>> Il mondo protestante valdese entra in carcere <<
(10^ puntata)
carcere parigino La Santé
Sappiamo che
in generale per il mondo protestante il centro della fede è la Sacra
Scrittura, “sola Scrittura”, aveva detto di seguire Martin Lutero
al momento della Riforma. Oltre ovviamente alla “sola Fede e sola
Grazia”.
Ecco dunque
che il pastore Francesco Sciotto della Chiesa Valdese di Palermo,
dopo aver effettuato il servizio civile al carcere minorile a Bicocca
(Catania), chiese alla Facoltà valdese di poter effettuare un anno
di studio all’estero sempre sul carcere. Fu la Fédération
Protestante de France a chiedergli nel periodo ottobre 2000 - marzo
2002 di fare uno stage di lavoro alla prigione Santé a Parigi.
Rientrato in
Italia dopo questa interessante e formativa esperienza, il pastore
Sciotto nel maggio 2003 discusse la tesi di laurea in Teologia
pratica presso la Facoltà Valdese a Roma dal titolo “Nel pozzo
delle rane. Esperienze di cappellania carceraria” .
Attualmente
Francesco Sciotto è coordinatore del gruppo di lavoro sulle carceri
della Federazione chiese evangeliche d’Italia.
Una voce
autorevole, dunque, che parte affrontando l’argomento più caro a
tutti i fratelli protestanti: la Bibbia con il primo capitolo dal
titolo “La prigione nelle Sacre Scritture”
Nelle pagine
del pastore Sciotto troviamo degli spunti molto interessanti: La
Bibbia, ad esempio, che può diventare «il
fulcro di ogni relazione d’aiuto. Lo è innanzitutto perché
accompagna lungo il suo lavoro il counselor.
Lo accompagna all’inizio della relazione, nelle prime visite dove
si chiacchiera del più e del meno. Lo accompagna in seguito,
nell’ascolto, quando la sofferenza si fa parola e richiesta di
aiuto. Lo affianca negli alti e bassi del lavoro in generale.
Ma è fulcro
anche e soprattutto perché, poco a poco, accompagna anche la
sofferenza del detenuto, che in maniera naturale e spontanea chiede
di leggere dei passi, di condividere le sue impressioni, le sue
preghiere. È questa condivisione, questo confronto, che fa rivivere
il testo biblico, che lo rende spesso parlante.
La Bibbia
diventa a questo punto funzione stessa della relazione, collante
dell’accompagnamento pastorale» (1).
Ovviamente
però sempre più frequentemente i detenuti usavano la Bibbia come
pretesto per scambiare quattro chiacchiere, per bere un caffè,
insomma per incontrare qualcuno di fuori magari come «richiesta
di aiuto che viene da chi esperisce un vuoto quotidiano ed
esistenziale da colmare, una ferita da rimarginare, un dolore da
sedare. Ebbene, credo che a pochi dei nostri contemporanei che si
trovino in tali condizioni, capiti di aprire una pagina a caso delle
Scritture e di trovarvi all’interno immediato lenimento. La Bibbia
è, per la maggior parte delle persone, niente di più che un libro
scritto troppi secoli addietro. Qualcosa che non riesce più a
parlare alla gente d’oggi» (2).
Da un
attenta e meditata lettura biblica si può vedere come si trovi il
tema della prigionia e
della prigione, ma
anche quello dell’attesa
che il pastore Sciotto ha evidenziato nell’Antico Testamento e
dell’utilizzo repressivo del carcere
portato alla luce nel Nuovo Testamento.
La cosa che
fa più specie è che a Bibbia disconosce il volto della prigione e
del carcere «inteso come pena. Questa
peculiarità ne fa il luogo dell’espiazione, della punizione, ma
anche del ravvedimento, della reinserzione» (3).
Nella Bibbia
l'attesa dei prigionieri diviene l'attesa metaforica di qualche cosa
d' altro, giudizio divino, intervento di un liberatore o intervento
celeste.
Inoltre ci
dice sempre il pastore Sciotto nella sua tesi «non
c'è qui un giudizio moralistico su chi è “dentro”. Nessuno ci
dice se hanno meritato o no la detenzione, semplicemente perché si
tratta di persone che aspettano, che probabilmente lo fanno soffrendo
e che sono in balia delle prepotenze e delle sopraffazioni dei
potenti. Quest’attesa, ingiusta e per di più incerta, penosa,
diventa paradigma esistenziale di coloro che attendono; metafora, pur
triste, di una speranza. La loro condizione diviene un’immagine di
attesa escatologica e teologica di liberazione» (4).
Interessante
è poi cogliere nel lavoro del pastore Sciotto che è stato, lo
ricordiamo, anche cappellano in Francia e lo è tutt'ora come
volontario in Sicilia, il fatto che non si è da soli con il detenuto
ma «al timone della barca, oltre a noi e al detenuto, ci sia il
Cristo dormiente che, nel racconto evangelico di Mc. 4, 35-41 guida
la barca in mezzo alla tempesta. È questa una notazione che in prima
istanza deve essere chiara al pastore: nella relazione d’aiuto non
siamo, né saremo mai capaci di aiutare qualcuno da soli, etsi
deus non daretur. La nostra specificità
sta nel fatto che proviamo a tradurre e riformulare le ansie e gli
stati d’animo del nostro interlocutore in preghiera e riflessione;
mai in terapia, né ictanto meno in analisi. Questo non significa che
dovremo sempre trovare un versetto biblico che risponda per noi a
tutte le frasi pronunciate da un detenuto, o che quest’ultimo debba
ogni cinque minuti sentirsi da noi invitato a pregare o a studiare
insieme un passo della bibbia. Tutti i manuali potranno darci delle
indicazioni su come valutare ciò che abbiamo ascoltato. Come
qualsiasi counselor dovremo, dopo aver valutato, scegliere una rotta
possibile per far progredire il lavoro, ma dovremo fare tutto ciò
sapendo che il nostro ruolo è quello di cappellani» (5).
