giovedì 26 marzo 2015

«VITE IN SCATOLA»  IN GIRO PER L'ITALIA E IL PIEMONTE 


Bella serata quella del 25 marzo 2015 a Valdagno (Vicenza) organizzata magnificamente dal Movimento 5 Stelle di quel comune per l'organizzazione della serata di presentazione sul nostro libro  di fronte ad una nutrita platea a Valdagno
.


Ora i prossimi appuntamenti con me e con Paola Simona Tesio e il nostro libro VITE IN SCATOLA sarà a Torino alle ore 18 di VENERDI' 17 APRILE 2015  alla Libreria "Il Ponte sulla Dora" in via Pisa 46  con la partecipazione anche del senatore Stefano Lepri della Commissione Lavoro del PD.
Ci rivedremo  poi a MODENA MERCOLEDI'  22 APRILE 2015 ospiti del movimento "Domenica No Grazie" .sempre per presentare il nostro libro che si può acquistare sia on line nel sito dell'editore che facendolo ordinare dalla vostra libreria di fiducia. 
Dopo questa data saremo a Rivalta (Torino)  il 28 maggio 2015 dove parteciperemo ad una rassegna letteraria organizzata dal Comune stesso. Ma vi aggiornerò sulle date!!

venerdì 25 aprile 2014

Se una struttura ospedaliera pubblica funziona...ovviamente chiudiamola!!

Esperienza diretta del ricovero all'ospedale Oftalmico di Torino, fiore all'occhiello della sanità pubblica. Sconforto tra il personale medico e paramedico: gira voce che i “signori politici” ne avrebbero già decretato la sua morte nel 2015




Tecnicamente si chiama “uveite da Herpes Zoster oftalmico”. Ed una delle cose che mi da fastidio, mi “ruga”, in tutta questa storia è che la malattia che mi è venuta ce l'ha avuta anche Silvio Berlusconi! Sic! Io però, improvvisamente da un occhio solo. ho perso molti gradi di diottrie, un improvviso abbassamento della vista a 3 decimi di diottria, attaccandomi la retina e me ne ha mangiato una parte andata in necrosi. Per spiegarmi meglio: immaginatevi un bruco che si sta mangiando la foglia, ecco più o meno è capitato a me la stessa cosa.
Una esperienza che non consiglio a nessuno, ben tre flebo al giorno da un litro e mezzo di antivirali, cortisonici ecc. e una dose di colliri incredibile!!
Ma coma arriva tutto ciò? In parole semplici, così come mi è stato spiegato, essa deriva dalla varicella che io ho fatto ben quarant'anni fa, di cui però rimane il virus “dormiente” nel corpo. E può dormire per tutta la nostra vita, oppure risvegliarsi sotto forma di Herpes Zoster che colpisce quasi sempre bocca con pustole, sotto le ascelle e la schiena, e può trasformarsi anche nel famoso “Fuoco di Sant'Antonio”, con crostine e tanto bruciore e prurito. A me invece, bizzrria della vicenda, ha colpito l'occhio, in modo particolare la retina.
Sono un caso raro, qualcuno dice “da manuale” cioè che si trova solo nei libri dei medici ma che le statistiche rilevano appena. Tanto da far dire al mio medico di base - che stimo per la sua serietà e il suo rigore - «in trent'anni di servizio non avevo mai visto una cosa del genere!». Eppure è successo, e succede ancora: all'ospedale oftalmico di Torino, dove mi hanno ricoverato, delle casisteche le hanno e sanno come curare e farti riacquistare piano piano la vista. Certo, come dicono loro, «ci vuole pazienza, magari anni: sottoponendosi a tutte le terapie che abbiamo oggi a nostra disposizione, riusciamo a recuperare le diottrie e l'occhio, cosa che 25 anni fa non si riuciva ed uno perdeva completamente la vista».
Il tutto arrivato come un fulmine a ciel sereno!! E' bastato un giro domenicale in bicicletta, una lacrimazione dell'occhio che ai più sembrava una banale congiuntivite o allergia... e invece no, passata una settimana con la lacrimazione a mille, casualmente un ottico a cui ho chiesto aiuto mi ha guardato dentro e mi ha detto di andare di corsa al Pronto Soccorso dell'oftalmico di Torino.
La dottoressa di turno, dopo la prima visita, capì la gravità della cosa: prognosi riservatissima per un virus interno di cui non si sapeva ancora nulla, né da cosa fosse stato causato. Seguì il ricovero immediato, prelievi di sangue per una indagine a tappeto. Sono stato dunque sottoposto a esami ematochimici per uveiti, ecg,esami ematici per la ricerca HIV-HBV-CMV-EBV-HSV tutti negativi, prelievo umor acueo in occhio malato, esami PCR su acqueo (+PER VZV).
Era domenica 30 marzo 2014. Una strana coincidenza poiché nelle ltirugie quaresimali cattoliche si leggeva (IV Domenica di Quaresima) il racconto evangelico dove Gesù guarisce un cieco nato (ANDO’, SI LAVO’ E TORNO’ CHE CI VEDEVA - Gv 9,1-41).


++++
In ospedale non avevo nè pc nè internet, avevo solo il cellulare con cui ho messaggiato, telefonato, ho ascoltato la radio, ho letto libri e giornali, ricevuto visite.... ma per il resto il morale è stato molto alto, una tantum qualche lacrimuccia di scoraggiamento, ma ben poche!! Ora mi aspetta la convalescenza, tra visite settimanali lì all'oftalmico e riposo, medicine e colliri...
Certo, d'ora in poi devo saper convivere con un occhio e mezzo, un piccolo handicap superabile con forza di volontà!! Il morale necessariamente devo tenerlo alto, non ha senso deprimersi, piangersi addosso, men che meno pesare sugli altri! già mia moglie e i miei ragazzi hanno patito e sono stati per qualche settimana disorientati. Ma i figli si sono rimboccati le maniche a casa, si sono resi super-responsabili, facendosi il letto, cucinando, lavando i piatti, talvolta davo istruzioni via telefono ad esempio su caldaia, portavano fuori il cane, mio figlio bagnava il prato... diciamo che li ha fatti maturare e resposanbilizzare!! Ora che sono a casa cerco di non far pesare a nessuno la mia situazione.


