazione, il riciclo e il recupero dei materiali». I componenti del comitato «No Piro» invitano coloro che sono interessati alla salvaguardia dell’ambiente agli incontri organizzati tutti i giovedì alle 21 al bar Sport di Tavagnasco.
FONTE:http://www.lastampa.it/2013/09/28/edizioni/aosta/il-pirogassificatore-di-borgofranco-spaventa-anche-la-bassa-valle-EojxyveM090xxWsLXFRDxO/pagina.html
28/09/2013 - AMBIENTE
Il pirogassificatore di Borgofranco
spaventa anche la Bassa Valle
L’area dove dovrebbe sorgere il pirogassificatore
“Per le nano particelle non c’è confine, la sperimentazione è una decisione scellerata”
DANIELA GIACHINO
PONT-SAINT-MARTIN
L’impianto sperimentale che la Provincia di Torino ha autorizzato per due anni a Borgofranco d’Ivrea, che prevede la combustione di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da plastiche generiche, pollina, fanghi di cartiera e fanghi provenienti da impianti di depurazione delle acque reflue urbane, ha coinvolto anche gli abitanti della Bassa Valle d’Aosta.
A fianco dei comitati dei cittadini «Dora Baltea che respira» e «Dora Baltea in movimento» anche il gruppo «No Piro», la cui posizione boccia in modo esplicito anche la sola sperimentazione. Tra loro pure alcuni cittadini della Bassa Valle. «Siamo fermamente e pacificamente contrari all’attivazione del pirogassificatore di Borgofranco d’Ivrea, nell’area dell’ex Alcan - dice Gigi Bussi referente valdostano del comitato -. L’impianto non deve operare perché porterà sicuro e grave danno alla salute della popolazione e all’ambiente. I progetti presentati in Provincia parlano della vera intenzione speculativa: dopo la sperimentazione si vuole utilizzare l’impianto installato per passare all’incenerimento permanente di grandi quantità di rifiuti. Lo dimostra il fatto che è stata presentata la richiesta di poter bruciare 16 mila tonnellate l’anno. Il no alla sperimentazione è quindi inscindibile dal no netto all’utilizzo del grande pirogassificatore che si vuole attivare nell’immediato futuro».
Accanto ai comitati si è schierata Valle Virtuosa. «Quello che sta accadendo ai confini della Valle d’Aosta ci tocca direttamente - dice Jeanne Cheillon, presidente di Valle Virtuosa -. Gli scienziati dicono che le nano particelle sprigionate dai pirogassificatori percorrono migliaia di chilometri. Non essendoci a Carema un muro, non solo la Bassa Valle subirà le conseguenze dell’inquinamento, ma tutta la Valle d’Aosta. Con il ricatto dei nuovi posti di lavoro si vuole imporre una decisione scellerata».
Il comitato «No Piro» guarda al futuro. «Il turismo del futuro premierà i territori che avranno salvaguardato la loro integrità e le loro bellezze naturali - aggiunge Bussi -. Il pirogassificatore sarà un danno di sostanza e di immagine allo sviluppo di questo settore che riteniamo fondamentale dopo la deindustrializzazione del nostro territorio. L’incenerimento è un sistema di smaltimento dei rifiuti arcaico, con una ricaduta occupazionale minima. La vera occupazione proviene dall’impiego di personale in attività che realizzi la separazione, il riciclo e il recupero dei materiali». I componenti del comitato «No Piro» invitano coloro che sono interessati alla salvaguardia dell’ambiente agli incontri organizzati tutti i giovedì alle 21 al bar Sport di Tavagnasco.
FONTE:http://www.lastampa.it/2013/09/28/edizioni/aosta/il-pirogassificatore-di-borgofranco-spaventa-anche-la-bassa-valle-EojxyveM090xxWsLXFRDxO/pagina.html
sabato 12 gennaio 2013
>> Il mondo protestante valdese entra in carcere <<
(10^ puntata)
carcere parigino La Santé
Sappiamo che
in generale per il mondo protestante il centro della fede è la Sacra
Scrittura, “sola Scrittura”, aveva detto di seguire Martin Lutero
al momento della Riforma. Oltre ovviamente alla “sola Fede e sola
Grazia”.
