Se una struttura ospedaliera pubblica funziona...ovviamente chiudiamola!!
Esperienza diretta del ricovero all'ospedale Oftalmico di Torino, fiore all'occhiello della sanità pubblica. Sconforto tra il personale medico e paramedico: gira voce che i “signori politici” ne avrebbero già decretato la sua morte nel 2015
Tecnicamente si chiama “uveite da Herpes Zoster oftalmico”. Ed una delle cose che mi da fastidio, mi “ruga”, in tutta questa storia è che la malattia che mi è venuta ce l'ha avuta anche Silvio Berlusconi! Sic! Io però, improvvisamente da un occhio solo. ho perso molti gradi di diottrie, un improvviso abbassamento della vista a 3 decimi di diottria, attaccandomi la retina e me ne ha mangiato una parte andata in necrosi. Per spiegarmi meglio: immaginatevi un bruco che si sta mangiando la foglia, ecco più o meno è capitato a me la stessa cosa.
Una esperienza che non consiglio a nessuno, ben tre flebo al giorno da un litro e mezzo di antivirali, cortisonici ecc. e una dose di colliri incredibile!!
Ma coma arriva tutto ciò? In parole semplici, così come mi è stato spiegato, essa deriva dalla varicella che io ho fatto ben quarant'anni fa, di cui però rimane il virus “dormiente” nel corpo. E può dormire per tutta la nostra vita, oppure risvegliarsi sotto forma di Herpes Zoster che colpisce quasi sempre bocca con pustole, sotto le ascelle e la schiena, e può trasformarsi anche nel famoso “Fuoco di Sant'Antonio”, con crostine e tanto bruciore e prurito. A me invece, bizzrria della vicenda, ha colpito l'occhio, in modo particolare la retina.
Sono un caso raro, qualcuno dice “da manuale” cioè che si trova solo nei libri dei medici ma che le statistiche rilevano appena. Tanto da far dire al mio medico di base - che stimo per la sua serietà e il suo rigore - «in trent'anni di servizio non avevo mai visto una cosa del genere!». Eppure è successo, e succede ancora: all'ospedale oftalmico di Torino, dove mi hanno ricoverato, delle casisteche le hanno e sanno come curare e farti riacquistare piano piano la vista. Certo, come dicono loro, «ci vuole pazienza, magari anni: sottoponendosi a tutte le terapie che abbiamo oggi a nostra disposizione, riusciamo a recuperare le diottrie e l'occhio, cosa che 25 anni fa non si riuciva ed uno perdeva completamente la vista».
Il tutto arrivato come un fulmine a ciel sereno!! E' bastato un giro domenicale in bicicletta, una lacrimazione dell'occhio che ai più sembrava una banale congiuntivite o allergia... e invece no, passata una settimana con la lacrimazione a mille, casualmente un ottico a cui ho chiesto aiuto mi ha guardato dentro e mi ha detto di andare di corsa al Pronto Soccorso dell'oftalmico di Torino.
La dottoressa di turno, dopo la prima visita, capì la gravità della cosa: prognosi riservatissima per un virus interno di cui non si sapeva ancora nulla, né da cosa fosse stato causato. Seguì il ricovero immediato, prelievi di sangue per una indagine a tappeto. Sono stato dunque sottoposto a esami ematochimici per uveiti, ecg,esami ematici per la ricerca HIV-HBV-CMV-EBV-HSV tutti negativi, prelievo umor acueo in occhio malato, esami PCR su acqueo (+PER VZV).
Era domenica 30 marzo 2014. Una strana coincidenza poiché nelle ltirugie quaresimali cattoliche si leggeva (IV Domenica di Quaresima) il racconto evangelico dove Gesù guarisce un cieco nato (ANDO’, SI LAVO’ E TORNO’ CHE CI VEDEVA - Gv 9,1-41).
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In ospedale non avevo nè pc nè internet, avevo solo il cellulare con cui ho messaggiato, telefonato, ho ascoltato la radio, ho letto libri e giornali, ricevuto visite.... ma per il resto il morale è stato molto alto, una tantum qualche lacrimuccia di scoraggiamento, ma ben poche!! Ora mi aspetta la convalescenza, tra visite settimanali lì all'oftalmico e riposo, medicine e colliri...
Certo, d'ora in poi devo saper convivere con un occhio e mezzo, un piccolo handicap superabile con forza di volontà!! Il morale necessariamente devo tenerlo alto, non ha senso deprimersi, piangersi addosso, men che meno pesare sugli altri! già mia moglie e i miei ragazzi hanno patito e sono stati per qualche settimana disorientati. Ma i figli si sono rimboccati le maniche a casa, si sono resi super-responsabili, facendosi il letto, cucinando, lavando i piatti, talvolta davo istruzioni via telefono ad esempio su caldaia, portavano fuori il cane, mio figlio bagnava il prato... diciamo che li ha fatti maturare e resposanbilizzare!! Ora che sono a casa cerco di non far pesare a nessuno la mia situazione.