++++
Mi hanno letteralmente imbottito di medicinali, in ospedale ben 3 flebo da un litro al giorno con antivirali, per un totale di 50 flebo... non avevo più vene dove bucare, braccia con ematomi un dolore indescrivibile!! rischiato flebite... allora mi hanno dato pillole sostitutive per bocca e mi hanno "rilasciato" a casa, in convalescenza fino al 31 maggio.
Nella prima visita di controllo di martedì dopo Pasquetta purtroppo non ci sono stati miglioramenti, anzi nella lettura sono sceso a 2 decimi di diottrie contro le 3 costanti di quando ero ricoverato. Poi i medici hanno visto una leggera patina gelatinosa nel fondo dell'occhio. Dicono che potrebbe essere il passaggio dalla flebo che entrava direttamente in vena, alle poastiglie che sono più blande nell'effetto poiché passano dalla digestione dello stomaco. Poi, di settimana in settimana, altre visite di controllo... sarà lunga la cosa, dicono anche anni, bisogna armarsi di una enorme pazienza!!!
+++
Debbo dirvi che sono stato piacevolmente e meravigliosamente stupito dagli amici della redazione e dai colleghi di scuola che mi avete sorretto in questa difficile fase della mia esistenza, “bombardandomi” di sms, telefonate e visite: lì ho percepito l'affetto e l'amicizia sincera… questo mi ha fatto bene per il morale!!

L'oftalmico di Torino: medici e infermieri, una gran bella umanità di cui fidarsi...ma che i politici vogliono chiudere!

Al mio arrivo quella domenica 30 marzo 2014 al Pronto Soccorso la prima che mi visita e decide per il mio ricovero è la dottoressa Laura. Leggo nel suo volto la stanchezza per il turno che, mi par di capire, deve essere stato massacrante. La serietà e la professionalità però non hanno eguali. Vuole essere scrupolosa e mi dà subito fiducia, anche se la diagnosi è ancora incerta. E la brutta notizia è «la devo ricoverare subito». Al che rimango frastornato, sono solo e spaesato. Chiedo di sedermi un attimo per fare mente locale su come organizzarmi: Le faccio presente che abito fuori Torino, in provincia, che debbo avvisare casa. E lei mi dice di fare con calma, andare a casa, pranzare e poi ripresentarmi con la mia valigia alle tre del pomeriggio che mi avrebbe aspettato. La ringrazio molto e le dico velocemente di aver apprezzato la sua serietà, professionalità e umanità nell’avermi trattato come neo-paziente. Io che, da sempre, ho la fobia di aghi, dell'invasività medica, della vista del sangue e dell'odore di ospedale e di tutto ciò che è medico. Tutte cose che tirano fuori in me una forte emotività e paura.
La dottoressa Laura ha alzato gli occhi cercando il mio sguardo ed affermando più o meno sottovoce, sconsolata, scuotendo la testa «Mah, chissà che fine faremo! E’ da un po’ di tempo che corre voce che ci vogliano chiudere, che vogliano chiudere tutto entro il 2015!». Rimango allibito da questa notizia che non sapevo. E percepisco, da queste poche parole, un senso di frustrazione da parte di una donna, medico, professionista, che si “sbatte” e si fa in quattro per i pazienti, che fa il turno domenicale prima al Pronto Soccorso, poi passa nei reparti…
Lo stesso umore di una sorte di strisciante frustrazione la si percepisce velatamente anche da qualche infermiere che lo dice sussurrandolo, quasi con pudore: molti di loro, almeno quattro dello staff della clinica univeristaria dove sono ricoverato, arrivano dall’altro ospedale appena chiuso, il Valdese, altro fiore all’occhiello della sanità piemontese soprattutto per la diagnosi dei tumori al seno.
Sono una squadra di bei giovani, hanno imparato bene il loro lavoro: ad esempio, l’infermiera professionale Francesca, 34 anni, aria sbarazzina, capelli neri corti “sparati” tenuti su dal gel, quando mi deve accompagnare a fare una radiografia, è disorientata, non si ricorda bene quale scala prendere, in quale piano si trova la radiologia e mi sussurra con il sorriso sulle labbra senza preoccupazione ma con un pizzico di umorismo «sono solo pochi mesi che sono qui, arrivo dal Valdese come altri dì noi, non vorrei perdermi con lei».
Invece Fabio, 32 anni, altro infermiere pure lui collega di Francesca al Valdese, mi dice molto scocciato e scoraggiato che «si vive come un senso di frustrazione, arrivi al lavoro e temi sempre di ricevere una lettera “ordine di servizio” dall’alto che ti dice che oggi sei trasferito e che devi partire a lavorare in altra struttura chissà dove. In sostanza noi viviamo sempre con la “valigia pronta” per essere trasferiti! Sarà mica bello vivere così!». Mentre mi spiega ciò mi anticipa anche una notizia, «ho già fatto domanda di trasferimento alle Molinette. Almeno di lì non mi possono mandare via!».
Con lui, una sera che era nel turno notturno, ho parlato a lungo, ci siamo subito “piaciuti”, sentiti “in sintonia”, mi ha raccontato di sua moglie che fa la maestra e della gioia di aver saputo che aspetta un figlio che nascerà a novembre 2014.
Abbiamo guardato la partita di calcio Juventus-Lione: se riesce ogni tanto ci va proprio allo stadio a vedere i suoi giocatori del cuore di cui è un tifoso sfegatato. Fabio è anche infermiere volontario in alcuni eventi sportivi come le Olimpiadi invernali 2006 a Torino.
Mi ha poi raccontato della sua scelta di fare proprio l’infermiere «che non è un lavoro come un altro: se un ragazzo pensa quello e che si pensa solo allo stipendio ha proprio sbagliato mestiere! E’ stata dura, ho studiato tanto, mi sono impegnato perché è un lavoro che sento mio e che faccio con passione!!».
E lo si vede e tocca con mano come paziente: Dove si è mai visto un infermiere che, quando ti da l’ultima medicina a letto e ti toglie la flebo dal braccio, ti rimbocca le coperte, ti saluta con un «ciao caro, buonanotte», ti da un puffetto sulla spalla ti spegne la luce? A dire poco tutti splendidi questi giovani da cui capisci l’abnegazione, il senso di aiuto, di metterti a proprio agio come paziente e malato.
Questo atteggiamento, che varia ovviamente dalle sensibilità ed attitudini caratteriali di ciascuna persona, in quel reparto è comunque nell’aria, lo si respira tra le pareti delle stanze, degli ambulatori delle visite....
Una dedizione ed un senso di aiuto, cercando di metterti a proprio agio come paziente e malato veramente rara.
Ad accogliermi nel reparto clinica universitaria il pomeriggio del ricovero, invece, come infermiera professionale di turno c’è Rosy, simpatica, molto alla mano. Di lì a poco scoprirò piacevolmente, per una frase con la S pizzicata, che non è italiana ma venezuelana. Dopo poche ore, forse un giorno, mi rivelerà di essere solo dall’anno Duemila a Torino, di aver sposato un italiano e che al suo paese faceva la maestra di scuola materna. Però, una volta venuta in Italia, il suo titolo di studio non valeva nulla: ma anche se avesse potuto farselo riconoscere, avrebbe avuto delle difficoltà per la lingua, non parlando perfettamente l’italiano.
Ecco venir fuori la sua tenacia, la sua voglia di riscatto, la capacità di adattamento ad una nuova situazione e la forza di volontà che, forse, solo le donne hanno. Si è rimboccata le maniche, si è rimessa in gioco, ricominciando gli studi universitari di Scienze Infermieristiche, discutendo la tesi, così come mi ha raccontato, «con il pancione poiché aspettavo mia figlia che ora ha nove anni». Poi il concorso ed eccola qui, sensibile, professionale e scrupolosissima!!
Vincenzo è invece un giovanotto napoletano verace che ho soprannominato “mani di fata” per la sua delicatezza nell'infilarmi l'ago delle flebo. Con la sua calma e tranquillità, è stato l’ultimo infermiere che ho salutato all’uscita dal ricovero, l’ultimo che mi ha ancora fatto il prelievo di controllo del sangue. E mi ha detto con un pizzico di affetto ed ironia: «Ma come? Non dovevi andare via a Pasqua? Avevo preparato la pastiera napoletana da portarti! Potevamo mangiare anche la colomba assieme!! E ora come faccio?»
Vincenzo lo considererei proprio un “mago” degli aghi e dei prelievi, degno di un fachiro che dorme sul letto di chiodi. Giorno dopo giorno, conoscendoci, abbiamo parlato approfonditamente di Napoli, la sua città dove ancora ha i parenti e mi ha detto che la sua città «ha un sacco di belle cose e di tante persone che sarebbero da rivalorizzare, rivalutare perché le potenzialità ci sono, basta saperle trovare!».
Lui qui a Torino non ha parenti e mi racconta che, per accudire i figli verso cui è molto presente poiché hanno a scalare dai sei, quattro, due ed uno e mezzo anni in giù, si fa in quattro e si alternano nei turni lavorativi. Ma è anche un calciatore provetto e fa parte della squadra di calcetto dell’ ASL di riferimento dell’ospedale oftalmico.