Ecco dunque
che il pastore Francesco Sciotto della Chiesa Valdese di Palermo,
dopo aver effettuato il servizio civile al carcere minorile a Bicocca
(Catania), chiese alla Facoltà valdese di poter effettuare un anno
di studio all’estero sempre sul carcere. Fu la Fédération
Protestante de France a chiedergli nel periodo ottobre 2000 - marzo
2002 di fare uno stage di lavoro alla prigione Santé a Parigi.
Rientrato in
Italia dopo questa interessante e formativa esperienza, il pastore
Sciotto nel maggio 2003 discusse la tesi di laurea in Teologia
pratica presso la Facoltà Valdese a Roma dal titolo “Nel pozzo
delle rane. Esperienze di cappellania carceraria” .
Attualmente
Francesco Sciotto è coordinatore del gruppo di lavoro sulle carceri
della Federazione chiese evangeliche d’Italia.
Una voce
autorevole, dunque, che parte affrontando l’argomento più caro a
tutti i fratelli protestanti: la Bibbia con il primo capitolo dal
titolo “La prigione nelle Sacre Scritture”
Nelle pagine
del pastore Sciotto troviamo degli spunti molto interessanti: La
Bibbia, ad esempio, che può diventare «il
fulcro di ogni relazione d’aiuto. Lo è innanzitutto perché
accompagna lungo il suo lavoro il counselor.
Lo accompagna all’inizio della relazione, nelle prime visite dove
si chiacchiera del più e del meno. Lo accompagna in seguito,
nell’ascolto, quando la sofferenza si fa parola e richiesta di
aiuto. Lo affianca negli alti e bassi del lavoro in generale.
Ma è fulcro
anche e soprattutto perché, poco a poco, accompagna anche la
sofferenza del detenuto, che in maniera naturale e spontanea chiede
di leggere dei passi, di condividere le sue impressioni, le sue
preghiere. È questa condivisione, questo confronto, che fa rivivere
il testo biblico, che lo rende spesso parlante.
La Bibbia
diventa a questo punto funzione stessa della relazione, collante
dell’accompagnamento pastorale» (1).
Ovviamente
però sempre più frequentemente i detenuti usavano la Bibbia come
pretesto per scambiare quattro chiacchiere, per bere un caffè,
insomma per incontrare qualcuno di fuori magari come «richiesta
di aiuto che viene da chi esperisce un vuoto quotidiano ed
esistenziale da colmare, una ferita da rimarginare, un dolore da
sedare. Ebbene, credo che a pochi dei nostri contemporanei che si
trovino in tali condizioni, capiti di aprire una pagina a caso delle
Scritture e di trovarvi all’interno immediato lenimento. La Bibbia
è, per la maggior parte delle persone, niente di più che un libro
scritto troppi secoli addietro. Qualcosa che non riesce più a
parlare alla gente d’oggi» (2).
Da un
attenta e meditata lettura biblica si può vedere come si trovi il
tema della prigionia e
della prigione, ma
anche quello dell’attesa
che il pastore Sciotto ha evidenziato nell’Antico Testamento e
dell’utilizzo repressivo del carcere
portato alla luce nel Nuovo Testamento.
La cosa che
fa più specie è che a Bibbia disconosce il volto della prigione e
del carcere «inteso come pena. Questa
peculiarità ne fa il luogo dell’espiazione, della punizione, ma
anche del ravvedimento, della reinserzione» (3).
Nella Bibbia
l'attesa dei prigionieri diviene l'attesa metaforica di qualche cosa
d' altro, giudizio divino, intervento di un liberatore o intervento
celeste.
Inoltre ci
dice sempre il pastore Sciotto nella sua tesi «non
c'è qui un giudizio moralistico su chi è “dentro”. Nessuno ci
dice se hanno meritato o no la detenzione, semplicemente perché si
tratta di persone che aspettano, che probabilmente lo fanno soffrendo
e che sono in balia delle prepotenze e delle sopraffazioni dei
potenti. Quest’attesa, ingiusta e per di più incerta, penosa,
diventa paradigma esistenziale di coloro che attendono; metafora, pur
triste, di una speranza. La loro condizione diviene un’immagine di
attesa escatologica e teologica di liberazione» (4).
