giovedì 3 gennaio 2013




>>Intervista al cappellano cattolico del carcere di Opera (MI)<<
(a cura di Lidia Maggi, pastora battista Chiesa di Varese)

(9^ puntata)


"....Il male ti segna. Il carcere ti consuma, psicologicamente e fisicamente. Per sopravvivere devi sempre mantenere un certo distacco dal dolore che quotidianamente ti assale. Rispetto alla mia esperienza, all'inizio ho provato una profonda rabbia: mi chiedevo come si potessero trattare così degli esseri umani ed ero convinto di poter cambiare tutto. Poi c'è stata la sofferenza e, infine, ho avvertito un senso di assurdità per come viene gestita la detenzione. Sembra di stare in un asilo per adulti: privati di qualsiasi autonomia e iniziativa, anche i carcerati finiscono per avere un atteggiamento infantile. Durante una visita a Opera, Candido Cannavò rimase colpito dal modo in cui i detenuti cercavano di richiamare la mia attenzione. Disse che gli ricordavano i ragazzi dell'oratorio...." (Don Marcellino Brivio, già Cappellano della Casa di Reclusione di Milano Opera).





Mi è stato chiesto di aiutare chi legge a riflettere sulla preghiera in carcere. Ne ho parlato con Marcellino Brivio, cappellano del carcere di Opera (MI). Ne è nata una comunicazione intensa. Ho pensato di offrirne alcuni frammenti in questa intervista (1).
E’ possibile pregare in carcere?
«Non so se sia possibile, ma accade. Le persone in prigione pregano. E’ un bisogno che nasce dal di dentro e dalla situazione carceraria stessa. Il linguaggio della preghiera diventa paradossalmente quello con cui il detenuto si relaziona con tutti coloro che non sono segregati. Mi capita così di ricevere piccoli messaggi dove il verbo pregare è sempre presente: don Marcellino, ti prego, contatta il mio avvocato…ti prego, telefona a mia moglie… ho bisogno di vederti: ti prego, passa da me. Non va sottovalutato questo rapporto di assoluta dipendenza che rende il detenuto particolarmente vulnerabile, quando si affronta il tema della preghiera. Bisogna vigilare sul linguaggio della richiesta che trasforma la preghiera in una formula di reverenza per ottenere da chi è fuori alcuni favori. Il rischio più frequente è che la persona imprigionata, nella preghiera, più che rivolgersi ad un Dio d’amore si costruisce un’immagine di Dio dove si riproducono i rapporti di potere sperimentati nella struttura del carcere. Nel pregare ci si rivolge così ad un’entità più o meno definita ma più potente e, dunque, da riverire per ottenere dei vantaggi».
Come si prega in prigione?
«Tanti iniziano a pregare proprio in carcere. Io cerco di accompagnare quest’educazione alla preghiera con la Bibbia e, in particolar modo, con i salmi. Nei salmi il prigioniero si identifica con quel pathos che porta il salmista a gridare, a ricercare soccorso e aiuto. Le immagini di pericolo, evocate in queste preghiere, sono tradotte nella vita di ognuno con esperienze concrete di difficoltà. Questo favorisce l’identificazione con il testo. Il linguaggio dei salmi è poi talmente umano da incoraggiare chi prega a non censurare le parole, le emozioni. Si scopre così che il Dio biblico non si stanca mai di ascoltare, anche quando si esprimono sentimenti inopportuni come la collera, l’odio e la vendetta. Dio vuole entrare in dialogo con ogni aspetto della nostra vita, non vuole occuparsi solo di cose spirituali! Questo scopriamo nei salmi. Quando il detenuto arriva ad intuire questa “libertà”, inizia davvero a gustare la Bibbia ed esclama: qui si parla di me, questo sono io!»
Questo rapporto di identificazione col testo, può talvolta diventare pericoloso: quando è importante ristabilire la distanza con la narrazione biblica?
«I rischi di appropriarsi indebitamente del testo biblico sono continuamente in agguato. E’ facile leggere la storia della passione e trovare detenuti che si identificano con Gesù. Immaginate i commenti di un piccolo gruppo di detenuti che discute insieme i testi della domenica, quando si affronta il processo a Gesù. Per ogni figura c’è una trasposizione contemporanea: dal pubblico ministero all’imputato all’avvocato di ufficio. Tuttavia, questo incontro diretto con il testo è indispensabile per acquisire un rapporto personale con Dio. E’ essenziale scoprire, capire che la Bibbia parla a te! I problemi più seri nascono, invece, quando la preghiera non è mediata dall’ascolto della Parola»
Quest’ultima è l’esperienza più comune in carcere! Chi riscopre la preghiera lo fa attraverso forme tradizionaliste: ritorna di moda il rosario, i santini, i vari protettori… E non solo tra i detenuti, più spesso tra le guardie!
«E’ vero, le derive devozionalistiche sono frequenti. Il carcere non aiuta il confronto in nessun ambito, tantomeno in quello della fede. La prigione nega la vita comunitaria. Ognuno è lasciato a se stesso, senza tuttavia rimanere solo davanti a Dio. La struttura del carcere non permette una dimensione comune della preghiera, necessaria per costruire comunione (ma è possibile la comunione in carcere?) e per correggere distorsioni e superstizioni»
Come arrivano i detenuti a riscoprire la preghiera?