++++

«Quando Francesco compose il suo bel Cantico di sorella acqua e frate focu, sorgente di luce per tutti noi, era gravemente malato agli occhi!!!!!»
E' l'amico Aldo Antonelli, parroco ad Antrosano (Abruzzo) a scrivermi questa tenero messaggio di auguri per la mia vista. Il paragone tra me e Frate Francesco mi pare un po' grosso, un paragone che, certo, non merito!

(Questo pezzo verrà pubblicato sul numero doppio di giugno/luglio 2014 del mensile  Tempi di Fraternità) 



Se una struttura ospedaliera pubblica funziona...ovviamente chiudiamola!!

Esperienza diretta del ricovero all'ospedale Oftalmico di Torino, fiore all'occhiello della sanità pubblica. Sconforto tra il personale medico e paramedico: gira voce che i “signori politici” ne avrebbero già decretato la sua morte nel 2015




Tecnicamente si chiama “uveite da Herpes Zoster oftalmico”. Ed una delle cose che mi da fastidio, mi “ruga”, in tutta questa storia è che la malattia che mi è venuta ce l'ha avuta anche Silvio Berlusconi! Sic! Io però, improvvisamente da un occhio solo. ho perso molti gradi di diottrie, un improvviso abbassamento della vista a 3 decimi di diottria, attaccandomi la retina e me ne ha mangiato una parte andata in necrosi. Per spiegarmi meglio: immaginatevi un bruco che si sta mangiando la foglia, ecco più o meno è capitato a me la stessa cosa.
Una esperienza che non consiglio a nessuno, ben tre flebo al giorno da un litro e mezzo di antivirali, cortisonici ecc. e una dose di colliri incredibile!!
Ma coma arriva tutto ciò? In parole semplici, così come mi è stato spiegato, essa deriva dalla varicella che io ho fatto ben quarant'anni fa, di cui però rimane il virus “dormiente” nel corpo. E può dormire per tutta la nostra vita, oppure risvegliarsi sotto forma di Herpes Zoster che colpisce quasi sempre bocca con pustole, sotto le ascelle e la schiena, e può trasformarsi anche nel famoso “Fuoco di Sant'Antonio”, con crostine e tanto bruciore e prurito. A me invece, bizzrria della vicenda, ha colpito l'occhio, in modo particolare la retina.
Sono un caso raro, qualcuno dice “da manuale” cioè che si trova solo nei libri dei medici ma che le statistiche rilevano appena. Tanto da far dire al mio medico di base - che stimo per la sua serietà e il suo rigore - «in trent'anni di servizio non avevo mai visto una cosa del genere!». Eppure è successo, e succede ancora: all'ospedale oftalmico di Torino, dove mi hanno ricoverato, delle casisteche le hanno e sanno come curare e farti riacquistare piano piano la vista. Certo, come dicono loro, «ci vuole pazienza, magari anni: sottoponendosi a tutte le terapie che abbiamo oggi a nostra disposizione, riusciamo a recuperare le diottrie e l'occhio, cosa che 25 anni fa non si riuciva ed uno perdeva completamente la vista».
Il tutto arrivato come un fulmine a ciel sereno!! E' bastato un giro domenicale in bicicletta, una lacrimazione dell'occhio che ai più sembrava una banale congiuntivite o allergia... e invece no, passata una settimana con la lacrimazione a mille, casualmente un ottico a cui ho chiesto aiuto mi ha guardato dentro e mi ha detto di andare di corsa al Pronto Soccorso dell'oftalmico di Torino.
La dottoressa di turno, dopo la prima visita, capì la gravità della cosa: prognosi riservatissima per un virus interno di cui non si sapeva ancora nulla, né da cosa fosse stato causato. Seguì il ricovero immediato, prelievi di sangue per una indagine a tappeto. Sono stato dunque sottoposto a esami ematochimici per uveiti, ecg,esami ematici per la ricerca HIV-HBV-CMV-EBV-HSV tutti negativi, prelievo umor acueo in occhio malato, esami PCR su acqueo (+PER VZV).
Era domenica 30 marzo 2014. Una strana coincidenza poiché nelle ltirugie quaresimali cattoliche si leggeva (IV Domenica di Quaresima) il racconto evangelico dove Gesù guarisce un cieco nato (ANDO’, SI LAVO’ E TORNO’ CHE CI VEDEVA - Gv 9,1-41).


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In ospedale non avevo nè pc nè internet, avevo solo il cellulare con cui ho messaggiato, telefonato, ho ascoltato la radio, ho letto libri e giornali, ricevuto visite.... ma per il resto il morale è stato molto alto, una tantum qualche lacrimuccia di scoraggiamento, ma ben poche!! Ora mi aspetta la convalescenza, tra visite settimanali lì all'oftalmico e riposo, medicine e colliri...
Certo, d'ora in poi devo saper convivere con un occhio e mezzo, un piccolo handicap superabile con forza di volontà!! Il morale necessariamente devo tenerlo alto, non ha senso deprimersi, piangersi addosso, men che meno pesare sugli altri! già mia moglie e i miei ragazzi hanno patito e sono stati per qualche settimana disorientati. Ma i figli si sono rimboccati le maniche a casa, si sono resi super-responsabili, facendosi il letto, cucinando, lavando i piatti, talvolta davo istruzioni via telefono ad esempio su caldaia, portavano fuori il cane, mio figlio bagnava il prato... diciamo che li ha fatti maturare e resposanbilizzare!! Ora che sono a casa cerco di non far pesare a nessuno la mia situazione.