Interessante
è poi cogliere nel lavoro del pastore Sciotto che è stato, lo
ricordiamo, anche cappellano in Francia e lo è tutt'ora come
volontario in Sicilia, il fatto che non si è da soli con il detenuto
ma «al timone della barca, oltre a noi e al detenuto, ci sia il
Cristo dormiente che, nel racconto evangelico di Mc. 4, 35-41 guida
la barca in mezzo alla tempesta. È questa una notazione che in prima
istanza deve essere chiara al pastore: nella relazione d’aiuto non
siamo, né saremo mai capaci di aiutare qualcuno da soli, etsi
deus non daretur. La nostra specificità
sta nel fatto che proviamo a tradurre e riformulare le ansie e gli
stati d’animo del nostro interlocutore in preghiera e riflessione;
mai in terapia, né ictanto meno in analisi. Questo non significa che
dovremo sempre trovare un versetto biblico che risponda per noi a
tutte le frasi pronunciate da un detenuto, o che quest’ultimo debba
ogni cinque minuti sentirsi da noi invitato a pregare o a studiare
insieme un passo della bibbia. Tutti i manuali potranno darci delle
indicazioni su come valutare ciò che abbiamo ascoltato. Come
qualsiasi counselor dovremo, dopo aver valutato, scegliere una rotta
possibile per far progredire il lavoro, ma dovremo fare tutto ciò
sapendo che il nostro ruolo è quello di cappellani» (5).
«Sai
Ciccio, negli ultimi giorni mi è capitato di trovarmi spesso a
pregare per ciò che sta succedendo in Palestina. Stavo con la Bibbia
in mano leggevo qualche passo, dopo aver acceso una candela, e
pregavo il Signore. Vorrei che oggi facessimo questo insieme”.
Avevo appena aperto la porta della sua cella, non mi ero ancora
seduto, che F. mi aveva già detto queste parole. F. era un detenuto
di origini nordafricane, nato e cresciuto in Francia, che prima di
entrare in carcere poco o nulla aveva avuto a che fare con la
religione. In prigione, dopo un lungo periodo di visite e
partecipazione ai culti, chiese all’équipe dei pastori della Santé
di essere battezzato. Credo che la preghiera abbia accompagnato in
maniera assai rilevante il suo percorso di fede dietro le sbarre» (6).
Può
capitare che il cappellano venga interpellato sulla preghiera, sul
come pregare; ebbene Sciotto dalla sua esperienza ci dice di
utilizzare il linguaggio comune dei detenuti e «soprattutto il
momento nel quale offriamo a Dio le nostre difficoltà ed i nostri
stati d’animo, perché egli se ne curi. È assolutamente importante
che il detenuto che ci chiede di pregare insieme a lui riconosca
nelle parole che offriamo al Signore le sue ansie, il suo
ringraziamento, la sua gioia, la sua lode, i suoi modi di dire» (7).
Per
ciò che riguarda il culto il pastore Sciotto racconta la sua
esperienza parigina:
«Alla
prigione della Santé il culto avveniva ogni quindici giorni, al
sabato, animato da uno o più dei quattro cappellani dell’équipe.
Dopo la lettura di un breve passo di un Salmo, o di un libro dei
profeti, e una breve preghiera, si leggeva un testo e cominciava una
discussione libera, introdotta dal pastore e da lui moderata. Tutti
potevano iscriversi al culto e intervenire e spesso il discorso
verteva su tematiche riguardanti la detenzione e la vita in carcere.
Dopo una mezz’ora, si chiudeva la celebrazione con un canto, o con
delle preghiere spontanee, o dicendo tutti insieme il “Padre
Nostro”. Il culto protestante è considerato dai detenuti della
Santè uno dei momenti di massima libertà della vita del carcere.
Tradizione vuole ormai che siano iscritti al culto protestante tanti
detenuti che si considerano “politici”: i baschi, ad esempio, i
corsi, i kurdi. È un momento in cui ci si può incontrare e
discutere e tutti i detenuti che pensano che manchino in detenzione
spazi di confronto si battono perché esso funzioni. Un detenuto di
origini nordafricane, che aveva scoperto che ero uno dei cappellani
protestanti del carcere, e che probabilmente poco sapeva di religione
e religioni, mi chiese un giorno: “tu sei il
cappellano protestante? Vieni dalla Corsica o dai paesi Baschi?”