«Alcuni attraverso percorsi tradizionali, ascoltando radio Maria per esempio; altri, spesso stranieri, hanno avuto contatti con pastori evangelici. Da loro hanno acquisito una dinamica di “lettura pregata” della Scrittura. In entrambi i casi la preghiera aiuta il detenuto a reggere il carcere, a guardare positivamente una situazione di disagio. Ristabilisce un certo equilibrio interiore, lo rasserena, aiutandolo ad accettare la difficile realtà che si trova ad abitare»
Una preghiera che anestetizza il dolore, dunque.
«Può darsi. Il rischio di accettare troppo passivamente la struttura carceraria è davvero concreto. Non è semplice capire quando aiutare il detenuto a reagire e quando incoraggiarlo nelle fughe spirituali. L’equilibrio è sempre fragile. Da una parte è solo accettando il carcere che si può “sopravvivere” alla struttura; e dall’altra bisogna vigilare perché quest’accettazione non sia troppo tranquillizzante. Una canzone in voga dice: Siamo nel tunnel, non possiamo uscire, almeno pitturiamolo! Ecco, la preghiera può essere anche questo: il colore su un tunnel grigio per aiutare a sopportare una situazione di evidente disagio. Sì, perché il carcere è un luogo di disagio ed il detenuto dipende totalmente dagli umori di chi si trova a gestirlo. E’ soggetto a continue provocazioni, è separato dai suoi affetti ed in continua ansia per chi ha lasciato all’esterno. Si sente impotente, vulnerabile, inutile. Inoltre sperimenta l’ingiustizia proprio in coloro che dovrebbero garantire la giustizia. La rabbia deve essere repressa senza essere mai del tutto rimossa.
La preghiera può effettivamente ridare un po’ di ossigeno non solo consolando e ristabilendo la pace interiore ma anche attraverso la pratica dell’intercessione. Pregare per i familiari fuori dal carcere, affidarli a Dio, fa sentire i detenuti responsabili e attivi verso i propri cari e li aiuta a vincere quel senso di impotenza che continuamente vivono»
Qual è la forma di preghiera più comune che ti capita di ascoltare?
«Insieme alle preghiere di intercessione, le più gettonate sono quelle di richiesta e di abbandono. Alcuni nella preghiera arrivano a riconoscere il proprio sbaglio. La preghiera permette di fare un lavoro introspettivo e di leggersi dentro. Mentre nel colloquio il detenuto fatica ad ammettere il proprio errore (sono quasi tutti innocenti, secondo quanto dichiarano), se si riesce ad arrivare alla preghiera, se io riesco a pregare con la persona che mi parla, si crea una particolare intimità che permette, tramite la preghiera, di narrare la propria vita con meno filtri e con più realismo»
Ti capita di sentire di andare in cortocircuito sul alcuni temi legati al pregare, quando ti trovi in carcere?
«E’ un continuo cortocircuito, sono scosse senza salvavita! Prendiamo per esempio il tema del linguaggio. Tutto da rivedere. Pochi giorni fa come lettura domenicale del vangelo veniva proposto un testo che chiamava al pentimento. Ho sentito tutte le ambiguità del linguaggio, pensando al fenomeno del pentitismo. Ho provato a fare un po’ di ironia dicendo: “carissimi, oggi abbiamo tutti dovuto fare i pentiti!” Il linguaggio della fede va rivisitato e necessita nuove parole per annunciare la speranza evangelica in carcere»
Abbiamo affrontato il problema di ridurre l’esperienza di fede a devozionalismo ripiegato su dimensioni individualistiche. E’ possibile intravedere una pratica di vita cristiana in carcere?
«Davvero non è semplice. Qualche volta, tuttavia, capita di incontrare persone che riescono ad emanare, pur nelle difficoltà della struttura, una forza particolare. E’ una luce che ha poco spazio per irradiarsi. Può tutt’al più contagiare qualche vicino di reparto. Sono spesso persone che pregano spontaneamente, nel segreto o nei colloqui. Credo che chi prende sul serio la preghiera impari a guardare gli altri con più clemenza. Ho assistito al confronto tra due detenuti sulla preghiera. Uno diceva all’altro: Preghi per la tua famiglia e poi ti lamenti perché tua moglie non ti ha mandato le cose che le hai chiesto! Ma credi che per lei la vita sia facile? Perché preghi per lei, se poi non la capisci nelle sue fatiche? Chi prega per gli altri impara ad uscire fuori da una condizione tipica della situazione carceraria, ovvero da quell’essere così concentrato su sé stesso e sui propri bisogni da dimenticare di ascoltare gli altri»
Come è cambiata la tua fede in carcere?
«Io provengo da un’esperienza cristiana che ha messo al centro l’impegno sociale, la condivisione, l’attenzione ai poveri… La dimensione etica della fede è sempre stata molto forte nel mio modo di sentire il vangelo. Il carcere mi ha aiutato a purificare la fede, a non far coincidere il credere con le opere buone. E’ possibile essere cristiani in carcere? Credere coincide con il comportarsi bene? Sono proprio i detenuti a richiamarmi alla grazia di Dio, quando confessano: pensa te, se non c’era il Signore a risollevarmi…»


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(1) Intervista pubblicata su Gioventù Evangelica del gennaio 2006 

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