>>Intervista
al cappellano cattolico del carcere di Opera (MI)<<
(a cura
di Lidia Maggi, pastora battista Chiesa di Varese)
(9^ puntata)
"....Il
male ti segna. Il carcere ti consuma, psicologicamente e fisicamente.
Per sopravvivere devi sempre mantenere un certo distacco dal dolore
che quotidianamente ti assale. Rispetto alla mia esperienza,
all'inizio ho provato una profonda rabbia: mi chiedevo come si
potessero trattare così degli esseri umani ed ero convinto di poter
cambiare tutto. Poi c'è stata la sofferenza e, infine, ho avvertito
un senso di assurdità per come viene gestita la detenzione. Sembra
di stare in un asilo per adulti: privati di qualsiasi autonomia e
iniziativa, anche i carcerati finiscono per avere un atteggiamento
infantile. Durante una visita a Opera, Candido Cannavò rimase
colpito dal modo in cui i detenuti cercavano di richiamare la mia
attenzione. Disse che gli ricordavano i ragazzi dell'oratorio...." (Don Marcellino Brivio, già Cappellano della Casa di Reclusione di
Milano Opera).
Mi è stato
chiesto di aiutare chi legge a riflettere sulla preghiera in carcere.
Ne ho parlato con Marcellino Brivio, cappellano del carcere di Opera
(MI). Ne è nata una comunicazione intensa. Ho pensato di offrirne
alcuni frammenti in questa intervista (1).
E’ possibile pregare in carcere?
«Non so se
sia possibile, ma accade. Le persone in prigione pregano. E’ un
bisogno che nasce dal di dentro e dalla situazione carceraria stessa.
Il linguaggio della preghiera diventa paradossalmente quello con cui
il detenuto si relaziona con tutti coloro che non sono segregati. Mi
capita così di ricevere piccoli messaggi dove il verbo pregare è
sempre presente: don Marcellino, ti prego,
contatta il mio avvocato…ti prego, telefona a mia moglie… ho
bisogno di vederti: ti prego, passa da me.
Non va sottovalutato questo rapporto di assoluta dipendenza che rende
il detenuto particolarmente vulnerabile, quando si affronta il tema
della preghiera. Bisogna vigilare sul linguaggio della richiesta che
trasforma la preghiera in una formula di reverenza per ottenere da
chi è fuori alcuni favori. Il rischio più frequente è che la
persona imprigionata, nella preghiera, più che rivolgersi ad un Dio
d’amore si costruisce un’immagine di Dio dove si riproducono i
rapporti di potere sperimentati nella struttura del carcere. Nel
pregare ci si rivolge così ad un’entità più o meno definita ma
più potente e, dunque, da riverire per ottenere dei vantaggi».
Come si prega in prigione?
«Tanti
iniziano a pregare proprio in carcere. Io cerco di accompagnare
quest’educazione alla preghiera con la Bibbia e, in particolar
modo, con i salmi. Nei salmi il prigioniero si identifica con quel
pathos che porta il salmista a gridare, a ricercare soccorso e aiuto.
Le immagini di pericolo, evocate in queste preghiere, sono tradotte
nella vita di ognuno con esperienze concrete di difficoltà. Questo
favorisce l’identificazione con il testo. Il linguaggio dei salmi è
poi talmente umano da incoraggiare chi prega a non censurare le
parole, le emozioni. Si scopre così che il Dio biblico non si stanca
mai di ascoltare, anche quando si esprimono sentimenti inopportuni
come la collera, l’odio e la vendetta. Dio vuole entrare in dialogo
con ogni aspetto della nostra vita, non vuole occuparsi solo di cose
spirituali! Questo scopriamo nei salmi. Quando il detenuto arriva ad
intuire questa “libertà”, inizia davvero a gustare la Bibbia ed
esclama: qui si parla di me, questo sono io!»
Questo rapporto di identificazione col
testo, può talvolta diventare pericoloso: quando è importante
ristabilire la distanza con la narrazione biblica?
«I rischi
di appropriarsi indebitamente del testo biblico sono continuamente in
agguato. E’ facile leggere la storia della passione e trovare
detenuti che si identificano con Gesù. Immaginate i commenti di un
piccolo gruppo di detenuti che discute insieme i testi della
domenica, quando si affronta il processo a Gesù. Per ogni figura c’è
una trasposizione contemporanea: dal pubblico ministero all’imputato
all’avvocato di ufficio. Tuttavia, questo incontro diretto con il
testo è indispensabile per acquisire un rapporto personale con Dio.
E’ essenziale scoprire, capire che la Bibbia parla a te! I problemi
più seri nascono, invece, quando la preghiera non è mediata
dall’ascolto della Parola»
Quest’ultima è l’esperienza più
comune in carcere! Chi riscopre la preghiera lo fa attraverso forme
tradizionaliste: ritorna di moda il rosario, i santini, i vari
protettori… E non solo tra i detenuti, più spesso tra le guardie!
«E’
vero, le derive devozionalistiche sono frequenti. Il carcere non
aiuta il confronto in nessun ambito, tantomeno in quello della fede.
La prigione nega la vita comunitaria. Ognuno è lasciato a se stesso,
senza tuttavia rimanere solo davanti a Dio. La struttura del carcere
non permette una dimensione comune della preghiera, necessaria per
costruire comunione (ma è possibile la comunione in carcere?) e per
correggere distorsioni e superstizioni»
Come arrivano i detenuti a
riscoprire la preghiera?