Certamente non sapeva cosa fosse la Riforma. Credeva che i corsi ed i
baschi fossero tutti protestanti, perché aveva sentito che quasi
tutti i detenuti corsi e baschi venivano al culto protestante» (8)
Alla
prigione della Santé di Parigi veniva celebrato il culto di Santa
Cena che il pastore Sciotto ci descrive così: «Celebravamo la Santa
Cena due volte l’anno, a Pasqua ed a Natale. La celebrazione aveva
dunque una frequenza minima e coincideva con le feste. Questo ci dava
la possibilità di chiedere alla direzione del carcere, sempre
disponibilissima, di vivere insieme ad i detenuti un breve momento di
festeggiamento dopo il culto. In questi casi chiudevamo il culto con
la Cena e dopo ci fermavamo per una mezz’ora con i detenuti, per
mangiare qualcosa con loro, tutti insieme. Avevamo infatti anche la
possibilità, in queste occasioni, di portare qualche succo di frutta
e dolcetti o salatini. Niente di particolare, in fin dei conti. Ma
era un momento di festa, che potevamo passare in compagnia. Al culto
protestante erano iscritti anche parecchi detenuti islamici. È ovvio
che loro in primis non desiderassero partecipare alla Santa Cena: non
potevano bere il vino, che è una bevanda alcolica e capivano
benissimo, senza che ci fosse bisogno che qualcuno lo spiegasse loro
con un divieto, che stavamo celebrando qualcosa che non apparteneva
alla loro spiritualità. Ciò non vietava ad i musulmani di
partecipare alla nostra e loro festa» (9).
------------------------------------------------------------------------------------------------------
.
(1) F. Sciotto, “Nel pozzo delle rane. Esperienze di cappellania
carceraria”, tesi in Teologia Pratica della Facoltà Valdese di
Roma, p. 9
(2) Ibidem p. 8
(3) Ibidem
p. 31
(4) Ibidem
p. 32
(5) Ibidem
p. 96
(6) Ibidem
p. 99
(7) Ibidem
(8) Ibidem
p. 102
(9) Ibidem
p. 105
giovedì 3 gennaio 2013
>>Intervista
al cappellano cattolico del carcere di Opera (MI)<<
(a cura
di Lidia Maggi, pastora battista Chiesa di Varese)
(9^ puntata)
"....Il
male ti segna. Il carcere ti consuma, psicologicamente e fisicamente.
Per sopravvivere devi sempre mantenere un certo distacco dal dolore
che quotidianamente ti assale. Rispetto alla mia esperienza,
all'inizio ho provato una profonda rabbia: mi chiedevo come si
potessero trattare così degli esseri umani ed ero convinto di poter
cambiare tutto. Poi c'è stata la sofferenza e, infine, ho avvertito
un senso di assurdità per come viene gestita la detenzione. Sembra
di stare in un asilo per adulti: privati di qualsiasi autonomia e
iniziativa, anche i carcerati finiscono per avere un atteggiamento
infantile. Durante una visita a Opera, Candido Cannavò rimase
colpito dal modo in cui i detenuti cercavano di richiamare la mia
attenzione. Disse che gli ricordavano i ragazzi dell'oratorio...." (Don Marcellino Brivio, già Cappellano della Casa di Reclusione di
Milano Opera).
Mi è stato
chiesto di aiutare chi legge a riflettere sulla preghiera in carcere.
Ne ho parlato con Marcellino Brivio, cappellano del carcere di Opera
(MI). Ne è nata una comunicazione intensa. Ho pensato di offrirne
alcuni frammenti in questa intervista (1).
E’ possibile pregare in carcere?
«Non so se
sia possibile, ma accade. Le persone in prigione pregano. E’ un
bisogno che nasce dal di dentro e dalla situazione carceraria stessa.
Il linguaggio della preghiera diventa paradossalmente quello con cui
il detenuto si relaziona con tutti coloro che non sono segregati. Mi
capita così di ricevere piccoli messaggi dove il verbo pregare è
sempre presente: don Marcellino, ti prego,
contatta il mio avvocato…ti prego, telefona a mia moglie… ho
bisogno di vederti: ti prego, passa da me.