++++
Mi hanno letteralmente imbottito di medicinali, in ospedale ben 3 flebo da un litro al giorno con antivirali, per un totale di 50 flebo... non avevo più vene dove bucare, braccia con ematomi un dolore indescrivibile!! rischiato flebite... allora mi hanno dato pillole sostitutive per bocca e mi hanno "rilasciato" a casa, in convalescenza fino al 31 maggio.
Nella prima visita di controllo di martedì dopo Pasquetta purtroppo non ci sono stati miglioramenti, anzi nella lettura sono sceso a 2 decimi di diottrie contro le 3 costanti di quando ero ricoverato. Poi i medici hanno visto una leggera patina gelatinosa nel fondo dell'occhio. Dicono che potrebbe essere il passaggio dalla flebo che entrava direttamente in vena, alle poastiglie che sono più blande nell'effetto poiché passano dalla digestione dello stomaco. Poi, di settimana in settimana, altre visite di controllo... sarà lunga la cosa, dicono anche anni, bisogna armarsi di una enorme pazienza!!!
+++
Debbo dirvi che sono stato piacevolmente e meravigliosamente stupito dagli amici della redazione e dai colleghi di scuola che mi avete sorretto in questa difficile fase della mia esistenza, “bombardandomi” di sms, telefonate e visite: lì ho percepito l'affetto e l'amicizia sincera… questo mi ha fatto bene per il morale!!

L'oftalmico di Torino: medici e infermieri, una gran bella umanità di cui fidarsi...ma che i politici vogliono chiudere!

Al mio arrivo quella domenica 30 marzo 2014 al Pronto Soccorso la prima che mi visita e decide per il mio ricovero è la dottoressa Laura. Leggo nel suo volto la stanchezza per il turno che, mi par di capire, deve essere stato massacrante. La serietà e la professionalità però non hanno eguali. Vuole essere scrupolosa e mi dà subito fiducia, anche se la diagnosi è ancora incerta. E la brutta notizia è «la devo ricoverare subito». Al che rimango frastornato, sono solo e spaesato. Chiedo di sedermi un attimo per fare mente locale su come organizzarmi: Le faccio presente che abito fuori Torino, in provincia, che debbo avvisare casa. E lei mi dice di fare con calma, andare a casa, pranzare e poi ripresentarmi con la mia valigia alle tre del pomeriggio che mi avrebbe aspettato. La ringrazio molto e le dico velocemente di aver apprezzato la sua serietà, professionalità e umanità nell’avermi trattato come neo-paziente. Io che, da sempre, ho la fobia di aghi, dell'invasività medica, della vista del sangue e dell'odore di ospedale e di tutto ciò che è medico. Tutte cose che tirano fuori in me una forte emotività e paura.
La dottoressa Laura ha alzato gli occhi cercando il mio sguardo ed affermando più o meno sottovoce, sconsolata, scuotendo la testa «Mah, chissà che fine faremo! E’ da un po’ di tempo che corre voce che ci vogliano chiudere, che vogliano chiudere tutto entro il 2015!». Rimango allibito da questa notizia che non sapevo. E percepisco, da queste poche parole, un senso di frustrazione da parte di una donna, medico, professionista, che si “sbatte” e si fa in quattro per i pazienti, che fa il turno domenicale prima al Pronto Soccorso, poi passa nei reparti…
Lo stesso umore di una sorte di strisciante frustrazione la si percepisce velatamente anche da qualche infermiere che lo dice sussurrandolo, quasi con pudore: molti di loro, almeno quattro dello staff della clinica univeristaria dove sono ricoverato, arrivano dall’altro ospedale appena chiuso, il Valdese, altro fiore all’occhiello della sanità piemontese soprattutto per la diagnosi dei tumori al seno.
Sono una squadra di bei giovani, hanno imparato bene il loro lavoro: ad esempio, l’infermiera professionale Francesca, 34 anni, aria sbarazzina, capelli neri corti “sparati” tenuti su dal gel, quando mi deve accompagnare a fare una radiografia, è disorientata, non si ricorda bene quale scala prendere, in quale piano si trova la radiologia e mi sussurra con il sorriso sulle labbra senza preoccupazione ma con un pizzico di umorismo «sono solo pochi mesi che sono qui, arrivo dal Valdese come altri dì noi, non vorrei perdermi con lei».
Invece Fabio, 32 anni, altro infermiere pure lui collega di Francesca al Valdese, mi dice molto scocciato e scoraggiato che «si vive come un senso di frustrazione, arrivi al lavoro e temi sempre di ricevere una lettera “ordine di servizio” dall’alto che ti dice che oggi sei trasferito e che devi partire a lavorare in altra struttura chissà dove. In sostanza noi viviamo sempre con la “valigia pronta” per essere trasferiti! Sarà mica bello vivere così!». Mentre mi spiega ciò mi anticipa anche una notizia, «ho già fatto domanda di trasferimento alle Molinette. Almeno di lì non mi possono mandare via!».
Con lui, una sera che era nel turno notturno, ho parlato a lungo, ci siamo subito “piaciuti”, sentiti “in sintonia”, mi ha raccontato di sua moglie che fa la maestra e della gioia di aver saputo che aspetta un figlio che nascerà a novembre 2014.
Abbiamo guardato la partita di calcio Juventus-Lione: se riesce ogni tanto ci va proprio allo stadio a vedere i suoi giocatori del cuore di cui è un tifoso sfegatato. Fabio è anche infermiere volontario in alcuni eventi sportivi come le Olimpiadi invernali 2006 a Torino.
Mi ha poi raccontato della sua scelta di fare proprio l’infermiere «che non è un lavoro come un altro: se un ragazzo pensa quello e che si pensa solo allo stipendio ha proprio sbagliato mestiere! E’ stata dura, ho studiato tanto, mi sono impegnato perché è un lavoro che sento mio e che faccio con passione!!».
E lo si vede e tocca con mano come paziente: Dove si è mai visto un infermiere che, quando ti da l’ultima medicina a letto e ti toglie la flebo dal braccio, ti rimbocca le coperte, ti saluta con un «ciao caro, buonanotte», ti da un puffetto sulla spalla ti spegne la luce? A dire poco tutti splendidi questi giovani da cui capisci l’abnegazione, il senso di aiuto, di metterti a proprio agio come paziente e malato.
Questo atteggiamento, che varia ovviamente dalle sensibilità ed attitudini caratteriali di ciascuna persona, in quel reparto è comunque nell’aria, lo si respira tra le pareti delle stanze, degli ambulatori delle visite....
Una dedizione ed un senso di aiuto, cercando di metterti a proprio agio come paziente e malato veramente rara.
Ad accogliermi nel reparto clinica universitaria il pomeriggio del ricovero, invece, come infermiera professionale di turno c’è Rosy, simpatica, molto alla mano. Di lì a poco scoprirò piacevolmente, per una frase con la S pizzicata, che non è italiana ma venezuelana. Dopo poche ore, forse un giorno, mi rivelerà di essere solo dall’anno Duemila a Torino, di aver sposato un italiano e che al suo paese faceva la maestra di scuola materna. Però, una volta venuta in Italia, il suo titolo di studio non valeva nulla: ma anche se avesse potuto farselo riconoscere, avrebbe avuto delle difficoltà per la lingua, non parlando perfettamente l’italiano.
Ecco venir fuori la sua tenacia, la sua voglia di riscatto, la capacità di adattamento ad una nuova situazione e la forza di volontà che, forse, solo le donne hanno. Si è rimboccata le maniche, si è rimessa in gioco, ricominciando gli studi universitari di Scienze Infermieristiche, discutendo la tesi, così come mi ha raccontato, «con il pancione poiché aspettavo mia figlia che ora ha nove anni». Poi il concorso ed eccola qui, sensibile, professionale e scrupolosissima!!
Vincenzo è invece un giovanotto napoletano verace che ho soprannominato “mani di fata” per la sua delicatezza nell'infilarmi l'ago delle flebo. Con la sua calma e tranquillità, è stato l’ultimo infermiere che ho salutato all’uscita dal ricovero, l’ultimo che mi ha ancora fatto il prelievo di controllo del sangue. E mi ha detto con un pizzico di affetto ed ironia: «Ma come? Non dovevi andare via a Pasqua? Avevo preparato la pastiera napoletana da portarti! Potevamo mangiare anche la colomba assieme!! E ora come faccio?»
Vincenzo lo considererei proprio un “mago” degli aghi e dei prelievi, degno di un fachiro che dorme sul letto di chiodi. Giorno dopo giorno, conoscendoci, abbiamo parlato approfonditamente di Napoli, la sua città dove ancora ha i parenti e mi ha detto che la sua città «ha un sacco di belle cose e di tante persone che sarebbero da rivalorizzare, rivalutare perché le potenzialità ci sono, basta saperle trovare!».
Lui qui a Torino non ha parenti e mi racconta che, per accudire i figli verso cui è molto presente poiché hanno a scalare dai sei, quattro, due ed uno e mezzo anni in giù, si fa in quattro e si alternano nei turni lavorativi. Ma è anche un calciatore provetto e fa parte della squadra di calcetto dell’ ASL di riferimento dell’ospedale oftalmico.