«Sai
Ciccio, negli ultimi giorni mi è capitato di trovarmi spesso a
pregare per ciò che sta succedendo in Palestina. Stavo con la Bibbia
in mano leggevo qualche passo, dopo aver acceso una candela, e
pregavo il Signore. Vorrei che oggi facessimo questo insieme”.
Avevo appena aperto la porta della sua cella, non mi ero ancora
seduto, che F. mi aveva già detto queste parole. F. era un detenuto
di origini nordafricane, nato e cresciuto in Francia, che prima di
entrare in carcere poco o nulla aveva avuto a che fare con la
religione. In prigione, dopo un lungo periodo di visite e
partecipazione ai culti, chiese all’équipe dei pastori della Santé
di essere battezzato. Credo che la preghiera abbia accompagnato in
maniera assai rilevante il suo percorso di fede dietro le sbarre» (6).
Può
capitare che il cappellano venga interpellato sulla preghiera, sul
come pregare; ebbene Sciotto dalla sua esperienza ci dice di
utilizzare il linguaggio comune dei detenuti e «soprattutto il
momento nel quale offriamo a Dio le nostre difficoltà ed i nostri
stati d’animo, perché egli se ne curi. È assolutamente importante
che il detenuto che ci chiede di pregare insieme a lui riconosca
nelle parole che offriamo al Signore le sue ansie, il suo
ringraziamento, la sua gioia, la sua lode, i suoi modi di dire» (7).
Per
ciò che riguarda il culto il pastore Sciotto racconta la sua
esperienza parigina:
«Alla
prigione della Santé il culto avveniva ogni quindici giorni, al
sabato, animato da uno o più dei quattro cappellani dell’équipe.
Dopo la lettura di un breve passo di un Salmo, o di un libro dei
profeti, e una breve preghiera, si leggeva un testo e cominciava una
discussione libera, introdotta dal pastore e da lui moderata. Tutti
potevano iscriversi al culto e intervenire e spesso il discorso
verteva su tematiche riguardanti la detenzione e la vita in carcere.
Dopo una mezz’ora, si chiudeva la celebrazione con un canto, o con
delle preghiere spontanee, o dicendo tutti insieme il “Padre
Nostro”. Il culto protestante è considerato dai detenuti della
Santè uno dei momenti di massima libertà della vita del carcere.
Tradizione vuole ormai che siano iscritti al culto protestante tanti
detenuti che si considerano “politici”: i baschi, ad esempio, i
corsi, i kurdi. È un momento in cui ci si può incontrare e
discutere e tutti i detenuti che pensano che manchino in detenzione
spazi di confronto si battono perché esso funzioni. Un detenuto di
origini nordafricane, che aveva scoperto che ero uno dei cappellani
protestanti del carcere, e che probabilmente poco sapeva di religione
e religioni, mi chiese un giorno: “tu sei il
cappellano protestante? Vieni dalla Corsica o dai paesi Baschi?”
Certamente non sapeva cosa fosse la Riforma. Credeva che i corsi ed i
baschi fossero tutti protestanti, perché aveva sentito che quasi
tutti i detenuti corsi e baschi venivano al culto protestante» (8)
Alla
prigione della Santé di Parigi veniva celebrato il culto di Santa
Cena che il pastore Sciotto ci descrive così: «Celebravamo la Santa
Cena due volte l’anno, a Pasqua ed a Natale. La celebrazione aveva
dunque una frequenza minima e coincideva con le feste. Questo ci dava
la possibilità di chiedere alla direzione del carcere, sempre
disponibilissima, di vivere insieme ad i detenuti un breve momento di
festeggiamento dopo il culto. In questi casi chiudevamo il culto con
la Cena e dopo ci fermavamo per una mezz’ora con i detenuti, per
mangiare qualcosa con loro, tutti insieme. Avevamo infatti anche la
possibilità, in queste occasioni, di portare qualche succo di frutta
e dolcetti o salatini. Niente di particolare, in fin dei conti. Ma
era un momento di festa, che potevamo passare in compagnia. Al culto
protestante erano iscritti anche parecchi detenuti islamici. È ovvio
che loro in primis non desiderassero partecipare alla Santa Cena: non
potevano bere il vino, che è una bevanda alcolica e capivano
benissimo, senza che ci fosse bisogno che qualcuno lo spiegasse loro
con un divieto, che stavamo celebrando qualcosa che non apparteneva
alla loro spiritualità. Ciò non vietava ad i musulmani di
partecipare alla nostra e loro festa» (9).
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(1) F. Sciotto, “Nel pozzo delle rane. Esperienze di cappellania
carceraria”, tesi in Teologia Pratica della Facoltà Valdese di
Roma, p. 9
(2) Ibidem p. 8
(3) Ibidem
p. 31
(4) Ibidem
p. 32
(5) Ibidem
p. 96
(6) Ibidem
p. 99
(7) Ibidem
(8) Ibidem
p. 102
(9) Ibidem
p. 105