Non va sottovalutato questo rapporto di assoluta dipendenza che rende
il detenuto particolarmente vulnerabile, quando si affronta il tema
della preghiera. Bisogna vigilare sul linguaggio della richiesta che
trasforma la preghiera in una formula di reverenza per ottenere da
chi è fuori alcuni favori. Il rischio più frequente è che la
persona imprigionata, nella preghiera, più che rivolgersi ad un Dio
d’amore si costruisce un’immagine di Dio dove si riproducono i
rapporti di potere sperimentati nella struttura del carcere. Nel
pregare ci si rivolge così ad un’entità più o meno definita ma
più potente e, dunque, da riverire per ottenere dei vantaggi».
Come si prega in prigione?
«Tanti
iniziano a pregare proprio in carcere. Io cerco di accompagnare
quest’educazione alla preghiera con la Bibbia e, in particolar
modo, con i salmi. Nei salmi il prigioniero si identifica con quel
pathos che porta il salmista a gridare, a ricercare soccorso e aiuto.
Le immagini di pericolo, evocate in queste preghiere, sono tradotte
nella vita di ognuno con esperienze concrete di difficoltà. Questo
favorisce l’identificazione con il testo. Il linguaggio dei salmi è
poi talmente umano da incoraggiare chi prega a non censurare le
parole, le emozioni. Si scopre così che il Dio biblico non si stanca
mai di ascoltare, anche quando si esprimono sentimenti inopportuni
come la collera, l’odio e la vendetta. Dio vuole entrare in dialogo
con ogni aspetto della nostra vita, non vuole occuparsi solo di cose
spirituali! Questo scopriamo nei salmi. Quando il detenuto arriva ad
intuire questa “libertà”, inizia davvero a gustare la Bibbia ed
esclama: qui si parla di me, questo sono io!»
Questo rapporto di identificazione col
testo, può talvolta diventare pericoloso: quando è importante
ristabilire la distanza con la narrazione biblica?
«I rischi
di appropriarsi indebitamente del testo biblico sono continuamente in
agguato. E’ facile leggere la storia della passione e trovare
detenuti che si identificano con Gesù. Immaginate i commenti di un
piccolo gruppo di detenuti che discute insieme i testi della
domenica, quando si affronta il processo a Gesù. Per ogni figura c’è
una trasposizione contemporanea: dal pubblico ministero all’imputato
all’avvocato di ufficio. Tuttavia, questo incontro diretto con il
testo è indispensabile per acquisire un rapporto personale con Dio.
E’ essenziale scoprire, capire che la Bibbia parla a te! I problemi
più seri nascono, invece, quando la preghiera non è mediata
dall’ascolto della Parola»
Quest’ultima è l’esperienza più
comune in carcere! Chi riscopre la preghiera lo fa attraverso forme
tradizionaliste: ritorna di moda il rosario, i santini, i vari
protettori… E non solo tra i detenuti, più spesso tra le guardie!
«E’
vero, le derive devozionalistiche sono frequenti. Il carcere non
aiuta il confronto in nessun ambito, tantomeno in quello della fede.
La prigione nega la vita comunitaria. Ognuno è lasciato a se stesso,
senza tuttavia rimanere solo davanti a Dio. La struttura del carcere
non permette una dimensione comune della preghiera, necessaria per
costruire comunione (ma è possibile la comunione in carcere?) e per
correggere distorsioni e superstizioni»
Come arrivano i detenuti a
riscoprire la preghiera?
«Alcuni
attraverso percorsi tradizionali, ascoltando radio Maria per esempio;
altri, spesso stranieri, hanno avuto contatti con pastori evangelici.
Da loro hanno acquisito una dinamica di “lettura pregata” della
Scrittura. In entrambi i casi la preghiera aiuta il detenuto a
reggere il carcere, a guardare positivamente una situazione di
disagio. Ristabilisce un certo equilibrio interiore, lo rasserena,
aiutandolo ad accettare la difficile realtà che si trova ad abitare»
Una preghiera che anestetizza il
dolore, dunque.
«Può
darsi. Il rischio di accettare troppo passivamente la struttura
carceraria è davvero concreto. Non è semplice capire quando aiutare
il detenuto a reagire e quando incoraggiarlo nelle fughe spirituali.
L’equilibrio è sempre fragile. Da una parte è solo accettando il
carcere che si può “sopravvivere” alla struttura; e dall’altra
bisogna vigilare perché quest’accettazione non sia troppo
tranquillizzante. Una canzone in voga dice: Siamo
nel tunnel, non possiamo uscire, almeno pitturiamolo!