++++

«Quando Francesco compose il suo bel Cantico di sorella acqua e frate focu, sorgente di luce per tutti noi, era gravemente malato agli occhi!!!!!»
E' l'amico Aldo Antonelli, parroco ad Antrosano (Abruzzo) a scrivermi questa tenero messaggio di auguri per la mia vista. Il paragone tra me e Frate Francesco mi pare un po' grosso, un paragone che, certo, non merito!

(Questo pezzo verrà pubblicato sul numero doppio di giugno/luglio 2014 del mensile  Tempi di Fraternità) 


sabato 28 settembre 2013

AOSTA
28/09/2013 - AMBIENTE
Il pirogassificatore di Borgofranco
spaventa anche la Bassa Valle

L’area dove dovrebbe sorgere il pirogassificatore

“Per le nano particelle non c’è confine, la sperimentazione è una decisione scellerata”
DANIELA GIACHINO
PONT-SAINT-MARTIN
L’impianto sperimentale che la Provincia di Torino ha autorizzato per due anni a Borgofranco d’Ivrea, che prevede la combustione di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da plastiche generiche, pollina, fanghi di cartiera e fanghi provenienti da impianti di depurazione delle acque reflue urbane, ha coinvolto anche gli abitanti della Bassa Valle d’Aosta. 

A fianco dei comitati dei cittadini «Dora Baltea che respira» e «Dora Baltea in movimento» anche il gruppo «No Piro», la cui posizione boccia in modo esplicito anche la sola sperimentazione. Tra loro pure alcuni cittadini della Bassa Valle. «Siamo fermamente e pacificamente contrari all’attivazione del pirogassificatore di Borgofranco d’Ivrea, nell’area dell’ex Alcan - dice Gigi Bussi referente valdostano del comitato -. L’impianto non deve operare perché porterà sicuro e grave danno alla salute della popolazione e all’ambiente. I progetti presentati in Provincia parlano della vera intenzione speculativa: dopo la sperimentazione si vuole utilizzare l’impianto installato per passare all’incenerimento permanente di grandi quantità di rifiuti. Lo dimostra il fatto che è stata presentata la richiesta di poter bruciare 16 mila tonnellate l’anno. Il no alla sperimentazione è quindi inscindibile dal no netto all’utilizzo del grande pirogassificatore che si vuole attivare nell’immediato futuro». 

Accanto ai comitati si è schierata Valle Virtuosa. «Quello che sta accadendo ai confini della Valle d’Aosta ci tocca direttamente - dice Jeanne Cheillon, presidente di Valle Virtuosa -. Gli scienziati dicono che le nano particelle sprigionate dai pirogassificatori percorrono migliaia di chilometri. Non essendoci a Carema un muro, non solo la Bassa Valle subirà le conseguenze dell’inquinamento, ma tutta la Valle d’Aosta. Con il ricatto dei nuovi posti di lavoro si vuole imporre una decisione scellerata». 

Il comitato «No Piro» guarda al futuro. «Il turismo del futuro premierà i territori che avranno salvaguardato la loro integrità e le loro bellezze naturali - aggiunge Bussi -. Il pirogassificatore sarà un danno di sostanza e di immagine allo sviluppo di questo settore che riteniamo fondamentale dopo la deindustrializzazione del nostro territorio. L’incenerimento è un sistema di smaltimento dei rifiuti arcaico, con una ricaduta occupazionale minima. La vera occupazione proviene dall’impiego di personale in attività che realizzi la separazione, il riciclo e il recupero dei materiali». I componenti del comitato «No Piro» invitano coloro che sono interessati alla salvaguardia dell’ambiente agli incontri organizzati tutti i giovedì alle 21 al bar Sport di Tavagnasco.