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Mi hanno letteralmente imbottito di medicinali, in ospedale ben 3 flebo da un litro al giorno con antivirali, per un totale di 50 flebo... non avevo più vene dove bucare, braccia con ematomi un dolore indescrivibile!! rischiato flebite... allora mi hanno dato pillole sostitutive per bocca e mi hanno "rilasciato" a casa, in convalescenza fino al 31 maggio.
Nella prima visita di controllo di martedì dopo Pasquetta purtroppo non ci sono stati miglioramenti, anzi nella lettura sono sceso a 2 decimi di diottrie contro le 3 costanti di quando ero ricoverato. Poi i medici hanno visto una leggera patina gelatinosa nel fondo dell'occhio. Dicono che potrebbe essere il passaggio dalla flebo che entrava direttamente in vena, alle poastiglie che sono più blande nell'effetto poiché passano dalla digestione dello stomaco. Poi, di settimana in settimana, altre visite di controllo... sarà lunga la cosa, dicono anche anni, bisogna armarsi di una enorme pazienza!!!
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Debbo dirvi che sono stato piacevolmente e meravigliosamente stupito dagli amici della redazione e dai colleghi di scuola che mi avete sorretto in questa difficile fase della mia esistenza, “bombardandomi” di sms, telefonate e visite: lì ho percepito l'affetto e l'amicizia sincera… questo mi ha fatto bene per il morale!!
L'oftalmico di Torino: medici e infermieri, una gran bella umanità di cui fidarsi...ma che i politici vogliono chiudere!
Al mio arrivo quella domenica 30 marzo 2014 al Pronto Soccorso la prima che mi visita e decide per il mio ricovero è la dottoressa Laura. Leggo nel suo volto la stanchezza per il turno che, mi par di capire, deve essere stato massacrante. La serietà e la professionalità però non hanno eguali. Vuole essere scrupolosa e mi dà subito fiducia, anche se la diagnosi è ancora incerta. E la brutta notizia è «la devo ricoverare subito». Al che rimango frastornato, sono solo e spaesato. Chiedo di sedermi un attimo per fare mente locale su come organizzarmi: Le faccio presente che abito fuori Torino, in provincia, che debbo avvisare casa. E lei mi dice di fare con calma, andare a casa, pranzare e poi ripresentarmi con la mia valigia alle tre del pomeriggio che mi avrebbe aspettato. La ringrazio molto e le dico velocemente di aver apprezzato la sua serietà, professionalità e umanità nell’avermi trattato come neo-paziente. Io che, da sempre, ho la fobia di aghi, dell'invasività medica, della vista del sangue e dell'odore di ospedale e di tutto ciò che è medico. Tutte cose che tirano fuori in me una forte emotività e paura.
La dottoressa Laura ha alzato gli occhi cercando il mio sguardo ed affermando più o meno sottovoce, sconsolata, scuotendo la testa «Mah, chissà che fine faremo! E’ da un po’ di tempo che corre voce che ci vogliano chiudere, che vogliano chiudere tutto entro il 2015!». Rimango allibito da questa notizia che non sapevo. E percepisco, da queste poche parole, un senso di frustrazione da parte di una donna, medico, professionista, che si “sbatte” e si fa in quattro per i pazienti, che fa il turno domenicale prima al Pronto Soccorso, poi passa nei reparti…
Lo stesso umore di una sorte di strisciante frustrazione la si percepisce velatamente anche da qualche infermiere che lo dice sussurrandolo, quasi con pudore: molti di loro, almeno quattro dello staff della clinica univeristaria dove sono ricoverato, arrivano dall’altro ospedale appena chiuso, il Valdese, altro fiore all’occhiello della sanità piemontese soprattutto per la diagnosi dei tumori al seno.
Sono una squadra di bei giovani, hanno imparato bene il loro lavoro: ad esempio, l’infermiera professionale Francesca, 34 anni, aria sbarazzina, capelli neri corti “sparati” tenuti su dal gel, quando mi deve accompagnare a fare una radiografia, è disorientata, non si ricorda bene quale scala prendere, in quale piano si trova la radiologia e mi sussurra con il sorriso sulle labbra senza preoccupazione ma con un pizzico di umorismo «sono solo pochi mesi che sono qui, arrivo dal Valdese come altri dì noi, non vorrei perdermi con lei».
Invece Fabio, 32 anni, altro infermiere pure lui collega di Francesca al Valdese, mi dice molto scocciato e scoraggiato che «si vive come un senso di frustrazione, arrivi al lavoro e temi sempre di ricevere una lettera “ordine di servizio” dall’alto che ti dice che oggi sei trasferito e che devi partire a lavorare in altra struttura chissà dove. In sostanza noi viviamo sempre con la “valigia pronta” per essere trasferiti! Sarà mica bello vivere così!». Mentre mi spiega ciò mi anticipa anche una notizia, «ho già fatto domanda di trasferimento alle Molinette. Almeno di lì non mi possono mandare via!».