Ecco, la preghiera può essere anche questo: il colore su un tunnel
grigio per aiutare a sopportare una situazione di evidente disagio.
Sì, perché il carcere è un luogo di disagio ed il detenuto dipende
totalmente dagli umori di chi si trova a gestirlo. E’ soggetto a
continue provocazioni, è separato dai suoi affetti ed in continua
ansia per chi ha lasciato all’esterno. Si sente impotente,
vulnerabile, inutile. Inoltre sperimenta l’ingiustizia proprio in
coloro che dovrebbero garantire la giustizia. La rabbia deve essere
repressa senza essere mai del tutto rimossa.
La
preghiera può effettivamente ridare un po’ di ossigeno non solo
consolando e ristabilendo la pace interiore ma anche attraverso la
pratica dell’intercessione. Pregare per i familiari fuori dal
carcere, affidarli a Dio, fa sentire i detenuti responsabili e attivi
verso i propri cari e li aiuta a vincere quel senso di impotenza che
continuamente vivono»
Qual è la forma di preghiera più
comune che ti capita di ascoltare?
«Insieme
alle preghiere di intercessione, le più gettonate sono quelle di
richiesta e di abbandono. Alcuni nella preghiera arrivano a
riconoscere il proprio sbaglio. La preghiera permette di fare un
lavoro introspettivo e di leggersi dentro. Mentre nel colloquio il
detenuto fatica ad ammettere il proprio errore (sono quasi tutti
innocenti, secondo quanto dichiarano), se si riesce ad arrivare alla
preghiera, se io riesco a pregare con la persona che mi parla, si
crea una particolare intimità che permette, tramite la preghiera, di
narrare la propria vita con meno filtri e con più realismo»
Ti capita di sentire di andare in
cortocircuito sul alcuni temi legati al pregare, quando ti trovi in
carcere?
«E’
un continuo cortocircuito, sono scosse senza salvavita! Prendiamo per
esempio il tema del linguaggio. Tutto da rivedere. Pochi giorni fa
come lettura domenicale del vangelo veniva proposto un testo che
chiamava al pentimento. Ho sentito tutte le ambiguità del
linguaggio, pensando al fenomeno del pentitismo. Ho provato a fare un
po’ di ironia dicendo:
“carissimi, oggi abbiamo tutti dovuto fare i pentiti!”
Il linguaggio della fede va rivisitato e necessita nuove parole per
annunciare la speranza evangelica in carcere»
Abbiamo affrontato il
problema di ridurre l’esperienza di fede a devozionalismo ripiegato
su dimensioni individualistiche. E’ possibile intravedere una
pratica di vita cristiana in carcere?
«Davvero
non è semplice. Qualche volta, tuttavia, capita di incontrare
persone che riescono ad emanare, pur nelle difficoltà della
struttura, una forza particolare. E’ una luce che ha poco spazio
per irradiarsi. Può tutt’al più contagiare qualche vicino di
reparto. Sono spesso persone che pregano spontaneamente, nel segreto
o nei colloqui. Credo che chi prende sul serio la preghiera impari a
guardare gli altri con più clemenza. Ho assistito al confronto tra
due detenuti sulla preghiera. Uno diceva all’altro: Preghi
per la tua famiglia e poi ti lamenti perché tua moglie non ti ha
mandato le cose che le hai chiesto! Ma credi che per lei la vita sia
facile? Perché preghi per lei, se poi non la capisci nelle sue
fatiche? Chi prega per gli altri impara ad
uscire fuori da una condizione tipica della situazione carceraria,
ovvero da quell’essere così concentrato su sé stesso e sui propri
bisogni da dimenticare di ascoltare gli altri»
Come è cambiata la
tua fede in carcere?
«Io
provengo da un’esperienza cristiana che ha messo al centro
l’impegno sociale, la condivisione, l’attenzione ai poveri… La
dimensione etica della fede è sempre stata molto forte nel mio modo
di sentire il vangelo. Il carcere mi ha aiutato a purificare la fede,
a non far coincidere il credere con le opere buone. E’ possibile
essere cristiani in carcere? Credere coincide con il comportarsi
bene? Sono proprio i detenuti a richiamarmi alla grazia di Dio,
quando confessano: pensa te, se non c’era il
Signore a risollevarmi…»
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(1) Intervista pubblicata su Gioventù Evangelica del gennaio 2006
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