FONTE:http://www.lastampa.it/2013/09/28/edizioni/aosta/il-pirogassificatore-di-borgofranco-spaventa-anche-la-bassa-valle-EojxyveM090xxWsLXFRDxO/pagina.html

sabato 12 gennaio 2013



>> Il mondo protestante valdese entra in carcere <<
(10^ puntata)


carcere parigino La Santé



Sappiamo che in generale per il mondo protestante il centro della fede è la Sacra Scrittura, “sola Scrittura”, aveva detto di seguire Martin Lutero al momento della Riforma. Oltre ovviamente alla “sola Fede e sola Grazia”.
Ecco dunque che il pastore Francesco Sciotto della Chiesa Valdese di Palermo, dopo aver effettuato il servizio civile al carcere minorile a Bicocca (Catania), chiese alla Facoltà valdese di poter effettuare un anno di studio all’estero sempre sul carcere. Fu la Fédération Protestante de France a chiedergli nel periodo ottobre 2000 - marzo 2002 di fare uno stage di lavoro alla prigione Santé a Parigi.
Rientrato in Italia dopo questa interessante e formativa esperienza, il pastore Sciotto nel maggio 2003 discusse la tesi di laurea in Teologia pratica presso la Facoltà Valdese a Roma dal titolo “Nel pozzo delle rane. Esperienze di cappellania carceraria” .
Attualmente Francesco Sciotto è coordinatore del gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione chiese evangeliche d’Italia.
Una voce autorevole, dunque, che parte affrontando l’argomento più caro a tutti i fratelli protestanti: la Bibbia con il primo capitolo dal titolo “La prigione nelle Sacre Scritture”
Nelle pagine del pastore Sciotto troviamo degli spunti molto interessanti: La Bibbia, ad esempio, che può diventare «il fulcro di ogni relazione d’aiuto. Lo è innanzitutto perché accompagna lungo il suo lavoro il counselor. Lo accompagna all’inizio della relazione, nelle prime visite dove si chiacchiera del più e del meno. Lo accompagna in seguito, nell’ascolto, quando la sofferenza si fa parola e richiesta di aiuto. Lo affianca negli alti e bassi del lavoro in generale.
Ma è fulcro anche e soprattutto perché, poco a poco, accompagna anche la sofferenza del detenuto, che in maniera naturale e spontanea chiede di leggere dei passi, di condividere le sue impressioni, le sue preghiere. È questa condivisione, questo confronto, che fa rivivere il testo biblico, che lo rende spesso parlante.
La Bibbia diventa a questo punto funzione stessa della relazione, collante dell’accompagnamento pastorale» (1).
Ovviamente però sempre più frequentemente i detenuti usavano la Bibbia come pretesto per scambiare quattro chiacchiere, per bere un caffè, insomma per incontrare qualcuno di fuori magari come «richiesta di aiuto che viene da chi esperisce un vuoto quotidiano ed esistenziale da colmare, una ferita da rimarginare, un dolore da sedare. Ebbene, credo che a pochi dei nostri contemporanei che si trovino in tali condizioni, capiti di aprire una pagina a caso delle Scritture e di trovarvi all’interno immediato lenimento. La Bibbia è, per la maggior parte delle persone, niente di più che un libro scritto troppi secoli addietro. Qualcosa che non riesce più a parlare alla gente d’oggi» (2).
Da un attenta e meditata lettura biblica si può vedere come si trovi il tema della prigionia e della prigione, ma anche quello dell’attesa che il pastore Sciotto ha evidenziato nell’Antico Testamento e dell’utilizzo repressivo del carcere portato alla luce nel Nuovo Testamento.
La cosa che fa più specie è che a Bibbia disconosce il volto della prigione e del carcere «inteso come pena. Questa peculiarità ne fa il luogo dell’espiazione, della punizione, ma anche del ravvedimento, della reinserzione» (3).
Nella Bibbia l'attesa dei prigionieri diviene l'attesa metaforica di qualche cosa d' altro, giudizio divino, intervento di un liberatore o intervento celeste.
Inoltre ci dice sempre il pastore Sciotto nella sua tesi «non c'è qui un giudizio moralistico su chi è “dentro”. Nessuno ci dice se hanno meritato o no la detenzione, semplicemente perché si tratta di persone che aspettano, che probabilmente lo fanno soffrendo e che sono in balia delle prepotenze e delle sopraffazioni dei potenti. Quest’attesa, ingiusta e per di più incerta, penosa, diventa paradigma esistenziale di coloro che attendono; metafora, pur triste, di una speranza. La loro condizione diviene un’immagine di attesa escatologica e teologica di liberazione» (4).
Interessante è poi cogliere nel lavoro del pastore Sciotto che è stato, lo ricordiamo, anche cappellano in Francia e lo è tutt'ora come volontario in Sicilia, il fatto che non si è da soli con il detenuto ma «al timone della barca, oltre a noi e al detenuto, ci sia il Cristo dormiente che, nel racconto evangelico di Mc. 4, 35-41 guida la barca in mezzo alla tempesta. È questa una notazione che in prima istanza deve essere chiara al pastore: nella relazione d’aiuto non siamo, né saremo mai capaci di aiutare qualcuno da soli, etsi deus non daretur. La nostra specificità sta nel fatto che proviamo a tradurre e riformulare le ansie e gli stati d’animo del nostro interlocutore in preghiera e riflessione; mai in terapia, né ictanto meno in analisi. Questo non significa che dovremo sempre trovare un versetto biblico che risponda per noi a tutte le frasi pronunciate da un detenuto, o che quest’ultimo debba ogni cinque minuti sentirsi da noi invitato a pregare o a studiare insieme un passo della bibbia. Tutti i manuali potranno darci delle indicazioni su come valutare ciò che abbiamo ascoltato. Come qualsiasi counselor dovremo, dopo aver valutato, scegliere una rotta possibile per far progredire il lavoro, ma dovremo fare tutto ciò sapendo che il nostro ruolo è quello di cappellani» (5).

«Sai Ciccio, negli ultimi giorni mi è capitato di trovarmi spesso a pregare per ciò che sta succedendo in Palestina. Stavo con la Bibbia in mano leggevo qualche passo, dopo aver acceso una candela, e pregavo il Signore. Vorrei che oggi facessimo questo insieme”. Avevo appena aperto la porta della sua cella, non mi ero ancora seduto, che F. mi aveva già detto queste parole. F. era un detenuto di origini nordafricane, nato e cresciuto in Francia, che prima di entrare in carcere poco o nulla aveva avuto a che fare con la religione. In prigione, dopo un lungo periodo di visite e partecipazione ai culti, chiese all’équipe dei pastori della Santé di essere battezzato. Credo che la preghiera abbia accompagnato in maniera assai rilevante il suo percorso di fede dietro le sbarre» (6).
Può capitare che il cappellano venga interpellato sulla preghiera, sul come pregare; ebbene Sciotto dalla sua esperienza ci dice di utilizzare il linguaggio comune dei detenuti e «soprattutto il momento nel quale offriamo a Dio le nostre difficoltà ed i nostri stati d’animo, perché egli se ne curi. È assolutamente importante che il detenuto che ci chiede di pregare insieme a lui riconosca nelle parole che offriamo al Signore le sue ansie, il suo ringraziamento, la sua gioia, la sua lode, i suoi modi di dire» (7).
Per ciò che riguarda il culto il pastore Sciotto racconta la sua esperienza parigina:

«Alla prigione della Santé il culto avveniva ogni quindici giorni, al sabato, animato da uno o più dei quattro cappellani dell’équipe. Dopo la lettura di un breve passo di un Salmo, o di un libro dei profeti, e una breve preghiera, si leggeva un testo e cominciava una discussione libera, introdotta dal pastore e da lui moderata. Tutti potevano iscriversi al culto e intervenire e spesso il discorso verteva su tematiche riguardanti la detenzione e la vita in carcere. Dopo una mezz’ora, si chiudeva la celebrazione con un canto, o con delle preghiere spontanee, o dicendo tutti insieme il “Padre Nostro”. Il culto protestante è considerato dai detenuti della Santè uno dei momenti di massima libertà della vita del carcere. Tradizione vuole ormai che siano iscritti al culto protestante tanti detenuti che si considerano “politici”: i baschi, ad esempio, i corsi, i kurdi. È un momento in cui ci si può incontrare e discutere e tutti i detenuti che pensano che manchino in detenzione spazi di confronto si battono perché esso funzioni. Un detenuto di origini nordafricane, che aveva scoperto che ero uno dei cappellani protestanti del carcere, e che probabilmente poco sapeva di religione e religioni, mi chiese un giorno: “tu sei il cappellano protestante? Vieni dalla Corsica o dai paesi Baschi?” Certamente non sapeva cosa fosse la Riforma. Credeva che i corsi ed i baschi fossero tutti protestanti, perché aveva sentito che quasi tutti i detenuti corsi e baschi venivano al culto protestante» (8)
Alla prigione della Santé di Parigi veniva celebrato il culto di Santa Cena che il pastore Sciotto ci descrive così: «Celebravamo la Santa Cena due volte l’anno, a Pasqua ed a Natale. La celebrazione aveva dunque una frequenza minima e coincideva con le feste. Questo ci dava la possibilità di chiedere alla direzione del carcere, sempre disponibilissima, di vivere insieme ad i detenuti un breve momento di festeggiamento dopo il culto. In questi casi chiudevamo il culto con la Cena e dopo ci fermavamo per una mezz’ora con i detenuti, per mangiare qualcosa con loro, tutti insieme. Avevamo infatti anche la possibilità, in queste occasioni, di portare qualche succo di frutta e dolcetti o salatini. Niente di particolare, in fin dei conti. Ma era un momento di festa, che potevamo passare in compagnia. Al culto protestante erano iscritti anche parecchi detenuti islamici. È ovvio che loro in primis non desiderassero partecipare alla Santa Cena: non potevano bere il vino, che è una bevanda alcolica e capivano benissimo, senza che ci fosse bisogno che qualcuno lo spiegasse loro con un divieto, che stavamo celebrando qualcosa che non apparteneva alla loro spiritualità. Ciò non vietava ad i musulmani di partecipare alla nostra e loro festa» (9).






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 (1) F. Sciotto, “Nel pozzo delle rane. Esperienze di cappellania carceraria”, tesi in Teologia Pratica della Facoltà Valdese di Roma, p. 9
 (2) Ibidem p. 8
 (3) Ibidem p. 31
 (4) Ibidem p. 32
 (5) Ibidem p. 96
 (6) Ibidem p. 99
 (7) Ibidem
 (8) Ibidem p. 102
 (9) Ibidem p. 105

giovedì 3 gennaio 2013




>>Intervista al cappellano cattolico del carcere di Opera (MI)<<
(a cura di Lidia Maggi, pastora battista Chiesa di Varese)

(9^ puntata)


"....Il male ti segna. Il carcere ti consuma, psicologicamente e fisicamente. Per sopravvivere devi sempre mantenere un certo distacco dal dolore che quotidianamente ti assale. Rispetto alla mia esperienza, all'inizio ho provato una profonda rabbia: mi chiedevo come si potessero trattare così degli esseri umani ed ero convinto di poter cambiare tutto. Poi c'è stata la sofferenza e, infine, ho avvertito un senso di assurdità per come viene gestita la detenzione. Sembra di stare in un asilo per adulti: privati di qualsiasi autonomia e iniziativa, anche i carcerati finiscono per avere un atteggiamento infantile. Durante una visita a Opera, Candido Cannavò rimase colpito dal modo in cui i detenuti cercavano di richiamare la mia attenzione. Disse che gli ricordavano i ragazzi dell'oratorio...." (Don Marcellino Brivio, già Cappellano della Casa di Reclusione di Milano Opera).