Con lui, una sera che era nel turno notturno, ho parlato a lungo, ci siamo subito “piaciuti”, sentiti “in sintonia”, mi ha raccontato di sua moglie che fa la maestra e della gioia di aver saputo che aspetta un figlio che nascerà a novembre 2014.
Abbiamo guardato la partita di calcio Juventus-Lione: se riesce ogni tanto ci va proprio allo stadio a vedere i suoi giocatori del cuore di cui è un tifoso sfegatato. Fabio è anche infermiere volontario in alcuni eventi sportivi come le Olimpiadi invernali 2006 a Torino.
Mi ha poi raccontato della sua scelta di fare proprio l’infermiere «che non è un lavoro come un altro: se un ragazzo pensa quello e che si pensa solo allo stipendio ha proprio sbagliato mestiere! E’ stata dura, ho studiato tanto, mi sono impegnato perché è un lavoro che sento mio e che faccio con passione!!».
E lo si vede e tocca con mano come paziente: Dove si è mai visto un infermiere che, quando ti da l’ultima medicina a letto e ti toglie la flebo dal braccio, ti rimbocca le coperte, ti saluta con un «ciao caro, buonanotte», ti da un puffetto sulla spalla ti spegne la luce? A dire poco tutti splendidi questi giovani da cui capisci l’abnegazione, il senso di aiuto, di metterti a proprio agio come paziente e malato.
Questo atteggiamento, che varia ovviamente dalle sensibilità ed attitudini caratteriali di ciascuna persona, in quel reparto è comunque nell’aria, lo si respira tra le pareti delle stanze, degli ambulatori delle visite....
Una dedizione ed un senso di aiuto, cercando di metterti a proprio agio come paziente e malato veramente rara.
Ad accogliermi nel reparto clinica universitaria il pomeriggio del ricovero, invece, come infermiera professionale di turno c’è Rosy, simpatica, molto alla mano. Di lì a poco scoprirò piacevolmente, per una frase con la S pizzicata, che non è italiana ma venezuelana. Dopo poche ore, forse un giorno, mi rivelerà di essere solo dall’anno Duemila a Torino, di aver sposato un italiano e che al suo paese faceva la maestra di scuola materna. Però, una volta venuta in Italia, il suo titolo di studio non valeva nulla: ma anche se avesse potuto farselo riconoscere, avrebbe avuto delle difficoltà per la lingua, non parlando perfettamente l’italiano.
Ecco venir fuori la sua tenacia, la sua voglia di riscatto, la capacità di adattamento ad una nuova situazione e la forza di volontà che, forse, solo le donne hanno. Si è rimboccata le maniche, si è rimessa in gioco, ricominciando gli studi universitari di Scienze Infermieristiche, discutendo la tesi, così come mi ha raccontato, «con il pancione poiché aspettavo mia figlia che ora ha nove anni». Poi il concorso ed eccola qui, sensibile, professionale e scrupolosissima!!
Vincenzo è invece un giovanotto napoletano verace che ho soprannominato “mani di fata” per la sua delicatezza nell'infilarmi l'ago delle flebo. Con la sua calma e tranquillità, è stato l’ultimo infermiere che ho salutato all’uscita dal ricovero, l’ultimo che mi ha ancora fatto il prelievo di controllo del sangue. E mi ha detto con un pizzico di affetto ed ironia: «Ma come? Non dovevi andare via a Pasqua? Avevo preparato la pastiera napoletana da portarti! Potevamo mangiare anche la colomba assieme!! E ora come faccio?»
Vincenzo lo considererei proprio un “mago” degli aghi e dei prelievi, degno di un fachiro che dorme sul letto di chiodi. Giorno dopo giorno, conoscendoci, abbiamo parlato approfonditamente di Napoli, la sua città dove ancora ha i parenti e mi ha detto che la sua città «ha un sacco di belle cose e di tante persone che sarebbero da rivalorizzare, rivalutare perché le potenzialità ci sono, basta saperle trovare!».
Lui qui a Torino non ha parenti e mi racconta che, per accudire i figli verso cui è molto presente poiché hanno a scalare dai sei, quattro, due ed uno e mezzo anni in giù, si fa in quattro e si alternano nei turni lavorativi. Ma è anche un calciatore provetto e fa parte della squadra di calcetto dell’ ASL di riferimento dell’ospedale oftalmico.
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«Quando Francesco compose il suo bel Cantico di sorella acqua e frate focu, sorgente di luce per tutti noi, era gravemente malato agli occhi!!!!!»
E' l'amico Aldo Antonelli, parroco ad Antrosano (Abruzzo) a scrivermi questa tenero messaggio di auguri per la mia vista. Il paragone tra me e Frate Francesco mi pare un po' grosso, un paragone che, certo, non merito!
(Questo pezzo verrà pubblicato sul numero doppio di giugno/luglio 2014 del mensile Tempi di Fraternità)