«Alcuni
attraverso percorsi tradizionali, ascoltando radio Maria per esempio;
altri, spesso stranieri, hanno avuto contatti con pastori evangelici.
Da loro hanno acquisito una dinamica di “lettura pregata” della
Scrittura. In entrambi i casi la preghiera aiuta il detenuto a
reggere il carcere, a guardare positivamente una situazione di
disagio. Ristabilisce un certo equilibrio interiore, lo rasserena,
aiutandolo ad accettare la difficile realtà che si trova ad abitare»
Una preghiera che anestetizza il
dolore, dunque.
«Può
darsi. Il rischio di accettare troppo passivamente la struttura
carceraria è davvero concreto. Non è semplice capire quando aiutare
il detenuto a reagire e quando incoraggiarlo nelle fughe spirituali.
L’equilibrio è sempre fragile. Da una parte è solo accettando il
carcere che si può “sopravvivere” alla struttura; e dall’altra
bisogna vigilare perché quest’accettazione non sia troppo
tranquillizzante. Una canzone in voga dice: Siamo
nel tunnel, non possiamo uscire, almeno pitturiamolo!
Ecco, la preghiera può essere anche questo: il colore su un tunnel
grigio per aiutare a sopportare una situazione di evidente disagio.
Sì, perché il carcere è un luogo di disagio ed il detenuto dipende
totalmente dagli umori di chi si trova a gestirlo. E’ soggetto a
continue provocazioni, è separato dai suoi affetti ed in continua
ansia per chi ha lasciato all’esterno. Si sente impotente,
vulnerabile, inutile. Inoltre sperimenta l’ingiustizia proprio in
coloro che dovrebbero garantire la giustizia. La rabbia deve essere
repressa senza essere mai del tutto rimossa.
La
preghiera può effettivamente ridare un po’ di ossigeno non solo
consolando e ristabilendo la pace interiore ma anche attraverso la
pratica dell’intercessione. Pregare per i familiari fuori dal
carcere, affidarli a Dio, fa sentire i detenuti responsabili e attivi
verso i propri cari e li aiuta a vincere quel senso di impotenza che
continuamente vivono»
Qual è la forma di preghiera più
comune che ti capita di ascoltare?
«Insieme
alle preghiere di intercessione, le più gettonate sono quelle di
richiesta e di abbandono. Alcuni nella preghiera arrivano a
riconoscere il proprio sbaglio. La preghiera permette di fare un
lavoro introspettivo e di leggersi dentro. Mentre nel colloquio il
detenuto fatica ad ammettere il proprio errore (sono quasi tutti
innocenti, secondo quanto dichiarano), se si riesce ad arrivare alla
preghiera, se io riesco a pregare con la persona che mi parla, si
crea una particolare intimità che permette, tramite la preghiera, di
narrare la propria vita con meno filtri e con più realismo»
Ti capita di sentire di andare in
cortocircuito sul alcuni temi legati al pregare, quando ti trovi in
carcere?
«E’
un continuo cortocircuito, sono scosse senza salvavita! Prendiamo per
esempio il tema del linguaggio. Tutto da rivedere. Pochi giorni fa
come lettura domenicale del vangelo veniva proposto un testo che
chiamava al pentimento. Ho sentito tutte le ambiguità del
linguaggio, pensando al fenomeno del pentitismo. Ho provato a fare un
po’ di ironia dicendo:
“carissimi, oggi abbiamo tutti dovuto fare i pentiti!”
Il linguaggio della fede va rivisitato e necessita nuove parole per
annunciare la speranza evangelica in carcere»
Abbiamo affrontato il
problema di ridurre l’esperienza di fede a devozionalismo ripiegato
su dimensioni individualistiche. E’ possibile intravedere una
pratica di vita cristiana in carcere?
«Davvero
non è semplice. Qualche volta, tuttavia, capita di incontrare
persone che riescono ad emanare, pur nelle difficoltà della
struttura, una forza particolare. E’ una luce che ha poco spazio
per irradiarsi. Può tutt’al più contagiare qualche vicino di
reparto. Sono spesso persone che pregano spontaneamente, nel segreto
o nei colloqui. Credo che chi prende sul serio la preghiera impari a
guardare gli altri con più clemenza. Ho assistito al confronto tra
due detenuti sulla preghiera. Uno diceva all’altro: Preghi
per la tua famiglia e poi ti lamenti perché tua moglie non ti ha
mandato le cose che le hai chiesto! Ma credi che per lei la vita sia
facile? Perché preghi per lei, se poi non la capisci nelle sue
fatiche? Chi prega per gli altri impara ad
uscire fuori da una condizione tipica della situazione carceraria,
ovvero da quell’essere così concentrato su sé stesso e sui propri
bisogni da dimenticare di ascoltare gli altri»
Come è cambiata la
tua fede in carcere?
«Io
provengo da un’esperienza cristiana che ha messo al centro
l’impegno sociale, la condivisione, l’attenzione ai poveri… La
dimensione etica della fede è sempre stata molto forte nel mio modo
di sentire il vangelo. Il carcere mi ha aiutato a purificare la fede,
a non far coincidere il credere con le opere buone. E’ possibile
essere cristiani in carcere? Credere coincide con il comportarsi
bene? Sono proprio i detenuti a richiamarmi alla grazia di Dio,
quando confessano: pensa te, se non c’era il
Signore a risollevarmi…»
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(1) Intervista pubblicata su Gioventù Evangelica del gennaio 2006
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