Mi è stato chiesto di aiutare chi legge a riflettere sulla preghiera in carcere. Ne ho parlato con Marcellino Brivio, cappellano del carcere di Opera (MI). Ne è nata una comunicazione intensa. Ho pensato di offrirne alcuni frammenti in questa intervista (1).
E’ possibile pregare in carcere?
«Non so se sia possibile, ma accade. Le persone in prigione pregano. E’ un bisogno che nasce dal di dentro e dalla situazione carceraria stessa. Il linguaggio della preghiera diventa paradossalmente quello con cui il detenuto si relaziona con tutti coloro che non sono segregati. Mi capita così di ricevere piccoli messaggi dove il verbo pregare è sempre presente: don Marcellino, ti prego, contatta il mio avvocato…ti prego, telefona a mia moglie… ho bisogno di vederti: ti prego, passa da me. Non va sottovalutato questo rapporto di assoluta dipendenza che rende il detenuto particolarmente vulnerabile, quando si affronta il tema della preghiera. Bisogna vigilare sul linguaggio della richiesta che trasforma la preghiera in una formula di reverenza per ottenere da chi è fuori alcuni favori. Il rischio più frequente è che la persona imprigionata, nella preghiera, più che rivolgersi ad un Dio d’amore si costruisce un’immagine di Dio dove si riproducono i rapporti di potere sperimentati nella struttura del carcere. Nel pregare ci si rivolge così ad un’entità più o meno definita ma più potente e, dunque, da riverire per ottenere dei vantaggi».
Come si prega in prigione?
«Tanti iniziano a pregare proprio in carcere. Io cerco di accompagnare quest’educazione alla preghiera con la Bibbia e, in particolar modo, con i salmi. Nei salmi il prigioniero si identifica con quel pathos che porta il salmista a gridare, a ricercare soccorso e aiuto. Le immagini di pericolo, evocate in queste preghiere, sono tradotte nella vita di ognuno con esperienze concrete di difficoltà. Questo favorisce l’identificazione con il testo. Il linguaggio dei salmi è poi talmente umano da incoraggiare chi prega a non censurare le parole, le emozioni. Si scopre così che il Dio biblico non si stanca mai di ascoltare, anche quando si esprimono sentimenti inopportuni come la collera, l’odio e la vendetta. Dio vuole entrare in dialogo con ogni aspetto della nostra vita, non vuole occuparsi solo di cose spirituali! Questo scopriamo nei salmi. Quando il detenuto arriva ad intuire questa “libertà”, inizia davvero a gustare la Bibbia ed esclama: qui si parla di me, questo sono io!»
Questo rapporto di identificazione col testo, può talvolta diventare pericoloso: quando è importante ristabilire la distanza con la narrazione biblica?
«I rischi di appropriarsi indebitamente del testo biblico sono continuamente in agguato. E’ facile leggere la storia della passione e trovare detenuti che si identificano con Gesù. Immaginate i commenti di un piccolo gruppo di detenuti che discute insieme i testi della domenica, quando si affronta il processo a Gesù. Per ogni figura c’è una trasposizione contemporanea: dal pubblico ministero all’imputato all’avvocato di ufficio. Tuttavia, questo incontro diretto con il testo è indispensabile per acquisire un rapporto personale con Dio. E’ essenziale scoprire, capire che la Bibbia parla a te! I problemi più seri nascono, invece, quando la preghiera non è mediata dall’ascolto della Parola»
Quest’ultima è l’esperienza più comune in carcere! Chi riscopre la preghiera lo fa attraverso forme tradizionaliste: ritorna di moda il rosario, i santini, i vari protettori… E non solo tra i detenuti, più spesso tra le guardie!
«E’ vero, le derive devozionalistiche sono frequenti. Il carcere non aiuta il confronto in nessun ambito, tantomeno in quello della fede. La prigione nega la vita comunitaria. Ognuno è lasciato a se stesso, senza tuttavia rimanere solo davanti a Dio. La struttura del carcere non permette una dimensione comune della preghiera, necessaria per costruire comunione (ma è possibile la comunione in carcere?) e per correggere distorsioni e superstizioni»
Come arrivano i detenuti a riscoprire la preghiera?
«Alcuni attraverso percorsi tradizionali, ascoltando radio Maria per esempio; altri, spesso stranieri, hanno avuto contatti con pastori evangelici. Da loro hanno acquisito una dinamica di “lettura pregata” della Scrittura. In entrambi i casi la preghiera aiuta il detenuto a reggere il carcere, a guardare positivamente una situazione di disagio. Ristabilisce un certo equilibrio interiore, lo rasserena, aiutandolo ad accettare la difficile realtà che si trova ad abitare»
Una preghiera che anestetizza il dolore, dunque.
«Può darsi. Il rischio di accettare troppo passivamente la struttura carceraria è davvero concreto. Non è semplice capire quando aiutare il detenuto a reagire e quando incoraggiarlo nelle fughe spirituali. L’equilibrio è sempre fragile. Da una parte è solo accettando il carcere che si può “sopravvivere” alla struttura; e dall’altra bisogna vigilare perché quest’accettazione non sia troppo tranquillizzante. Una canzone in voga dice: Siamo nel tunnel, non possiamo uscire, almeno pitturiamolo! Ecco, la preghiera può essere anche questo: il colore su un tunnel grigio per aiutare a sopportare una situazione di evidente disagio. Sì, perché il carcere è un luogo di disagio ed il detenuto dipende totalmente dagli umori di chi si trova a gestirlo. E’ soggetto a continue provocazioni, è separato dai suoi affetti ed in continua ansia per chi ha lasciato all’esterno. Si sente impotente, vulnerabile, inutile. Inoltre sperimenta l’ingiustizia proprio in coloro che dovrebbero garantire la giustizia. La rabbia deve essere repressa senza essere mai del tutto rimossa.
La preghiera può effettivamente ridare un po’ di ossigeno non solo consolando e ristabilendo la pace interiore ma anche attraverso la pratica dell’intercessione. Pregare per i familiari fuori dal carcere, affidarli a Dio, fa sentire i detenuti responsabili e attivi verso i propri cari e li aiuta a vincere quel senso di impotenza che continuamente vivono»
Qual è la forma di preghiera più comune che ti capita di ascoltare?
«Insieme alle preghiere di intercessione, le più gettonate sono quelle di richiesta e di abbandono. Alcuni nella preghiera arrivano a riconoscere il proprio sbaglio. La preghiera permette di fare un lavoro introspettivo e di leggersi dentro. Mentre nel colloquio il detenuto fatica ad ammettere il proprio errore (sono quasi tutti innocenti, secondo quanto dichiarano), se si riesce ad arrivare alla preghiera, se io riesco a pregare con la persona che mi parla, si crea una particolare intimità che permette, tramite la preghiera, di narrare la propria vita con meno filtri e con più realismo»
Ti capita di sentire di andare in cortocircuito sul alcuni temi legati al pregare, quando ti trovi in carcere?
«E’ un continuo cortocircuito, sono scosse senza salvavita! Prendiamo per esempio il tema del linguaggio. Tutto da rivedere. Pochi giorni fa come lettura domenicale del vangelo veniva proposto un testo che chiamava al pentimento. Ho sentito tutte le ambiguità del linguaggio, pensando al fenomeno del pentitismo. Ho provato a fare un po’ di ironia dicendo: “carissimi, oggi abbiamo tutti dovuto fare i pentiti!” Il linguaggio della fede va rivisitato e necessita nuove parole per annunciare la speranza evangelica in carcere»
Abbiamo affrontato il problema di ridurre l’esperienza di fede a devozionalismo ripiegato su dimensioni individualistiche. E’ possibile intravedere una pratica di vita cristiana in carcere?
«Davvero non è semplice. Qualche volta, tuttavia, capita di incontrare persone che riescono ad emanare, pur nelle difficoltà della struttura, una forza particolare. E’ una luce che ha poco spazio per irradiarsi. Può tutt’al più contagiare qualche vicino di reparto. Sono spesso persone che pregano spontaneamente, nel segreto o nei colloqui. Credo che chi prende sul serio la preghiera impari a guardare gli altri con più clemenza. Ho assistito al confronto tra due detenuti sulla preghiera. Uno diceva all’altro: Preghi per la tua famiglia e poi ti lamenti perché tua moglie non ti ha mandato le cose che le hai chiesto! Ma credi che per lei la vita sia facile? Perché preghi per lei, se poi non la capisci nelle sue fatiche? Chi prega per gli altri impara ad uscire fuori da una condizione tipica della situazione carceraria, ovvero da quell’essere così concentrato su sé stesso e sui propri bisogni da dimenticare di ascoltare gli altri»
Come è cambiata la tua fede in carcere?
«Io provengo da un’esperienza cristiana che ha messo al centro l’impegno sociale, la condivisione, l’attenzione ai poveri… La dimensione etica della fede è sempre stata molto forte nel mio modo di sentire il vangelo. Il carcere mi ha aiutato a purificare la fede, a non far coincidere il credere con le opere buone. E’ possibile essere cristiani in carcere? Credere coincide con il comportarsi bene? Sono proprio i detenuti a richiamarmi alla grazia di Dio, quando confessano: pensa te, se non c’era il Signore a risollevarmi…»


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(1) Intervista pubblicata su Gioventù Evangelica del gennaio 2006